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Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza - Formulario commentato

254. Doveri degli amministratori e dei liquidatori

[1] Gli amministratori e i liquidatori della società in liquidazione giudiziale devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il debitore e sono tenuti a fornire le informazioni o i chiarimenti necessari per la gestione della procedura richiesti dal curatore o dal comitato dei creditori.

A) Inquadramento funzionale:

A)Inquadramento funzionale:

I. La permanenza in carica degli amministratori e le relative attribuzioni - II. Le attribuzioni degli altri organi - III. Gli effetti della chiusura della liquidazione sulla società.

I. La permanenza in carica degli amministratori e le relative attribuzioni

I.La permanenza in carica degli amministratori e le relative attribuzioni

1 La dichiarazione di liquidazione giudiziale è causa di scioglimento della società di capitali (cfr. art. 2484 c.c.) ma non di estinzione che consegue, solo e non sempre, alla chiusura della procedura. Tuttavia, l’organizzazione della società resta invariata nonostante l’evento traumatico della liquidazione giudiziale. Ciò trova conferma anche in alcuni indici di diritto positivo ricavabili dalla legge concorsuale che dimostrano la permanente funzionalità degli organi societari.

2 Il fatto che gli amministratori restino in carica durante la liquidazione giudiziale lo si ricava sia dalla conformazione dell’art. 254 CCII che evoca regole similari a quelle di cui agli artt. 148 e 149 CCII, sia da quanto stabilito nell’art. 265 CCII là dove si prevede che la domanda di concordato di una società di capitali sia deliberata dall’organo amministrativo.

3 In verità, le prescrizioni che riguardano amministratori e liquidatori sono sostanzialmente duplicate: (i) nell’art. 254 si prevede che siano “tenuti a fornire le informazioni o i chiarimenti necessari per la gestione della procedura richiesti dal curatore o dal comitato dei creditori”; (ii) ma già nell’art. 149 si stabilisce che “Se occorrono informazioni o chiarimenti ai fini della gestione della procedura, i soggetti di cui al comma 1 devono presentarsi personalmente al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori”: i soggetti di cui al comma 1 altro non sono se non amministratori e liquidatori. L’espunzione del rinvio all’art. 149 CCII è parimenti neutralizzata dal fatto che in questa disposizione gli obblighi relativi alle comunicazioni in tema di residenza sono riferiti a tutti i soggetti inclusi amministratori e liquidatori.

4 Gli amministratori restano in carica ma la sfera delle loro attribuzioni è influenzata in misura decisiva dall’intervenuta dichiarazione di liquidazione giudiziale. Se è vero che agli amministratori a norma dell’art. 2380-bis c.c. compete la gestione dell’impresa ed il compimento delle operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale, quando l’impresa è in liquidazione giudiziale i poteri degli amministratori debbono fare i conti con la finalità della procedura concorsuale e con le attribuzioni del curatore.

5 In pendenza di procedura gli amministratori possono adottare determinazioni che attengono all’organizzazione della società - e che possono prevedere l’approvazione da parte dell’assemblea -; incontrano, però, un limite non potendo interferire con lo sviluppo della procedura e con le attività che spettano al curatore, salvo, appunto, la delibera di proporre la domanda di concordato concorsuale, delibera che certamente condiziona l’evolversi della liquidazione giudiziale.

II. Le attribuzioni degli altri organi

II.Le attribuzioni degli altri organi

1 L’assemblea e gli organi di controllo restano in funzione durante la liquidazione giudiziale come si ricava dalle determinazioni che spettano agli amministratori che a loro volta presuppongono l’approvazione dell’assemblea il che rinvia, anche, alla partecipazione degli organi di controllo, fermi restando i poteri sostitutivi attribuiti al curatore dall’art. 264 CCII. Gli organi della società non divengono quiescenti ma più semplicemente vedono modificate le loro funzioni in relazione alle esigenze e agli scopi della liquidazione giudiziale.

2 L’art. 2499 c.c., là dove si stabilisce che «può farsi luogo alla trasformazione anche in pendenza di procedura concorsuale, purché non vi siano incompatibilità con le finalità o lo stato della stessa», conferma che la società di capitali si può trasformare durante la liquidazione giudiziale, ma ipotizzando una trasformazione in società in nome collettivo, i nuovi soci illimitatamente responsabili non per questo potrebbero essere assoggettati alla liquidazione giudiziale per ripercussione.

3 Neppure è incompatibile con la liquidazione giudiziale un’operazione di fusione; infatti, lo stesso art. 2501 c.c., poiché esclude che alla fusione possano partecipare le società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo, lascia intendere che le società in liquidazione giudiziale possano essere interessate ad un progetto di fusione (quanto meno) sino a che non sono iniziate le attività di ripartizione dell’attivo.

4 Anche le delibere di aumento del capitale sociale sono ammesse e possono avere una specifica funzione in relazione ad operazioni di concordato di liquidazione con l’ingresso nella società dei creditori, tramite anche la conversione dei crediti in capitale.

5 Non diversamente è ipotizzabile, con gli stessi limiti della fusione, che la società debitrice deliberi la scissione, ma la delibera di scissione non può divenire uno strumento di sottrazione dei beni in costanza di procedura e ciò rivela come l’operazione societaria possa assumere concretezza solo in presenza di un concordato concorsuale o solo al momento della chiusura della liquidazione giudiziale.

6 Quando la deliberazione che viene assunta non si riflette sulla procedura concorsuale lo strumento di reazione dei creditori (nei limiti in cui si manifesti un interesse concreto e attuale) è quello dell’opposizione societaria, mentre quando la deliberazione produce un effetto concreto, ad esempio sulla proposta di concordato, i mezzi di reazione debbono essere tratti dalla legge concorsuale e nel caso emblematico del concordato concorsuale nell’opposizione all’omologazione. Le reazioni dei soci trovano, invece, tutela nei rimedi oppositori del diritto societario .

III. Gli effetti della chiusura della liquidazione sulla società

III.Gli effetti della chiusura della liquidazione sulla società

1 La chiusura della liquidazione giudiziale ai sensi dell’art. 233 CCII determina la cancellazione della società dal registro delle imprese con l’effetto dell’estinzione del soggetto nei casi di chiusura per ripartizione finale o per insufficienza di attivo.

2 Tuttavia, questa previsione tollera alcune eccezioni, eccezioni correlate al fatto che la chiusura della liquidazione giudiziale ai sensi delle lett. c) e d) dell’art. 233, non sempre esclude che vi siano ancora beni da liquidare o comunque diritti da regolare. Pensiamo al fatto che all’esito della compiuta liquidazione dell’attivo e della ripartizione finale vi sia un esubero di risorse liquide; è evidente che in questo caso le somme vanno restituite alla società, ma allora i soci anziché chiedere la liquidazione della loro partecipazione potrebbero stabilire di riprendere l’attività, previa revoca dello stato di liquidazione. Non diversamente, nell’ipotesi di insufficienza di attivo, questa potrebbe essere determinata non già dall’assenza di beni ma dalla presenza di beni che il curatore ha ritenuto di non apprendere (art. 142 CCII) ovvero di beni che dopo essere stati inventariati si è ritenuto opportuno non liquidare (art. 213 CCII). Anche in questo caso la società continua ad esistere dopo la chiusura della liquidazione giudiziale, perché si deve procedere alla fase della liquidazione.

B) Giurisprudenza:

B)Giurisprudenza:

I. Il fallimento delle società e l’attività commerciale.

I. Il fallimento delle società e l’attività commerciale

I.Il fallimento delle società e l’attività commerciale

1 Le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione [C. I 10.2.2020, n. 3026, DeJure 2020; C. I 14.12.2016, n. 25730]. Anche le società pubbliche sono assoggettabili al fallimento, anche quando abbiano ad oggetto servizi pubblici essenziali [C. I 27.9.2013, n. 22209; C. I 6.12.2012, n. 21991].

2 Ai fini della soggezione al fallimento, la qualificazione di un’attività d’impresa come commerciale o agricola va operata alla stregua delle norme del codice civile e della legge fallimentare, e non attraverso il richiamo a norme di settore - quali quelle fiscali o quelle contributive - che apprestano alla stessa attività una qualificazione di impresa agricola non suscettibile di generale applicazione, in quanto rispondente alle particolari finalità dei rispettivi ordinamenti [C. s.t. 10.4.2015, n. 7238; C. I 23.10.1998, n. 10527, Fall 1999, 625]. L’iscrizione all’albo di un’impresa artigiana, legittimamente effettuata ai sensi dell’art. 5, l. n. 443/1985, pur avendo natura costitutiva, ai limitati fini delle provvidenze previste dalla legislazione (regionale) di sostegno, non spiega alcuna influenza, “ex se”, con riferimento alla qualificazione dell’artigiano come piccolo imprenditore, come tale escluso dal fallimento, dovendosi, a tal fine, ricavare la relativa nozione alla luce dei criteri fissati dall’art. 2083 c.c. [C. I 6.9.2019, n. 22379; C. I 22.9.2000, n. 12548, Fall 2001, 788; C. I 22.12.1994, n. 11039, ivi 1995, 649].

3 Per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse. Tuttavia, in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova dell’esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dall’affectio familiaris, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare [C. I 5.7.2013, n. 16829, D&G 2013; C. s.l. 21.6.2004, n. 11491; C. 27.11.1997, n. 11975, Fall 1998, 1150]. È assoggettabile a fallimento, se insolvente, la società apparente che si configura quando due o più persone, pur non essendo legate da vincoli sociali, operano nel mondo esterno in modo da generare il convincimento che esse agiscono come soci. L’apparenza, tuttavia, non è oggetto di tutela in se stessa, ma solo in quanto strumentale alla tutela dell’affidamento dei terzi di buona fede, onde essa non può essere invocata da chi sia consapevole dell’inesistenza del vincolo sociale [C. I 12.9.1997, n. 9030, Fall 1998, 595; T. S. Maria Capua 7.4.2017, n. 1249, DeJure]. Se, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto, anche se occulta, esercitante la stessa impresa, deve essere dichiarato il fallimento della società e di altri soci occulti, senza che sia necessario provare l’insolvenza di questi ultimi, essendo il loro fallimento conseguenza automatica del fallimento della società [C. I 26.3.1997, n. 2700, Fall 1997, 1009; C. I 30.1.1995, n. 1106, ivi 1995, 919].

4 Il fallimento del titolare della gestione ordinaria dell’impresa familiare non è estensibile ai partecipanti agli utili, ai beni ed agli incrementi [C. I 27.6.1990, n. 6559, GI 1991, I, 428]. A prescindere dal problema più generale relativo alla natura in sé societaria o meno dell’impresa familiare, in ogni caso, quando il rapporto fra i componenti della stessa si strutturi all’esterno, come un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci partecipino agli utili ed alle perdite, intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendano il nome della società, manifestando palesemente, nei rapporti esterni, l’affectio societatis, si costituisce fra i componenti stessi una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230-bis c.c., di talché tale rapporto perde di rilevanza esterna, con conseguente applicazione - ad esempio - in relazione alle procedure concorsuali, dei principi generali che regolamentano le società di fatto, tra i quali l’assoggettabilità al fallimento di tutti i soggetti che partecipano al rapporto societario [C. I 24.3.2000, n. 3520, Fall 2001, 281; C. App. Roma 24.2.2021, n. 1437, DeJure].

5 È competente il giudice ordinario per la dichiarazione di fallimento di una cooperativa edilizia che eserciti un’impresa commerciale con fine di lucro, anche se essa non sia contemplata come oggetto sociale [C. s.u. 12.3.1986, n. 1665, Fall 1986, 1188].

6 Affinché il soggetto a capo di un gruppo di società (holding), sia esso a sua volta una società o una persona fisica, assuma la qualità di imprenditore commerciale e sia conseguentemente assoggettabile a fallimento è necessario che l’attività di direzione e di coordinamento, eventualmente anche finanziario, delle singole imprese controllate: a) si esplichi attraverso atti, anche negoziali, posti in essere da tale soggetto in nome proprio; b) sia inoltre idonea a produrre un incremento dei risultati economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti [C. I 26.2.1990, n. 1439, S 1990, 598]. L’insolvenza di una società appartenente ad un gruppo va valutata in relazione all’entità e alla liquidità del suo patrimonio, che costituisce la garanzia generica dei creditori della persona giuridica, non avendo influenza al riguardo il fatto che il socio dominante, svolgendo un’attività di holding individuale, accentrasse nelle sue mani i servizi finanziari e di tesoreria per tutte le società controllate e convogliasse la liquidità secondo i rispettivi bisogni, ma senza aver assunto nessun obbligo di provvista nei loro riguardi [C. I 7.7.1992, n. 8271, Fall 1993, 33; C. I 14.4.1992, n. 4550, ivi 1992, 1011]. In tema di responsabilità degli amministratori delle società di capitali la relativa disciplina è applicabile anche a coloro i quali si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il c.d. amministratore di fatto [C. I 8.10.2020, n. 21730; C. I 29.10.2008, n. 25977]. Ai fini del riconoscimento della qualità di amministratore di fatto è necessario che l’ingerenza nella gestione della società riveli caratteri di sistematicità e completezza, anche solo limitatamente ad alcuni aspetti, purché fondamentali, dell’amministrazione societaria, quali la gestione dei rapporti contrattuali in essere e la direzione del personale dipendente [C. I 8.10.2020, n. 21730, BBTC 2022].

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