[1] Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli 322 e 323, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.
[2] La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
[3] Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni.
A) Inquadramento funzionale:
A)Inquadramento funzionale:I. Il reato di ricorso abusivo al credito
I.Il reato di ricorso abusivo al credito1 Il mancato riferimento testuale della norma alla dichiarazione di liquidazione giudiziale induce a ritenere la fattispecie di ricorso abusivo al credito estranea ai reati concorsuali in senso proprio e pertanto punibile a prescindere dall’esistenza o meno di una sentenza di liquidazione giudiziale a carico dell’imprenditore commerciale. Tale orientamento, che trova sopravvenuta conferma nel mutato assetto normativo della c.d. pregiudiziale concorsuale al processo penale (cfr. infra in nota all’art. 346), implica, quale necessario corollario, l’identificazione del momento consumativo del reato con quello in cui il credito viene abusivamente conseguito dall’imprenditore.
2 La condotta consiste in qualsiasi comportamento negativo idoneo ad occultare lo stato di dissesto, ivi compresa la mera reticenza, ricorrendo invece, in virtù della riserva espressa dall’art. 325, la diversa fattispecie di truffa ex art. 640 c.p. nel caso di positive condotte di artificiosa simulazione della solidità economica dell’impresa. Il reato di ricorso abusivo al credito si differenzia dal reato di truffa essenzialmente perché, oltre ad avere carattere plurioffensivo, in quanto lesivo non solo degli interessi della banca ma anche di quelli dei precedenti creditori, potenzialmente danneggiati da un ulteriore aggravamento del passivo, richiede, sotto il profilo della condotta, la sola dissimulazione del dissesto e non anche l’impiego di artifici e raggiri; sotto il profilo soggettivo, il solo dolo generico e non quello specifico, finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto. Il reato di ricorso abusivo al credito si differenzia da quello di insolvenza fraudolenta previsto dall’art. 641 c.p., che presuppone lo specifico proposito di non adempiere, del tutto irrilevante invece ai fini dell’art. 325 e dal mendacio bancario, che l’art. 137, t.u. n. 385/1993 punisce per il solo fatto della dolosa prospettazione di dati falsi, prescindendosi da ogni rilievo sia dell’eventuale stato di insolvenza, sia della effettiva erogazione del credito, elementi entrambi richiesti invece per la realizzazione della fattispecie ex art. 325. La nozione di credito cui la norma fa riferimento è da intendersi nella più ampia accezione e ricomprende pertanto qualsiasi facilitazione economica che l’imprenditore, dissimulando il proprio dissesto, sia riuscito ad ottenere presso chiunque, restando del tutto irrilevante per la realizzazione della fattispecie che il credito venga erogato da soggetti che esplichino o meno una istituzionale attività nel settore creditizio.
B) Giurisprudenza:
B)Giurisprudenza:I. Il reato di ricorso abusivo al credito
I.Il reato di ricorso abusivo al credito1 Integra il reato di ricorso abusivo al credito, la dissimulazione dello stato di dissesto della società avvenuta attraverso l’utilizzo strumentale della posta debitoria e la natura parzialmente fittizia del finanziamento soci, non facilmente individuabile dalle banche [C. pen. V 6.6.2006, n. 38144]. Il reato di ricorso abusivo al credito richiede, per la sua configurabilità, che il soggetto al quale viene addebitato sia successivamente dichiarato fallito e, pertanto, il termine di prescrizione decorre dalla data della dichiarazione di fallimento [C. pen. V 14.7.2020, n. 25224, CED Cass. pen. 2020; in senso contrario C. pen. I 9.6.1997, n. 4021, CP 1998, 2484]. Il fallimento è presupposto necessario per configurare il reato di abusivo ricorso al credito, ovvero il reato che punisce chi continua a chiedere prestiti dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza. (Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto il fallimento di un imprenditore condizione necessaria per far scattare il reato, spostando così in avanti il termine della prescrizione, nonostante l’art. 218 l. fall. non faccia riferimento a tale necessità, dando invece un maggior peso al titolo del r.d. n. 267/1942 (capo I, titolo VI) Reati commessi dal fallito, dal quale si desume l’intenzione del legislatore di richiedere tale presupposto [C. pen. V 23.9.2014, n. 44857, GD 2014]. Il ricorso abusivo al credito di cui all’art. 218 l. fall. è reato di mera condotta e richiede che il credito sia stato ottenuto mediante dissimulazione ai danni dell’ignaro creditore, che può quindi assumere il ruolo di persona offesa, e si distingue dal reato di bancarotta impropria mediante operazioni dolose di cui all’art. 223, c. 2, n. 2, l. fall. (operazioni consistite nell’ottenimento di crediti per mascherare lo stato di insolvenza dell’impresa) nel quale non è necessaria la dissimulazione, e l’operazione - avente rilevanza causale o concausale del dissesto o del suo aggravamento - può anche essere concordata con il creditore a conoscenza delle condizioni dell’impresa [C. pen. V 30.6.2016, n. 46689, CED Cass. pen. 2017].
2 Per la configurabilità del reato previsto dall’art. 218 l. fall. non è necessario che l’imprenditore abbia compiuto atti positivi di occultamento, diretti a celare o mascherare il suo stato patrimoniale, né che il medesimo abbia fatto dichiarazioni mendaci, essendo sufficiente la semplice reticenza di ordine al proprio dissesto. Deve ritenersi punibile ai sensi della citata disposizione anche l’imprenditore che abbia fatto ricorso abusivo al credito dopo la dichiarazione di fallimento, ben potendo lo stato di dissesto essere dissimulato nei confronti di determinate persone nonostante la pubblicità della dichiarazione stessa [C. pen. III 21.5.1969, Baglivo, RP 1961, 618]. Il reato di ricorso abusivo al credito, previsto dall’art. 218 l. fall. si distingue dal reato di truffa previsto dall’art. 640 c.p., perché per la sua sussistenza non è richiesto né il fine specifico dell’ingiusto profitto con altrui danno (eventuale), né l’uso di artifici o raggiri, non potendo considerarsi artificio o raggiro la semplice dissimulazione dello stato d’insolvenza [C. pen. 13.2.1986, Maniglia, RP 1987, 377]. Il delitto di ricorso abusivo al credito ha un’oggettività giuridica più ampia di quello di truffa, atteso che il disvalore di questo delitto viene assorbito in quello del reato fallimentare che è volto a tutelare non solo il patrimonio del nuovo creditore ma anche quello dei creditori preesistenti e comunque ad evitare, nell’interesse pubblico dell’economia nazionale, che soggetti destinati al fallimento facciano ricorso al credito distruggendo risorse economiche che potrebbero essere impiegate più proficuamente; proprio per tale ragione, il delitto di cui all’art. 218 l. fall. si caratterizza per più elementi specializzanti rispetto alla truffa, ossia per la particolare qualità che deve rivestire il soggetto attivo e la necessità che alla condotta segua la sentenza dichiarativa di fallimento, necessaria affinché il danno non resti limitato al soggetto che ha concesso nuovo credito, tra le due norme sussiste un rapporto di specialità, che consente di individuare nell’art. 218 l. fall. la norma prevalente [C. pen. V 24.6.2019, n. 36985, D&G 2019]. L’art. 218 l. fall. non richiede, a differenza di quanto fa l’art. 641 c.p. in tema di insolvenza fraudolenta, che l’imprenditore che contrae debiti pur essendo in stato di dissesto sia assistito dalla volontà di non adempiere, ritenendo invece sufficiente il dolo generico, che si concreta nella coscienza e volontà di far ricorso al credito nonostante il pericolo che la situazione di dissesto costituisce per le ragioni del creditore, nei confronti del quale detta situazione viene dissimulata [T. Firenze 26.7.2017, n. 2634, DeJure 2018]. Il ricorso abusivo al credito è reato plurioffensivo, nel senso che la norma mira a tutelare il patrimonio del creditore dal pericolo di inadempimento riconnesso allo stato di insolvenza del debitore - ad esempio, la banca indottasi a concedere credito per una errata valutazione delle condizioni dell’impresa causata dalla reticenza e/o da una falsa rappresentazione delle condizioni aziendali da parte dell’imprenditore - e al tempo stesso intende garantire sia l’intangibilità del patrimonio aziendale, che costituisce la garanzia dei creditori, evitando che il dissesto venga aggravato da operazioni rovinose, sia la par condicio creditorum, che è il bene tutelato da tutte le procedure concorsuali [C. pen. V 18.10.2002, n. 38225, GD 2003, 84].
3 L’erogazione del credito che sia qualificabile come abusiva, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economica-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività d’impresa. Tuttavia, non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi d’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi. [C. I 14.9.2021, n. 24725, FI 2021, 3897].