Massimiliano Lanzi
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il fatto tipico di omicidio: le definizioni di «uomo», «vita» e «morte». – 3. Soggetto attivo e condotta del delitto di omicidio. – 4. L’elemento soggettivo dell’omicidio doloso e il problematico confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. Casi. – 5. Circostanze aggravanti dell’omicidio: artt. 576 e 577 c.p.
1. Introduzione.
1.Introduzione.L’incriminazione dell’omicidio doloso è senza dubbio una delle «costanti» della storia del diritto penale, forse la più significativa, dal momento che la tutela della vita dei consociati rientra tra le funzioni minime e irrinunciabili di ogni potere statuale organizzato. E tuttavia, i confini della punibilità del fatto omicidiario si presentano, in chiave sia sincronica sia diacronica, particolarmente «variabili», e ciò in ragione del mutevole riconoscimento legislativo di ipotesi di omicidio scriminate. Si pensi alla maggiore o minore ampiezza del requisito della proporzione nella legittima difesa, e quindi alla possibilità di scriminare, ad esempio, l’uccisione dell’intruso da parte del padrone di casa. O ancora, all’eventuale liceità dell’uccisione di esseri umani su cui l’agente vanti un dominio assoluto, quali, in certe culture antiche, i propri schiavi o persino i propri figli. E altresì, su un piano pubblicistico, possono considerarsi in questo senso la pena di morte, l’eutanasia attiva, gli atti di guerra o altre forme di “uccisioni di Stato”. Insomma, sopprimere dolosamente una vita umana non costituisce (e non ha costituito) sempre un atto delittuoso, ed è piuttosto il legislatore, informato anche ai canoni culturali e sociali del suo tempo, ad individuare i limiti di punibilità della fattispecie in argomento.
Concezione utilitaristica
A tale riguardo, le scelte normative in materia di omicidio risentono, inevitabilmente, della diversa concezione che può aversi dell’essere umano e delle relative esigenze di tutela. Si possono riscontrare, così, due distinti approcci, di stampo, rispettivamente, utilitaristico o individualistico. Il primo si radica nell’idea dell’uomo come strumento per il raggiungimento di finalità ulteriori e generali, riconducibili vuoi allo Stato, vuoi ad altre articolazioni della collettività. In questa prospettiva, il diritto alla vita si considera, al pari di ogni altro diritto, limitabile e adattabile ad esigenze che trascendono il singolo individuo, il quale, a certe condizioni, è quindi sacrificabile. Si osservi, in questi termini, la (presunta) antica pratica dell’abbandono presso il Monte Taigeto dei neonati spartani giudicati inadatti, per deformità fisica, ad essere inquadrati nella fanteria oplitica. O ancora, il tragico programma di “igiene razziale” Aktion T4 condotto in Germania dal regime nazionalsocialista, che ha comportato il sistematico abbattimento di soggetti, bambini e adulti, portatori di “tare” genetiche o di disabilità fisiche e mentali, rei di indebolire – secondo tali scellerate ideologie – la forza del popolo tedesco.
Concezione individualistica
Il diverso approccio individualistico, invece, riconosce nella vita umana un valore verso cui tende l’intero ordinamento giuridico, il quale ha proprio il fine ultimo di garantire, attraverso le proprie articolazioni, la salvaguardia dell’essere umano e della sua integrità. A queste condizioni si afferma l’idea, opposta a quella utilitaristica, della indisponibilità dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali, tra cui naturalmente la vita stessa. Nel solco di tali coordinate culturali si colloca la Costituzione italiana, la quale, nell’unanime opinione degli interpreti e nell’esegesi che ne è stata data dalla Corte Costituzionale, afferma il primato della persona umana, in linea del resto con le principali fonti sovranazionali cui l’Italia aderisce, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A riprova di ciò, si osservi la previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 27 Cost., per cui «non è ammessa la pena di morte»: si tratta di un divieto assoluto, il quale, a seguito di una riforma del 2007, non ammette eccezioni, neppure – come previsto invece originariamente, dai padri costituenti – nelle leggi militari di guerra.
A livello codicistico, i delitti contro la vita e l’incolumità individuale sono posti nel Libro II, entro il Capo I del Titolo XII – Dei delitti contro la persona. L’omicidio (art. 575 c.p.) costituisce la prima norma del Capo e quindi del Titolo: tale collocazione ne valorizza la maggiore gravità sostanziale, tanto in rapporto alle ipotesi speciali di omicidio doloso (quali l’infanticidio, art. 578 c.p., o l’omicidio del consenziente, art. 579 c.p.) quanto, a maggior ragione, rispetto alle fattispecie di omicidio sorrette da un diverso, e meno grave, elemento soggettivo, quali sono l’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.) e l’omicidio colposo (art. 589 c.p.).
2. Il fatto tipico di omicidio: le definizioni di «uomo», «vita» e «morte».
2.Il fatto tipico di omicidio: le definizioni di «uomo», «vita» e «morte».L’art. 575 c.p., rubricato «omicidio», dispone che «chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno».
Definizione di «uomo»
Questione di particolare momento – e determinante nella prospettiva dell’applicazione di tutti i delitti contro la vita – è la definizione di «uomo», di cui alla lettera della suddetta norma. Il riferimento è da intendersi non certo in termini di genere sessuale – e cioè in senso differenziale rispetto a «donna» – quanto di specie animale, comprendendo qualunque essere umano, ovvero appartenente alla specie Homo sapiens. In alcune culture antiche si tendeva ad escludere l’“umanità”, e la conseguente tutela penale, dei neonati o degli adulti c.d. mostruosi: in certe costituzioni di diritto romano, ad esempio, le sembianze umane sarebbero state presupposto della personalità. Oggi, naturalmente, le prospettive individualistiche di valorizzazione della vita umana in ogni sua forma impediscono di trarre simili conclusioni, e la tutela penale è quindi estesa ad ogni persona, anche se affetta da gravissime malformazioni, a prescindere inoltre da quale ne sia il livello di abilità fisica o mentale. Si deve inoltre ritenere, sempre in virtù di analoghe prospettive di massimizzazione della tutela della persona umana, che questa prescinda da quale ne siano state le modalità di concepimento o di gestazione, estendendosi quindi – pur in scenari di difficile gestione dal punto di vista della bio-etica – a uomini clonati o c.d. umanoidi, in quanto portatori di patrimonio genetico umano (F. Mantovani).
L’essere umano, per costituire il soggetto passivo del fatto omicidiario, deve, ad ogni modo, essere vivo. È quindi dalla definizione di «vita» e di «morte» che si ricava l’effettiva portata delle fattispecie in argomento. La prima, in particolar modo, appare di particolare rilevanza per tracciare i confini tra i reati di omicidio e quelli di aborto. E infatti, mentre le condotte che sopprimono una «vita» risultano inquadrabili nei delitti di omicidio (vuoi doloso, preterintenzione o colposo, a seconda del distinto elemento soggettivo che sorregge la condotta), i fatti che arrecano offesa alla vitalità del feto – prima che questi divenga «persona» o «uomo», in senso giuridicamente qualificato – vanno ricondotte alle ipotesi di interruzione di gravidanza, volontaria, preterintenzionale o colposa, contemplate ora nel nuovo Capo I-bis del medesimo Titolo XII del Libro II del codice penale (artt. 593-bis e 593-ter c.p.), rubricato «dei delitti contro la maternità».
L’inizio del parto come inizio della «vita»
Ebbene, un riferimento normativo di particolare importanza, a tale riguardo, è rappresentato dall’art. 578 c.p., il quale punisce la madre che, a causa di una condizione di abbandono morale o materiale, «cagiona la morte» del proprio neonato «immediatamente dopo il parto» o «del feto durante il parto». Dal momento che il presupposto logico perché si possa «cagionare la morte» è che vi sia una «vita», gli interpreti ricavano, dal testo di tale disposizione, che la «vita», tutelata dalla legge penale, inizi in un momento che anticipa la nascita vera e propria, e cioè con il distacco del feto dall’utero, da collocarsi con l’inizio del parto. Di questo avviso è anche la giurisprudenza consolidata, la quale afferma come nel concetto di «uomo» quale soggetto passivo del reato di omicidio debba intendersi anche il «feto nascente», specificando che il termine, invero, sia usato impropriamente, in quanto «il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona» (Cass., 2 dicembre 2004, n. 46945, concetto ribadito, più di recente, in Cass., 30 gennaio 2019, n. 27539). Occorrerebbe quindi considerare come momento di principio della «vita» – secondo alcune recenti pronunce giurisprudenziali – l’«inizio del travaglio» o «la rottura del sacco amniotico». Descrizioni queste, invero, piuttosto imprecise, a mente del fatto che, come noto, la “rottura delle acque” si colloca generalmente prima dell’inizio del travaglio vero e proprio; ma altresì che la stessa si possa verificare addirittura dopo l’avvenuta espulsione del feto dall’utero, cioè dopo la nascita. La sussistenza di tali inesattezze, riscontrabili nella giurisprudenza di legittimità, testimonia come non sia facile collocare giuridicamente, in un percorso così complesso e diversificato qual è il termine gravidanza, l’«inizio del parto».
L’inizio della «vita» in caso di parto cesareo
Maggiori dubbi esegetici si registrano con riguardo ai casi in cui il parto non avviene naturalmente bensì chirurgicamente, con taglio cesareo. In tale evenienza, secondo una parte degli interpreti dovrebbe aversi riguardo, per stabilire l’inizio della «vita» tutelata dagli artt. 575 ss. c.p., al momento in cui inizia l’intervento chirurgico (Antolisei). Secondo una diversa impostazione invero – che appare a noi preferibile – tale soglia andrebbe collocata nell’attimo in cui si pratica il taglio dell’utero (Ambrosetti). Ad ogni modo, al netto di tali dubbi interpretativi, la ricostruzione maggiormente condivisa e condivisibile, anche in sede giurisprudenziale, in materia di c.d. tutela del feto, anticipa la tutela alle fasi precedenti la nascita vera e propria, ma pur sempre inquadrabili nella finestra finale del periodo gestazionale.
Teoria del feto compatibile con la vita autonoma
Nella letteratura penalistica di registrano, a tale riguardo, anche opinioni diverse. Secondo una distinta impostazione, infatti, «uomo» non sarebbe solamente il nato o il nascente, ma altresì il «capace di vita autonoma», anche se ancora nel ventre materno, e quindi il feto che abbia raggiunto uno sviluppo idoneo alla vita extracorporea, da valutarsi in base alle progressive acquisizioni della migliore scienza neonatologica del momento storico (F. Mantovani). Riscontro normativo di tale teoria risiederebbe nell’art. 7 L. n. 194/1978 («norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza»), ai sensi del quale, «quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto», l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza o il parto comportino grave pericolo per la vita della donna, e il medico deve comunque adottare ogni misura «idonea a salvaguardare la vita del feto». La tesi in argomento, tuttavia, non sembra convincente, in quanto appare grandemente incerto e indeterminato il sindacato teso a stabilire, ex post, quando il feto avesse raggiunto un livello di «compatibilità con la vita extracorporea»: vuoi perché risulterebbe molto difficile ricostruire quale fosse la «migliore scienza neonatologica del momento storico», utile ai fini dell’accertamento di cui sopra; vuoi in quanto tale valutazione non potrebbe che compiersi secondo canoni probabilistici, riconducibili a quali fossero le chance di sopravvivenza extrauterina del feto al momento della sua “morte”, e mai puramente oggettivi (quali sono invece l’inizio del travaglio e il distacco del feto dall’utero).
La soluzione offerta dalla dottrina prevalente, e accolta dalla giurisprudenza, rappresenta quindi, ad oggi, l’opzione non solo più solida sul piano esegetico, ma altresì più conforme al principio di legalità e al conseguente statuto di precisione del precetto.
La questione attinente all’individuazione dell’inizio della «vita», penalisticamente intesa, presenta ricadute pratiche di grande rilevanza. Ad esempio nel settore medico, nel quale condotte errate del personale sanitario che comportano la «morte» del feto potranno essere diversamente qualificate, come omicidio piuttosto che come interruzione di gravidanza, a seconda del momento in cui si verifica, appunto, la cessazione di vitalità del nascituro. Sebbene tale casistica riguardi, naturalmente, l’ambito colposo, e non già doloso, e le fattispecie potenzialmente interessate saranno pur sempre quelle di omicidio colposo e interruzione di gravidanza colposa; con le peculiarità, peraltro, proprie del settore della colpa medica, in cui vigono regole giuridiche per l’ascrizione della responsabilità colposa in parte diverse rispetto a quelle comuni (vedi sul punto infra, nella parte dedicata alla disciplina speciale dell’art. 590-sexies c.p.).
Nella più recente cronaca giudiziaria, tuttavia, non mancano casi in cui la medesima questione rilevi anche nella prospettiva, ben più drammatica, dell’applicazione delle fattispecie dolose di riferimento. Si pensi, in questo senso, al caso in cui si verifichi l’uccisione volontaria di una donna in avanzato stato di gravidanza da parte del compagno, padre del nascituro. Sebbene gli organi di stampa si riferiscano spesso, in siffatte ipotesi, all’«omicidio del feto», tale espressione non appare giuridicamente corretta. Aderendo alla teoria oggi maggioritaria, il fatto sopra descritto, infatti, non configurerebbe un duplice omicidio (della donna e del feto vitale), quanto un omicidio (della madre) e una interruzione volontaria di gravidanza. E ciò in quanto, per le ragioni esposte sopra e alla luce anche della consolidata giurisprudenza in argomento, il feto, ancorché in avanzata fase di sviluppo, non rientra nella categoria di «uomo» tipica ai sensi dell’art. 575 c.p., e non ne è quindi tutelato.
La morte celebrale come «morte» dell’uomo
Come anticipato, altra questione esegetica di particolare rilevanza riguarda l’individuazione del momento finale della vita umana, ovvero della «morte», la quale costituisce proprio uno degli elementi essenziali delle fattispecie di omicidio. Lo sviluppo delle tecniche mediche, e in particolare di quelle relative alla rianimazione, ha da tempo comportato il superamento delle più tradizionali impostazioni che riconducevano la «morte» all’arresto del sistema cardio-circolatorio e respiratorio. Il legislatore è quindi intervenuto adottando, a tale scopo, un diverso criterio, corrispondente a quello della morte cerebrale della persona. E infatti, ai sensi dell’art. 1 L. 29 dicembre 1993, n. 578, «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo». In questo senso, il successivo art. 2 della medesima legge dispone che «la morte per arresto cardiaco si intende avvenuta quando la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».
3. Soggetto attivo e condotta del delitto di omicidio.
3.Soggetto attivo e condotta del delitto di omicidio.La fattispecie di omicidio di cui all’art. 575 è un reato comune, realizzabile infatti da «chiunque». In ragione della natura di reato d’evento, tuttavia, nelle ipotesi omissive il soggetto attivo del reato può essere solo colui che sia gravato da un obbligo giuridico di impedire l’evento, conformemente alla previsione di cui all’art. 40, comma 2, c.p., ai sensi della quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». E così, ad esempio, è omicidio volontario la condotta del bagnino Tizio che vede il bagnante Caio, proprio nemico, in difficoltà, e non interviene, lasciandolo affogare.
Causalità dell’omicidio
L’omicidio è un reato di evento a forma libera o “causalmente orientato”, rilevando in senso tipico qualsivoglia condotta, attiva o omissiva, che risulti causale alla morte di un uomo, con mezzi diretti o anche indiretti. Il nesso di causalità andrà accertato – al pari di ogni altro reato di evento di danno e guardando, in questo senso, agli istituti di parte generale della materia – ricorrendo alla teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche, tesi oggi accolta anche a livello giurisprudenziale. Ai sensi di tale impostazione, una condotta può dirsi causa di un certo evento solo in presenza di leggi scientifiche di copertura, alla luce delle quali, secondo una spiegazione, quindi, generalizzante e astratta, a quel tipo di condotta consegue, sempre o comunque con un alto livello di probabilità razionale, l’evento tipico: nel caso dell’omicidio, la morte di uomo.
Il problema del c.d. omicidio indiretto
Di particolare complessità si presenta la ricostruzione del nesso causale, che deve sussistere tra la condotta e l’evento, nei casi di c.d. omicidio indiretto, rendendosi necessario comprendere se circostanze ulteriori e sopravvenute, e che hanno contribuito alla verificazione dell’evento letale, consentano comunque di fondare un nesso di causalità qualificato, nei termini sopra descritti, tra una certa condotta e l’evento morte della persona.
Esempio di c.d. omicidio indiretto, ad oggetto di significativi casi giurisprudenziali degli ultimi decenni, è quello della morte in conseguenza del contagio da virus HIV, in cui rilevano significative difficoltà nel ricostruire con certezza un legame tra contagio del virus, l’evoluzione della malattia e la morte. In un caso tale nesso di causalità è stato riconosciuto sul presupposto che la vittima, contagiata dal marito (consapevole della propria sieropositività) a seguito di numerosi e regolari rapporti non protetti, nel quadro di una relazione esclusiva, era morta per AIDS conclamata.
4. L’elemento soggettivo dell’omicidio doloso e il problematico confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. Casi.
4.L’elemento soggettivo dell’omicidio doloso e il problematico confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. Casi.La fattispecie dell’art. 575 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, che si realizza quando l’agente ha agito rappresentandosi e volendo la morte di un uomo quale conseguenza della propria condotta; senza che sia necessario, a tale riguardo, l’accertamento di alcun elemento ulteriore, quali ad esempio lo scopo o le motivazioni di tale condotta.
È opportuno evidenziare come il dolo di omicidio abbia ad oggetto la morte «di un uomo», non richiedendo che l’agente abbia contezza dell’identità della persona uccisa. E così, costituisce omicidio non solo la condotta di Tizio che uccide il proprio nemico Caio, bensì anche – pensando ad alcuni brutali fatti di cronaca – il fatto di chi toglie la vita ad un estraneo nel corso di una lite casuale, avvenuta per strada o davanti ad una discoteca; o ancora, il fatto di chi apre il fuoco o lancia la propria vettura contro una folla indistinta di individui, tutti egualmente estranei all’autore del folle gesto; sempre con la volontà, appunto, di uccidere degli esseri umani. Ad analoghi risultati si perviene anche, richiamando sul punto un altro importante istituto di parte generale, nel caso di errore commesso nell’esecuzione del reato, per cui – ai sensi della disciplina del c.d. aberratio ictus, di cui all’art. 82 c.p. – Tizio che spara mirando al proprio nemico Caio, con l’intenzione di ucciderlo, risponde di omicidio anche se sbaglia mira e colpisce e uccide l’estraneo passante Sempronio, proprio «come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere» (salve alcune regole particolari in punto di applicazione delle circostanze).
Laddove l’agente, tuttavia, abbia commesso sì degli atti lesivi nei confronti di una persona poi deceduta, ma senza che ne volesse cagionare la morte, si potrà configurare la diversa figura dell’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.); sempre che tale esito lesivo fosse concretamente prevedibile, per l’agente, al momento della condotta.
Sul piano dell’intensità del dolo, la fattispecie è inoltre punibile sia a titolo di dolo intenzionale, che sussiste quando l’agente ha agito proprio con la finalità di uccidere una certa persona, sia per dolo diretto, quando l’agente cioè, pur non avendo “preso di mira” la vittima, agisce con la consapevolezza che dalla propria condotta, in modo certo o comunque altamente probabile, conseguirà la morte di una persona.
Omicidio e dolo eventuale
L’omicidio doloso è punibile anche a titolo di dolo eventuale, e risulta tuttavia problematica, nella prassi, l’enucleazione dei casi in cui possa trovare applicazione tale criterio di imputazione soggettiva, date le molte incertezze che, specie negli ultimi decenni, sono emerse dalla casistica giurisprudenziale in merito alla distinzione tra lo stesso e l’affine, ma qualitativamente ben diversa, colpa con previsione o colpa cosciente. A tale riguardo – ovvero in merito ai criteri distintivi e differenziali tra i suddetti canoni di ascrizione della responsabilità – la fattispecie di omicidio si è rivelata una sorta di “palestra” in cui si sono dipanate, spesso nel corso di casi giudiziari di particolare rilievo sociale e mediatico, le articolate questioni sottostanti, che pure in senso stretto appartengono non già alla parte speciale quanto a quella generale del diritto penale.
Contagio da HIV
E così, ci si può riferire ancora – come già in tema di ricostruzione del nesso causale – ad alcuni discussi casi legati alla trasmissione del virus HIV. In una nota vicenda giudiziaria, la Corte di Cassazione aveva qualificato come omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento – e non come omicidio doloso, come sostenuto dall’accusa – la condotta del marito che, consapevole della propria sieropositività, intrattiene con la moglie (ignara delle condizioni di salute del partner), nel contesto di un rapporto esclusivo, numerosi rapporti non protetti, contagiandola e causando quindi la malattia di AIDS conclamata, con esiti fatali. Per la giurisprudenza, infatti, rientrerebbe nel campo della colpa cosciente la condotta di un soggetto che, pur essendosi figurato un certo evento come possibile, abbia agito nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che lo stesso non si sarebbe poi verificato. Da rilevarsi tuttavia come, in un diverso e più recente caso, la Corte di Cassazione abbia invece confermato una severa sentenza di condanna per lesioni personali gravissime, configurando dunque un’ipotesi dolosa e non meramente colposa, in capo ad un soggetto sieropositivo che, nel corso degli anni, aveva avuto rapporti non protetti con un cospicuo numero di donne, tacendo la propria condizione di salute e causando, in questo modo, decine di contagi. Nel caso in cui sopravvenga la morte, per AIDS conclamata, di una delle vittime di tale “untore seriale”, potrebbe quindi trovare accoglimento, a tale stregua, una qualificazione omicidiaria ben più severa di quella colposa: si tratterebbe infatti, in presenza di una condotta lesiva a base dolosa, quantomeno di omicidio preterintenzionale, se non addirittura doloso, data la particolare spregiudicatezza e indifferenza per la salute altrui dimostrate da tale soggetto.
Sassi dal cavalcavia
Un’altra categoria di fatti che si ponevano, giuridicamente, al confine tra dolo eventuale e colpa cosciente era la casistica – che pare fortunatamente avere perso di attrattività e quindi di attualità – del lancio dei sassi dai cavalcavia autostradali, all’indirizzo di automobili di ignari conducenti sottostanti. Dopo essersi manifestate, specie in dottrina, diverse opinioni a tale riguardo, la giurisprudenza pare oggi indirizzata in senso univoco a qualificare simile fatto, laddove ne derivi la morte di una persona, come omicidio volontario ex art. 575 c.p. (potenzialmente sorretto, addirittura, dal dolo diretto di omicidio, e non meramente eventuale), e non già come omicidio colposo, ancorché aggravato dalla previsione dell’evento.
Una serie di casi più recenti è stata, poi, un banco di prova ancora più significativo, vuoi perché hanno consentito di declinare ancora più a fondo i tratti distintivi dell’imputazione dolosa rispetto a quella colposa, vuoi perché hanno interessato un ambito, quello della sicurezza sul lavoro, che era tradizionalmente estraneo al perimetro di fattispecie dolose quale quella di cui all’art. 575 c.p.
Caso Thyssen Krupp
E così, in particolare, nel caso Thyssen Krupp la giustizia italiana ha vagliato le responsabilità dei vertici dell’omonima impresa multinazionale tedesca dell’acciaio, in relazione ad un gravissimo incidente avvenuto in uno stabilimento di Torino nel 2007, nel quale perdevano la vita ben sette operai, in circostanze particolarmente drammatiche. L’accusa, in quel caso, sosteneva che l’incidente era stato causato da una serie di gravi violazioni cautelari da parte dei vertici dell’impresa, i quali, pur in presenza di pericoli ben noti, avrebbero deciso di risparmiare i costi necessari all’ammodernamento dell’impianto, accettando il rischio, quindi, che si verificassero incidenti letali di tale portata. Nel primo grado di giudizio la Corte d’Assise di Torino accoglieva, almeno in parte, la tesi accusatoria, condannando il massimo vertice dell’impresa per omicidio volontario, sorretto del dolo eventuale. I manager di livello inferiore, invece, venivano condannati per omicidio colposo, pur aggravato dalla previsione dell’evento, in quanto gli stessi avrebbero fatto affidamento in poteri decisionali e competenze altrui perché non si verificasse l’evento (ovvero l’incidente con esiti mortali), dagli stessi pure previsto come possibile: speranza questa che non poteva ragionevolmente essere condivisa dall’amministratore delegato, il quale era dotato dei massimi poteri decisionali e che non poteva quindi confidare nell’intervento “salvifico” di altri.
Nei successivi gradi di giudizio, tuttavia, i Giudici derubricavano anche il fatto dell’amministratore delegato in omicidio colposo, aggravato dalla previsione dell’evento (colpa cosciente), in quanto pareva irragionevole che la decisione di risparmiare i costi necessari per la messa in sicurezza dell’impianto equivalesse ad accettare rischio che si verificasse, a causa di ciò, un evento – morte degli operai e blocco della produzione – molto più oneroso, per la società, di quanto sarebbe stata tale spesa. In questi termini, non poteva dirsi che il vertice di Thyssen Krupp avesse «voluto», in senso penalisticamente qualificato, la morte di quegli operai.
«Pirati della strada»
Altra casistica di particolare momento riguardava, a tale proposito, gli incidenti stradali con esito mortale, causati da gravi violazioni delle regole cautelari stradali commesse da soggetti considerati, in senso criminologico, “pirati della strada”. Negli anni, infatti, tale fenomeno aveva destato un particolare allarme sociale, per fronteggiare il quale la giurisprudenza tendeva ad allargare a dismisura le maglie del dolo eventuale facendovi rientrare fatti che avrebbero forse meritato una diversa qualificazione colposa, pur con tutte le aggravanti del caso – che comunque la legge prevedeva. Almeno questa questione può dirsi tuttavia superata dall’avvenuto inserimento di una ipotesi speciale di «omicidio stradale» – e di altra di «lesioni colpose stradali grave e gravissime» – la quale prevede l’irrogazione di sanzioni particolarmente severe in caso di sinistro con esito mortale causato da particolari, e gravi, violazioni al codice della strada (vedi infra, il capitolo dedicato all’omicidio stradale e agli altri reati stradali, ex artt. 589-bis ss. c.p.).
5. Circostanze aggravanti dell’omicidio: artt. 576 e 577 c.p.
5.Circostanze aggravanti dell’omicidio: artt. 576 e 577 c.p.Gli artt. 576 e 577 c.p. prevedono una serie di circostanze aggravanti speciali (in quanto si applicano alla sola fattispecie di omicidio, di cui all’art. 575 c.p.) e ad effetto specifico, che comportano cioè l’irrogazione di una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per la fattispecie base: l’ergastolo, in luogo della reclusione (non inferiore ad anni ventuno) prevista per l’omicidio. A queste si aggiunge la previsione di cui al secondo comma dell’art. 577 c.p., la quale dispone invece una circostanza ad effetto speciale, comminando la reclusione da ventiquattro a trent’anni per l’omicidio di individui legati all’agente, come si vedrà, da alcuni rapporti particolari.
Omicidio e pena di morte
Nella versione originaria del codice penale, le circostanze aggravanti di cui all’art. 576 c.p. comportavano la pena di morte, la quale è stata tuttavia sostituita con l’ergastolo ad opera del decreto luogotenenziale n. 224 del 1944; il riferimento, in rubrica, alla «pena di morte» è stato poi definitivamente eliminato nel 2012. Si tratta quindi delle circostanze aggravanti di maggior disvalore che, ad opinione anche del legislatore del 1930, avrebbero meritato un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quelle previste nel successivo art. 577 c.p., il quale prevedeva già in allora la “sola” pena dell’ergastolo. L’avvenuta abolizione della pena di morte ha comportato il venire meno di una oggettiva ragione distintiva tra le due ipotesi normative.
Il c.d. nesso teleologico
Il numero 1 dell’art. 576 c.p. prevede, anzitutto, l’aggravante del c.d. nesso teleologico; la quale, ricordiamo, è anche circostanza aggravante comune, e ad effetto comune, di cui al n. 2 dell’art. 61 c.p. La legge commina, quindi, la pena dell’ergastolo laddove un omicidio sia commesso per eseguire o occultare un altro reato, o anche «per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato». La ragione di un simile inasprimento sanzionatorio è da rinvenirsi nella particolare attitudine criminosa che caratterizza un siffatto agente. Per la configurazione dell’aggravante in parola non occorre che «l’altro reato» sia effettivamente realizzato, essendo sufficiente che sia presente nell’orizzonte volitivo del reo, quale finalità ulteriore a cui l’omicidio sia, in potenza, causalmente connesso.
Il c.d. parricidio aggravato
Una serie di disposizioni prevedono l’aggravamento della pena nel caso di omicidio di soggetto legato all’agente da vincolo di parentela o consanguineità. Più precisamente, il numero 2 dell’art. 576 c.p. sanziona con l’ergastolo (prima, con la pena di morte) il c.d. parricidio aggravato, ovvero l’omicidio dell’ascendente e del discendente commesso con modalità particolarmente gravi e offensive, e cioè quando ricorre alcuna delle circostanze indicate ai numeri 1 e 4 dell’art. 61 c.p. (ovvero «l’aver agito per motivi abietti o futili», e «l’aver adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà contro la persona») o quando è adoperato un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso, ovvero quando vi è premeditazione. Considerando che l’omicidio del padre, della madre o del figlio adottivi sono oggetto di una diversa circostanza aggravante ad effetto speciale, che comporta la pena della reclusione da ventiquattro a trent’anni, di cui al secondo comma dell’art. 577 c.p., sembra corretto ritenere ancora attuale l’impostazione originaria del codice, il quale richiede un vincolo di consanguineità ai fini dell’integrazione della più grave circostanza aggravante in parola, che prevede appunto la pena dell’ergastolo (Marini). Ricordando, in questo senso, che l’art. 540, comma 1, c.p. equipara, ai fini della legge penale, i figli nati fuori dal matrimonio a quelli nati entro il matrimonio.
Non sembra corretta, a tale riguardo, la diversa impostazione per la quale i rapporti di filiazione adottivi sarebbero equiparati a quelli naturali – anche ai fini dell’applicazione della circostanza aggravante ad effetto specifico di cui all’art. 576 c.p. – stante le previsioni della L. n. 184/1983, la quale stabilisce che il figlio adottivo acquisisce lo status di figlio legittimo (Strano Ligato). Si tratterebbe infatti di una interpretazione analogica in malam partem, come tale vietata in materia penale anche a fronte delle chiare previsioni codicistiche che differenziano le ipotesi di omicidio di ascendenti e discendenti naturali rispetto a quelli adottivi.
Il c.d. parricidio semplice
Sempre in tema di omicidio di soggetti legati da particolari vincoli di parentela, è da evidenziare la disposizione di cui al n. 1 del primo comma dell’art. 577 c.p. che prevede (e prevedeva, anche nell’impostazione codicistica originaria) la pena dell’ergastolo per il c.d. parricidio semplice, dell’ascendente o del discendente, ovvero non accompagnato da quei particolari elementi ulteriori indicati al numero 1 dell’art. 576 c.p. La fattispecie in parola è stata oggetto di recenti interventi che ne hanno ampliato l’ambito di applicazione, comportando la comminazione della massima pena in una serie di ulteriori ipotesi. E così, la l. n. 4/2018 ha esteso il parricidio semplice all’omicidio del coniuge, anche legalmente separato, all’altra parte dell’unione civile o alla persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente. E in seguito, la l. n. 69/2019 ha aggiunto la specificazione che il rapporto di discendenza può conseguire anche «per effetto di adozione di minorenne», riducendo in maniera significativa la tradizionale distinzione tra rapporti di consanguineità e di adozione che, come visto, caratterizzava invece l’impostazione originaria del codice.
Sempre in tema di rapporti soggettivi tra l’agente e la vittima di omicidio è, ancora, la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 577 c.p., la quale prevede, come anticipato, la reclusione da ventiquattro a trent’anni per l’omicidio del coniuge divorziato (se meramente separato si applica invece, come visto, l’ergastolo), dell’altra parte dell’unione civile, ove cessata, della persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessata, del fratello o della sorella, dell’adottante o dell’adottato per adozione di maggiorenne (Titolo VIII, Libro I del codice civile), ovvero di un affine in linea retta.
Da evidenziare che le suddette circostanze rilevano, ai sensi dell’art. 70, n. 2, c.p., quali circostanze aventi natura soggettiva, in quanto inerenti ai rapporti tra il colpevole e l’offeso; in quanto tali, in caso di realizzazione plurisoggettiva del reato non sono estendibili ai concorrenti, ai sensi della disciplina di cui all’art. 118 c.p. Da considerare, inoltre, come con la riforma di cui alla l. n. 69/2019 (c.d. “codice rosso”) sia stato aggiunto, al nuovo terzo comma dell’art. 577 c.p., un espresso divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti (con alcune eccezioni) rispetto alle aggravanti aventi ad oggetto i rapporti personali tra l’agente e la vittima dell’omicidio, di cui al comma 1, n. 1 e al comma 2 del medesimo art. 577 c.p. Tale previsione, introdotta in conseguenza dello spiccato allarme sociale in materia di violenza di genere, è stata tuttavia censurata, di recente, dalla Corte Costituzionale. La Consulta, infatti, ha stabilito che «anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di una persona familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche». Il divieto assoluto di prevalenza delle attenuanti rispetto all’aggravante in parola determinerebbe, nella specie, una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena, sanciti dagli artt. 3 e 27 Cost. (così Corte Cost., n. 197/2023 - comunicato del 30 ottobre 2023).
Il parricidio aggravato consiste, come detto, nell’omicidio del discendente o ascendente in presenza di condizioni che sono pure considerate separatamente, dai nn. 2, 3 e 4 dell’art. 577 c.p., come altrettante circostanze aggravanti ad effetto specifico. Tali previsioni possono essere quindi considerate unitariamente.
Uso di sostanze venefiche o altro mezzo insidioso
Si sanziona con l’ergastolo, anzitutto, ai sensi del n. 2 dell’art. 577 c.p., l’omicidio commesso attraverso l’uso di sostanze venefiche o con altro mezzo insidioso. Le prime consisterebbero in quelle particolari insidie che conducono alla morte mediante reazione tossica nell’organismo, da individuarsi nei veleni in senso stretto; ipotesi che non ricorrerebbe, ad esempio, nel caso della somministrazione di sonniferi, che possono semmai agevolare la realizzazione del delitto.
La restante categoria dei mezzi insidiosi è residuale, e comprende qualsivoglia strumento il cui maggior disvalore consisterebbe nell’impedire alla vittima alcuna possibilità di difesa. Recente giurisprudenza ha riconosciuto la ricorrenza di tale aggravante, ad esempio, nel caso in cui l’agente speroni volontariamente, con il proprio mezzo, il veicolo condotto dalla vittima, nell’ambito del normale traffico cittadino (Cass., 5 febbraio 2013, n. 11561).
Premeditazione
Ai sensi del n. 3 dell’art. 577 c.p., viene poi punito con l’ergastolo l’omicidio commesso con premeditazione; nozione questa particolarmente controversa, in quanto il codice non ne fornisce una definizione. Essa rappresenterebbe, ad ogni modo, l’esatto opposto della condotta realizzata sulla spinta di un impulso immediato, consistendo piuttosto in una volontà omicidiaria maturata, mantenuta e conservata per un lasso apprezzabile di tempo, qualificando così in modo particolarmente grave il dolo manifestato dall’agente (Antolisei). La premeditazione consta quindi di due distinti fattori, l’uno cronologico e l’altro psicologico, i quali devono congiuntamente essere accertati e desunti da una serie di fattori sintomatici e concreti, dalla preparazione degli strumenti alla pianificazione del tempo e del luogo per la realizzazione del delitto.
Data la rilevanza in termini di maggiore intensità del dolo, la giurisprudenza esclude la compatibilità della premeditazione con il dolo eventuale, potendo invece concorrere con la circostanza attenuante della provocazione (ex art. 62, n. 2, c.p.), purché lo stato d’ira, causalmente legato alla provocazione, perduri per tutto il tempo in cui il delitto è pianificato ed eseguito.
In tema di realizzazione plurisoggettiva del reato, la premeditazione rientra tra le circostanze soggettive ex art. 70, n. 2, c.p. (essendo relativa, infatti, alla «intensità del dolo») e non dovrebbe trasmettersi quindi ai concorrenti che non ne siano parte, stante la previsione di cui all’art. 118 c.p. La giurisprudenza tuttavia ha affermato che la stessa sia irrogabile anche al concorrente che, pur aderendo all’ultimo al programma criminoso, o comunque non essendo coinvolto attivamente alla preparazione, aderisca nella consapevolezza dell’essere stato il delitto premeditato da altri, almeno dall’autore principale: facendo proprio, in questo modo, il particolare disvalore soggettivo di questi.
Motivi abietti o futili
Il n. 4 dell’art. 577 rinvia, anzitutto, all’aggravante di cui al n. 1 dell’art. 61 c.p., comminando la sanzione dell’ergastolo per l’omicidio realizzato per motivi abietti o futili. Il motivo, anzitutto, corrisponde alla causa psichica della condotta, ovvero dal sentimento o dall’istinto che determina il soggetto ad agire.
Abietto è considerato, tradizionalmente, il motivo turpe ed ignobile, secondo una valutazione media della collettività in un certo momento storico, e sulla base di un giudizio di tipo etico (Padovani); la giurisprudenza, a tale riguardo, fa sovente riferimento ad un «sentimento spregevole» (Cass., 22 giugno 2011, n. 30291). Lo stesso deve essere quindi valutato tenendo a mente anche le connotazioni culturali del soggetto agente e del contesto sociale in cui si è verificato il delitto, e viene spesso riconosciuto, dalla giurisprudenza, in relazione ai delitti di criminalità organizzata, quanto il reato è diretto al conseguimento di un incontrastato controllo criminale su attività economiche che si svolgono sul territorio (vd. Cass., 28 aprile 2021, n. 16101) o ancora all’affermazione del prestigio criminale dell’agente (vd. Cass., 22 ottobre 2013, n. 7274). E così anche, richiamando una casistica di cruda attualità storica, l’aggravante in parola è stata riconosciuta nell’omicidio di una ragazza di origini pakistane, commesso dal padre con la complicità di altri membri della famiglia. Il delitto, in particolare, sarebbe stato motivato dalla circostanza che la giovane non aveva accettato il codice comportamentale tradizionale famigliare, volendo sottrarsi al rigido controllo patriarcale al quale era soggetta (vd. Cass., 12 novembre 2009, n. 6587).
Il motivo futile, d’altro canto, è qualificabile come il pretesto di commissione del reato, una motivazione a tal punto lieve, banale e sproporzionata, rispetto al male commesso, che i più non si sarebbero mossi a compiere l’illecito (vd. Cass., 21 dicembre 2017, n. 16889). Nella recente giurisprudenza di legittimità, l’aggravante in parola è stata riconosciuta in relazione alla condizione ludopatica del soggetto agente, in cui è stato accertato come spregevole e sproporzionato – e dunque sia abietto sia futile – l’omicidio di una signora anziana per procurarsi il denaro per il gioco d’azzardo (vd. Cass., n. 6607/2023). La giurisprudenza tende ad essere più stringente invece nel riconoscere l’aggravante in parola in caso di delitto commesso per gelosia, il quale costituisce pur sempre un sentimento umano non inapprezzabile rispetto ad eventuali pulsioni illecite dell’agente; pur avendola riconosciuta in omicidi motivati da finalità punitive nei confronti di ex coniugi o conviventi. L’aver esteso il novero dei soggetti passivi del c.d. parricidio aggravato rende forse meno attuale la questione, posto che l’omicidio del convivente o del partner, sia esso motivato da gelosia o da altra ragione, integra comunque un’ipotesi di omicidio aggravato.
Sevizie o crudeltà
Altro rinvio operato dal n. 4 dell’art. 577 c.p. guarda alla circostanza aggravante di cui al n. 4 dell’art. 61 c.p., ovvero all’aver adoperato sevizie o agito con crudeltà verso le persone. La circostanza ha natura controversa. Alcuni autori ne riconoscono la natura soggettiva, facendo riferimento ad un particolare carattere del soggetto agente, indicativo di una maggiore criminosità (Antolisei). Una diversa tesi ne considera prevalente il carattere oggettivo, riferendosi la stessa alle particolari modalità dell’azione (Manna). Nell’interpretazione giurisprudenziale, per «sevizia», si intende una condotta studiata e specificamente finalizzata a cagionare sofferenze ulteriori e gratuite, rispetto alla “normalità causale” del reato commesso; si avrebbe invece crudeltà quando l’inflizione di un male aggiuntivo, che denota la spietatezza della volontà illecita dell’agente, non è frutto di una sua scelta operativa preordinata (vd. Cass., Sez. Un., 29 settembre 2016, n. 40516, la quale riconosce alla circostanza in argomento natura soggettiva, in quanto esprimerebbe un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole, rivelatrice di un’indole malvagia dell’agente).
Aggravante della latitanza
Tornando ora alle ipotesi aggravate considerate all’art. 576 c.p. – originariamente punite, come visto, con la pena di morte, sostituita poi con l’ergastolo – queste comprendono, ai numeri 3 e 4, l’omicidio commesso dal latitante o dall’associato per delinquere per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione, o ancora dal latitante per procurarsi i mezzi di sostentamento durante la latitanza. Rilevano quindi, per l’integrazione della circostanza, un profilo soggettivo, legato allo status del soggetto («latitante» e «associato per delinquere») e uno finalistico. La nozione di «latitante» si ricava dal combinato disposto di cui agli art. 576, comma 2 e 61 n. 6 c.p., e vi comprende chi si sottrae volontariamente all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato. Il codice di rito offre invero, all’art. 296 c.p.p., una definizione più ampia di «latitante», ricomprendendovi chi si sottrae all’esecuzione, anche, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio e all’obbligo di dimora. Più controverso è se la condizione di latitanza possa riconoscersi anche al soggetto evaso. Una risposta affermativa sarebbe suggerita dalla lettera del quinto comma del medesimo art. 296 c.p.p., per la quale «al latitante per ogni effetto è equiparato l’evaso»; in questo senso si è espressa anche la giurisprudenza. Secondo una diversa tesi coltivata da parte della dottrina, tuttavia, tale norma avrebbe valore unicamente processuale, non sviluppando effetti sul piano sostanziale, posto che sarebbe una impropria analogia in malam partem, come tale vietata in materia penale. Lo stato di associato per delinquere è da riconoscersi al soggetto che partecipa, in senso tipico, ad una associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., ovvero ad altra entità organizzata dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti. Rilevano, in questo senso, l’associazione di tipo mafioso, art. 416-bis c.p., associazione con finalità di terrorismo, art. 270-bis, e associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, art. 74 d.P.R. n. 309/1990. Pur avendo evidenziato, una parte della dottrina, il rischio che tale estensione interpretativa costituisca, di fatto, una illegittima analogia in malam partem (Cocco).
Omicidio in occasione di altri delitti contro la persona
A seguito di una riforma del 2009 (d.l. n. 11/2009) l’art. 576 c.p. riguarda altresì, ai numeri 5 e 5.1, gli omicidi commessi in occasione della realizzazione di altri gravi reati contro la persona, rispetto ai quali si è avvertita una maggiore e crescente sensibilità sociale. È comminata la pena dell’ergastolo, infatti, per gli omicidi commessi in relazione a maltrattamenti contro familiari e conviventi, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori (in quest’ultimo caso, se la vittima è la stessa persona offesa dello stalking).
Nei suddetti casi, in altre parole, si verificherebbe un fatto più grave e ulteriore rispetto al delitto doloso di base. Tale evento (ovvero la morte della persona offesa), perché possa configurarsi la fattispecie di omicidio, per di più aggravata, deve essere naturalmente previsto e voluto dall’agente quale conseguenza della propria condotta; per lo meno sotto forma di accettazione del rischio, quale dolo eventuale. Laddove non lo fosse, e la verificazione dell’evento morte fosse ciò non di meno prevedibile per il soggetto agente, troverebbe applicazione la fattispecie di cui all’art. 586 c.p., ovvero morte come conseguenza (non voluta) di altro delitto.
Omicidio di ufficiale o agente di polizia
Da ultimo, il numero 5 bis dell’art. 576 c.p., introdotto nel 2008 (d.l. n. 92/2008), prevede la comminazione dell’ergastolo per l’omicidio di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, «nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio».
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