Francesco Mazzacuva
Sommario: 1. Il fondamento comune delle due fattispecie: l’indisponibilità del bene vita e il problema del suicidio. – 2. Omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). – 3. Aiuto o istigazione al suicidio (art. 580 c.p.). – 4. Il problema dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito.
1. Il fondamento comune delle due fattispecie: l’indisponibilità del bene vita e il problema del suicidio.
1.Il fondamento comune delle due fattispecie: l’indisponibilità del bene vita e il problema del suicidio.Il bene giuridico tutelato
I delitti di omicidio del consenziente e di istigazione o aiuto al suicidio rispettivamente previsti dagli artt. 579 e 580 del codice penale riposano sul medesimo fondamento assiologico (Consulich), in quanto accomunati da un’identica ratio giustificativa che si ricollega al tema dell’indisponibilità del bene vita. Se è vero che questo principio è stato tradizionalmente derivato dall’ordinamento nel suo complesso – facendo riferimento, in particolare, a quanto disposto dall’art. 5 del codice civile –, con la conseguente impossibilità di ricorrere alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto prevista dall’art. 50 c.p. (Bricola; M. Romano), le fattispecie in commento svolgono anch’esse la funzione sistematica di riaffermare la protezione del bene vita indipendentemente dalla volontà del titolare (Ramacci). In altri termini, nelle ipotesi contemplate dalle due norme incriminatrici emerge un conflitto non tra l’uccisore e la vittima, il quale caratterizza invece le altre ipotesi di omicidio, bensì tra la protezione della vita e la volontà dello stesso titolare (Pulitanò).
Il dibattito sull’indisponibilità della vita e sul suicidio
Si deve segnalare fin d’ora, d’altra parte, che l’assunto dell’indisponibilità della vita è da tempo oggetto di un importante dibattito dottrinale, strettamente ricollegato al problema della natura giuridica del suicidio (come si avrà modo di osservare anche successivamente, infatti, l’omicidio del consenziente può essere inquadrato come una forma di “suicidio per mano altrui”: F. Mantovani). In particolare, la dottrina si chiede se il suicidio debba essere considerato come atto giuridicamente lecito, se non una forma di esercizio di un vero e proprio diritto fondamentale, ovvero illecito. Rispetto al suicida, essendo da tempo abolite misure afflittive sul cadavere o sul patrimonio del medesimo, la questione determina ricadute essenzialmente sul versante della punibilità del tentativo non riuscito. Orbene, proprio perché oggi, così come avviene nella maggior parte dei sistemi penali occidentali, la legge italiana non punisce il tentato suicidio, ci si chiede se tale soluzione esprima un giudizio di liceità della condotta, il quale implicherebbe a sua volta un riconoscimento della disponibilità del bene vita che si porrebbe evidentemente in contraddizione con l’incriminazione dell’omicidio del consenziente e dell’istigazione o aiuto al suicidio.
Occorre evidenziare, tuttavia, che una giustificazione ancora diffusa della non punibilità del tentato suicidio viene ricondotta a ragioni di opportunità, evidenziando che sarebbe inadeguato ed inefficace punire chi si trovi in una condizione di sofferenza psicologica tale da averlo portato a tentare di togliersi la vita (anche considerato che l’applicazione della pena potrebbe costituire una spinta a riprogrammare il piano suicida). Il suicidio, quindi, sarebbe semplicemente un atto tollerato ma pur sempre disapprovato dall’ordinamento, il che confermerebbe l’indisponibilità del bene vita e, quindi, l’illiceità del suicidio manu aliena (F. Mantovani; Pannain; Porzio; M. Romano). Le ragioni di tale disapprovazione sono state individuate in considerazioni di ordine filosofico-morale-religioso circa i doveri di ogni uomo verso sé stesso (che, in ambito giuridico, possono essere ricondotte al tema del c.d. paternalismo hard) ovvero ad istanze di carattere pubblicistico-utilitaristico, secondo cui la vita dell’individuo sarebbe una risorsa funzionale, in termini economici, militari e demografici, alla collettività, così come non mancano riferimenti al problema della tutela psico-fisica dei prossimi congiunti del defunto. Secondo posizioni più sfumate, invece, il suicidio, pur non costituendo un vero e proprio diritto riconosciuto dall’ordinamento, sarebbe comunque una facoltà o una libertà di fatto (Canestrari).
Una diversa impostazione, invece, è sostenuta da coloro che si rifanno al liberalismo penale ed è illustrata in maniera esemplare nell’opera del filosofo statunitense Joel Feinberg, nella quale si riconosce un vero e proprio diritto a morire, il quale rende ingiustificabile la repressione penale, oltreché del tentato suicidio, dell’omicidio del consenziente. Si tratta di una tesi che valorizza il principio di laicità, inteso come istanza fondamentale che vieta qualsiasi interferenza dello Stato nelle scelte dei cittadini che, per quanto possano essere disapprovate dalla maggioranza dei consociati, non arrechino danni ad altri. In questa prospettiva, anche nella letteratura italiana sono emerse riflessioni secondo cui il suicidio costituisce, se non l’esercizio di un vero e proprio diritto di morire, l’espressione di un atto di libertà individuale, ossia una manifestazione del diritto di autodeterminazione (Fiandaca) o una specificazione del principio personalistico che informa la Costituzione (Giunta; Stortoni). In altri termini, si afferma che il suicidio dovrebbe essere considerato un atto lecito poiché, nella sua drammaticità esistenziale, rappresenta l’estrema manifestazione della personalità morale dell’uomo e, quindi, della sua libertà (Seminara). È chiaro che, in questa prospettiva, si addensano ombre di illegittimità costituzionale sulle incriminazioni in commento.
La distinzione tra suicidio manu aliena e manu propria
Secondo una tesi intermedia, piuttosto che dell’indisponibilità della vita, gli artt. 579 e 580 c.p. sarebbero espressivi del principio normativo secondo cui il titolare del diritto alla vita non può renderlo disponibile da parte di terzi, il che spiegherebbe altresì perché tali soggetti non possono influenzare la scelta suicidiaria (Pulitanò). In altri termini, astenendosi dal disciplinare il suicidio, e quindi dall’esprimere un giudizio di disvalore o dal riconoscerlo come diritto, il legislatore avrebbe preso posizione, dichiarandole penalmente rilevanti, esclusivamente rispetto alle ipotesi di suicidio manu aliena. La ragione di questa soluzione, in effetti, può essere ricercata ponendo l’accento sulla necessaria protezione dei soggetti vulnerabili (malati, ma anche anziani, emarginati, ecc.), in una prospettiva solidaristica che parrebbe avvalorata dalla letteratura suicidologica, anche in considerazione dei rischi di interferenze nella formazione della loro volontà (M. Romano), il che giustificherebbe limiti all’esercizio di quello che sarebbe comunque un diritto, nella specie di farsi assistere nella condotta suicidiaria (considerazioni che sono state valorizzate nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2022, su cui si tornerà nelle battute conclusive). Vi è però chi osserva che – a parte che la posizione di ostacoli giuridici al suicidio manu aliena potrebbe condurre i soggetti affetti da patologie incurabili ad anticipare il momento del suicidio ad una fase in cui sono ancora capaci di agire autonomamente proprio per il timore di non poter ricevere assistenza in una fase terminale e invalidante della malattia – la possibilità di assistenza organizzata e procedimentalizzata potrebbe assicurare una verifica più approfondita sulla volontà dell’aspirante suicida (Cadoppi; Donini), anche grazie alla possibilità (se non il dovere per lo Stato) di prospettare rimedi alternativi alle sofferenze di natura farmacologica ovvero psicologica, economica e sociale (Canestrari; Vallini). A questa conclusione perviene anche chi, come Feinberg, muove dal riconoscimento del diritto di morire (Fiandaca), evidenziando però che in tale ipotesi la volontarietà della scelta deve essere accertata con straordinario scrupolo, ad esempio istituendo procedure gestite da una autorità apposita volte ad accertare la volontarietà e la libertà della scelta (come avviene in Olanda o in Svizzera), il che potrebbe consentire il riferimento alla categoria delle “scriminanti procedurali” (Cadoppi). Insomma, la criminalizzazione dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente potrebbe anche essere ammessa ma non in nome di logiche paternalistiche “forti”, bensì soltanto laddove la volontà non sia accertata in determinate forme e procedure (c.d. paternalismo soft).
Le distinzioni fondate sui motivi del suicidio
Anche per queste ragioni, il dibattito contemporaneo si è spostato soprattutto sul problema dei presupposti sostanziali della scelta suicidiaria, ossia dei motivi che consentono di qualificarla come diritto, ipotesi nelle quali si ammette conseguentemente anche la possibilità di ottenere assistenza da parte di terzi. Rimane viva, in particolare, la contrapposizione tra quanti, al pari di Feinberg, affermano che, una volta accertata la serietà del proposito, non ci si dovrebbe interessare delle ragioni della scelta (età, malattia, disagio psichico, emarginazione sociale, indigenza, depressione, ecc.) e coloro che, seppur con (anche rilevanti) varietà di accenti, riconoscono la liceità dell’aiuto al suicidio soltanto in determinate ipotesi e, in particolare, rispetto a soggetti affetti da gravi patologie (Canestrari; Consulich; Donini; Ramacci; Risicato; Seminara; Vallini). Nella parte finale del capitolo si osserverà come, in effetti, proprio in ambito medico si siano registrate significative evoluzioni di questo complesso dibattito sulla base del riferimento al diritto di autodeterminazione del paziente rispetto alle scelte terapeutiche.
2. Omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).
2.Omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).Premessa
L’art. 579, comma 1, del codice penale prevede che «chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni».
L’inquadramento dell’omicidio del consenziente come reato autonomo costituisce una scelta originale del codice penale del 1930, dato che il codice Zanardelli del 1889 non prevedeva alcuna disposizione specifica in materia, tanto che nella stessa giurisprudenza erano emerse forzature del dato normativo per consentire un trattamento diverso rispetto all’omicidio doloso (Cadoppi). La nuova disposizione, in effetti, doveva svolgere non tanto una funzione incriminatrice – poiché l’irrilevanza in chiave scriminante del consenso rispetto all’omicidio era già derivata, come segnalato, dall’assunto dell’indisponibilità del bene vita che veniva così ribadito, respingendo un movimento che, specialmente con Enrico Ferri, a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo auspicava la decriminalizzazione dell’uccisione pietosa (Cadoppi) –, quanto soprattutto una funzione di disciplina consentendo, in quanto norma speciale rispetto alla generale previsione dell’omicidio doloso, l’applicazione di una pena sensibilmente più mite nelle ipotesi di consenso del titolare del bene giuridico protetto (Seminara). Anche nella prospettiva dell’indisponibilità della vita, infatti, si osserva che il reato presenta un minore disvalore sia sul piano oggettivo, in quanto offende soltanto tale bene giuridico e non anche la libertà di autodeterminazione della vittima, sia su quello soggettivo, poiché il consenso di quest’ultima attenua sia la colpevolezza, sia la capacità a delinquere del reo (Pannain; Fiandaca-Musco; Masera).
Fatto tipico
Il fatto tipico corrisponde nella struttura alla fattispecie di omicidio doloso prevista dall’art. 575 c.p., trattandosi di reato causalmente orientato, la cui condotta non è tipizzata bensì assume rilievo per il solo fatto di cagionare la morte di un uomo (in relazione a questo aspetto, quindi, si possono richiamare integralmente le considerazioni svolte nella Sez. I del presente Capitolo). Per questa ragione, il delitto deve ritenersi realizzabile anche mediante omissione laddove sussista un obbligo giuridico di impedire l’evento (art. 40, comma 2, c.p.), come ad esempio si può verificare in ambito medico (Tassinari), sempre che non si ritenga che il diritto di rifiuto delle cure del paziente non comporti finanche l’insussistenza di tale obbligo (v. infra, § 4). Peraltro, occorre evidenziare che, proprio perché il fatto tipico è incentrato sulla causazione dell’evento morte, emergono alcuni profili di incertezza nella distinzione tra il delitto in commento e quello di istigazione o aiuto al suicidio (anche perché, come già segnalato, l’omicidio del consenziente consiste di fatto in un “suicidio per mano altrui”). Si può fin d’ora precisare, allora, che la fattispecie prevista dall’art. 579 c.p. è altresì caratterizzata dalla circostanza che il titolare del bene vita perde qualsiasi dominio sulla condotta, essendo la causazione della morte interamente determinata dall’azione del terzo (sul punto, si tornerà infra, § 3).
Requisiti del consenso
Ci si deve ora soffermare sui requisiti del consenso della vittima dato che proprio tale presupposto, come si è detto, costituisce l’elemento specializzante (o “degradante”) della fattispecie rispetto a quella generale di omicidio (Masera). Alcuni di questi requisiti si possono ricavare dalla previsione del terzo comma dell’art. 579 c.p., il quale chiarisce che «si applicano le disposizioni generali relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti (che rende la norma inapplicabile laddove il soggetto passivo sia persona affetta da disturbi mentali, ipotesi alquanto ricorrente nella giurisprudenza); 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno». In queste ipotesi, quindi, il legislatore ritiene il consenso viziato o comunque irrilevante ed improduttivo di effetti giuridici (ossia la mitigazione della pena) sul piano penale. In aggiunta a queste condizioni, nella giurisprudenza è stato chiarito che il consenso deve essere personale, libero, consapevole, serio, esplicito e non equivoco, oltreché perdurante fino al momento in cui l’omicidio viene realizzato (Cass., 6 ottobre 2021, n. 14751; Cass., 19 aprile 2018, n. 747; Cass., 13 novembre 2013, n. 37246).
Colpevolezza
Sul piano della colpevolezza, trattandosi di reato doloso, l’agente deve rappresentarsi e volere la morte altrui come conseguenza della propria azione, con l’ulteriore convinzione di agire con il consenso della vittima. Laddove invece la vittima accetti di esporsi ad attività rischiose per la vita, ma l’esito fatale non sia realmente voluto da alcuna delle persone coinvolte in tali attività, non potrà che residuare l’operatività dell’omicidio colposo (Manzini). Si discute su quale sia la conseguenza di un errore sul consenso della persona offesa: parte della dottrina ritiene che dovrebbe comunque applicarsi l’art. 579 c.p. o in analogia con la norma prevista per le scriminanti putative dall’art. 59, ultimo comma, c.p. (Masera) o poiché, in ogni caso, tale errore escluderebbe il dolo tipo del reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p. (Pannain; Fiandaca-Musco); secondo un’altra impostazione, invece, sarebbe configurabile il delitto di omicidio doloso in ragione dell’assenza dell’elemento specializzante dell’art. 579 c.p. (F. Mantovani; Ronco), conclusione talvolta sostenuta facendo riferimento a quanto disposto dall’art. 47, comma 2, c.p., in base al quale l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso (Patalano; Cass., 12 novembre 2015, n. 12928), anche se condivisibilmente tale motivazione è stata criticata poiché, a ben vedere, la disposizione citata chiarisce essenzialmente la possibilità che, in caso di errore, residui una responsabilità per un fatto doloso meno grave (Tassinari). Una situazione opposta, di rilevanza più teorica che pratica, è quella del consenso esistente ma non percepito da parte di chi avrebbe comunque voluto cagionare la morte altrui, nella quale dovrebbe pur sempre trovare applicazione l’art. 579 c.p. in nome del principio di oggettiva rilevanza delle circostanze favorevoli, anche in questo caso in analogia con quanto stabilito per le cause di giustificazione e per le circostanze attenuanti dall’art. 59, comma 1, c.p. (Masera).
Trattamento sanzionatorio
Quanto al trattamento sanzionatorio, come già segnalato, la pena principale è la reclusione da sei a quindici anni, notevolmente inferiore a quella prevista per il reato di omicidio doloso (reclusione non inferiore ad anni ventuno).
Il comma 2 dell’art. 579 c.p., peraltro, stabilisce che «non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61 c.p.», con una scelta che è stata illustrata in dottrina facendo riferimento proprio al favor legislativo per l’omicidio del consenziente, anche se occorre considerare che residua comunque l’applicabilità delle circostanze aggravanti previste da altre disposizioni di legge (tra cui, ad esempio, quella prevista dall’art. 36 della legge n. 104/1992 per i reati commessi contro persone portatrici di menomazioni fisiche, psichiche o sensoriali). Tra le attenuanti, essendo il delitto di omicidio del consenziente destinato ad operare anche in ipotesi diverse ed ulteriori rispetto a quelle dettate da pietà, in queste ultime non vi sono ragioni per non applicare l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, n. 1, c.p.).
3. Aiuto o istigazione al suicidio (art. 580 c.p.).
3.Aiuto o istigazione al suicidio (art. 580 c.p.).Premessa
L’art. 580, comma 1, del codice penale prevede che «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni, mentre se il suicidio non avviene, con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima». La disposizione trova il suo antecedente storico nell’art. 370 del codice Zanardelli del 1889 che, tuttavia, stabiliva una pena inferiore in caso di morte (da tre a nove anni) e non prevedeva nessuna conseguenza in caso di lesioni.
La fattispecie si distingue da quella dell’omicidio del consenziente dal momento che l’evento è provocato dalla condotta della stessa vittima anche se, come detto nella premessa, le due incriminazioni hanno il medesimo fondamento, ossia l’indisponibilità del bene vita. Secondo la tesi prevalente in dottrina, la previsione si giustifica per il fatto che, poiché come detto il suicidio non costituisce reato, neanche nella forma tentata, la punibilità per i terzi che prestano assistenza all’atto non può essere derivata dai principi generali che regolano il concorso di persone nel reato stabiliti dagli artt. 110 e ss. c.p. (F. Mantovani), bensì richiede un’apposita incriminazione (la quale, peraltro, è assente in alcuni ordinamenti giuridici stranieri, come quello tedesco). D’altra parte, non mancano inquadramenti della fattispecie come sorta di ipotesi speciale e “degradata” di omicidio del consenziente e, quindi, anche di omicidio doloso (Pannain; Patalano). Ad ogni modo, proprio poiché anche l’omicidio è per definizione un reato causalmente orientato, ossia incentrato sulla determinazione dell’evento morte, tra le fattispecie si presenta quella che è stata definita come una sorta di “corrispondenza strutturale” (Pulitanò) che talvolta, come si dirà anche in seguito, non consente di distinguere agevolmente le medesime, ossia di comprendere se nel caso concreto il ruolo della terza persona è riconducibile alla nozione di assistenza (causalmente rilevante rispetto) alla condotta altrui ovvero è così rilevante da essere qualificabile come omicidio del consenziente.
Fatto tipico
L’art. 580 c.p. richiama la struttura oggettiva della compartecipazione criminosa sotto il duplice aspetto della partecipazione psichica e di quella materiale (Fiandaca-Musco), in particolare facendo riferimento alle condotte di determinazione, di rafforzamento e di agevolazione. Di conseguenza, è diffuso in dottrina il rinvio all’elaborazione di questi concetti maturata nell’ambito della teoria del concorso di persone. Per determinazione, quindi, si intende la pressione psichica diretta a far sorgere in altri un proposito prima inesistente, mentre l’idea di rafforzamento implica che tale proposito fosse già sorto e sia stato in qualche modo reso più fermo ovvero definitivo. Naturalmente, tali forme di compartecipazione morale non devono consistere né in una costrizione, né in un inganno, altrimenti la volontà suicidiaria risulterebbe viziata e, quindi, irrilevante (sugli altri vizi della volontà si tornerà a breve). Sul piano del concorso materiale, invece, per agevolazione si deve intendere ogni comportamento di aiuto all’esecuzione del suicidio che sia causalmente rilevante rispetto all’esito fatale. A queste condizioni, come si è già accennato, la differenza rispetto alla fattispecie di omicidio del consenziente risiederebbe nel fatto che il suicida mantiene una “piena signoria” sull’esecuzione del suicidio (si parla di reato “di mano propria” o “ad esecuzione personale”: si pensi al caso di Dj Fabo, su cui si tornerà, il quale si suicidava azionando con la bocca uno stantuffo per iniettare nelle sue vene un farmaco letale, ma all’esito di una procedura in cui era stata decisiva l’assistenza di terzi, non essendo egli in grado di muoversi), mentre diversamente nella fattispecie prevista dall’art. 579 c.p. l’ausiliatore finisce per assumere il ruolo di esecutore o co-esecutore. In dottrina, peraltro, è stata contestata la ragionevolezza della scelta legislativa di equiparare determinazione e rafforzamento da un lato e agevolazione dall’altro, poiché in quest’ultimo caso si è in presenza di un suicidio già autonomamente deciso dall’interessato, cosicché appare difficile giustificare l’identità di pena (Seminara; Fiandaca-Musco; Masera), vizio che non è stato però ravvisato dalla Corte costituzionale (ordinanza n. 207 del 2018, che ha aggiunto fondamentali considerazioni in relazione alle ipotesi in cui viene in rilievo il diritto a rifiutare le cure, su cui v. infra, § 4).
La fattispecie richiede poi che le condotte descritte determinino effettivamente la morte o, in alternativa, lesioni gravi o gravissime (ipotesi nella quale la pena prevista è sensibilmente inferiore, ossia la reclusione da uno a cinque anni anziché la reclusione da cinque a dodici anni). Risulta ormai consolidata l’opinione secondo cui, per l’appunto, si tratta di eventi del reato anziché semplici condizioni obiettive di punibilità (Fiandaca-Musco; Pulitanò), con la fondamentale conseguenza, sul piano oggettivo, che l’azione deve sostanziarsi in un contributo causalmente rilevante rispetto alla realizzazione di tali risultati. Con riguardo alla condotta di agevolazione, in particolare, si può ancora richiamare l’elaborazione dottrinale sul concorso di persone nel reato, evidenziando che anch’essa può ritenersi causalmente rilevante se si imposta il giudizio eziologico sulle concrete modalità di realizzazione del fatto, ossia considerando la morte come verificatasi hic et nunc, senza pertanto limitare la punibilità alle forme di assistenza assolutamente indispensabili ai fini della riuscita del suicidio. In dottrina si esclude la realizzazione in forma omissiva sul rilievo che il reato sarebbe a condotta vincolata e che, in ogni caso, sarebbe difficile configurare obblighi impeditivi del suicidio (F. Mantovani), anche se proprio questa soluzione è stata accolta dalla recente giurisprudenza sulla responsabilità per omicidio colposo dello psichiatra in caso di suicidio del paziente (su cui ora si tornerà). La qualificazione della morte e delle lesioni quali eventi porta a ritenere che le due ipotesi costituiscano altrettante fattispecie delittuose, la seconda inquadrabile come sorta di ipotesi autonoma o speciale di tentativo della prima (Lazzeri; Masera; Tassinari).
Soggetto passivo
Sul piano della struttura del fatto tipico, occorre altresì considerare l’ultima frase del comma 2 dell’art. 580 c.p., la quale infatti incide in maniera rilevante sulla fisionomia della fattispecie. Tale previsione, infatti, stabilisce che se il soggetto passivo è minore degli anni quattordici o comunque è privo della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio. In questo modo, si chiarisce che, affinché si applichi la norma in commento, l’aspirante suicida deve essere persona capace di intendere e di volere e ultraquattordicenne, altrimenti il fatto del terzo viene equiparato, sul piano del disvalore, all’omicidio volontario. Come si vede, i casi che rendono la volontà viziata sono più circoscritti rispetto all’art. 579 c.p., dato che, come ora si dirà, gli altri difetti del consenso, nonché il fatto che l’età del soggetto passivo sia compresa tra quattordici e diciotto anni, sono invece considerati come aggravanti della fattispecie in commento.
Una questione divenuta di particolare attualità concerne il rilievo dell’istigazione al suicidio in incertam personam, ossia con comunicazioni rivolte al pubblico che esaltino il ruolo del suicidio o ne descrivano modalità di realizzazione (ad es. su internet: si pensi alla vicenda della blue whale challenge). La dottrina prevalente esclude l’applicabilità della fattispecie evidenziando che l’art. 580 c.p. implica la determinatezza del destinatario (Pulitanò), o anche considerando la riconducibilità di certe ipotesi al diritto alla libera manifestazione del pensiero (Masera), sebbene non manchino alcune aperture alla soluzione opposta, se non altro laddove il fatto sia commesso in assenza di un’idonea causa di giustificazione (Lazzeri).
Colpevolezza
L’inquadramento della fattispecie come reato di evento, naturalmente, ha ricadute anche sul piano della colpevolezza, dal momento che il soggetto istigatore o ausiliatore deve rappresentarsi e volere non soltanto la realizzazione della condotta, ma anche il risultato lesivo da questa determinato (ancorché, in senso stretto, questo è “voluto” soltanto dal suicida). D’altra parte, in caso di suicidio non voluto (ma prevedibile: v. Cap. V) si può configurare una responsabilità ai sensi dell’art. 586 c.p. laddove il gesto sia conseguenza di una condotta delittuosa, mentre è dibattuta la possibilità, in assenza di tale presupposto, di configurare una responsabilità per omicidio colposo per chi abbia sottovalutato la volontà suicidiaria altrui (un’ipotesi ricorrente nella giurisprudenza recente, che come detto fa peraltro riferimento allo schema omissivo, è quella dello psichiatra che non è stato in grado di prevenire il suicidio del paziente: Cass., 18 maggio 2017, n. 43476; Cass., 14 giugno 2016, n. 33609; in una diversa ipotesi in cui un soggetto durante una lite aveva istigato la fidanzata a suicidarsi nel convincimento che, come già avvenuto in passato, ella non avrebbe commesso tale gesto, poi invece effettivamente commesso, la Corte di cassazione ha invece escluso qualsiasi responsabilità dell’imputato: Cass., 26 ottobre 2006, n. 3924).
Trattamento sanzionatorio
Sul piano del trattamento sanzionatorio, si deve evidenziare che il comma 2 dell’art. 580 c.p. prevede che «le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente», ossia si tratti di persona minore degli anni diciotto o persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti.
4. Il problema dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito.
4.Il problema dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito.Inquadramento del problema
Come si è già accennato nelle premesse, negli ultimi anni, non soltanto nell’ordinamento italiano, il problema della disponibilità del bene vita – e, quindi, della natura lecita o illecita del suicidio – è stato oggetto di un ampio dibattito specialmente in relazione al problema dell’eutanasia. Più in particolare, anche considerato che l’esperienza storica dimostra che al concetto di “dolce morte” sono stati ricondotti fenomeni molto eterogenei (Porzio; F. Mantovani; Seminara; Magro), gli sviluppi più rilevanti si sono manifestati in relazione al tema del suicidio medicalmente assistito (manu propria o manu aliena) di soggetti che esprimano la volontà di morire in quanto affetti da patologie incurabili. Si tratta, quindi, di una casistica più specifica e circoscritta rispetto ad un’accezione lata di eutanasia e, evidentemente, rispetto al problema generale del suicidio, poiché caratterizzata dalla rilevanza del diritto fondamentale del paziente all’autodeterminazione in ambito terapeutico – avente una precisa collocazione costituzionale anche nella sua dimensione “positiva”, in particolare attraverso il riferimento all’art. 32 Cost., e sancito da fonti internazionali come l’art. 5 Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Tordini Cagli) –, tanto che in dottrina è stato affermato che aiuto al suicidio e suicidio medicalmente assistito non sarebbero gemelli congiunti e neppure fratelli, bensì soltanto parenti che si ribellano ad una “convivenza forzata” (Canestrari).
Anche in questo ambito più ristretto, peraltro, sono state tratteggiate alcune distinzioni, come quella tra eutanasia attiva, che consiste nella cessazione di processi vitali ancora sussistenti (ad es. attraverso la somministrazione di farmaco letale, ma anche di terapie del dolore che determinano un accorciamento della vita: c.d. eutanasia indiretta), ed eutanasia passiva, che consiste nell’omissione di terapie nei confronti di un malato. Questa classificazione di carattere normativo, peraltro, presenta confini talvolta incerti, come nel caso del distacco di apparecchi che consentono la respirazione o la nutrizione, e non appare sempre recepita in dottrina. Si discute, inoltre, se essa corrisponda effettivamente alla tradizionale distinzione nella teoria del reato tra azione ed omissione e sulla riconducibilità delle varie ipotesi alle fattispecie di cui agli artt. 579 e 580 c.p. la quale, come detto, dipende dal dominio che il malato conserva o meno, rispettivamente, sulla sospensione dei trattamenti o sul fatto che determina la morte (come già osservato, il caso di Dj Fabo, su cui ora si tornerà, mostra che anche forme di eutanasia attiva possono essere qualificate come aiuto al suicidio anziché come omicidio del consenziente).
Il caso Welby
Nell’ordinamento italiano, un significativo riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del paziente, anche laddove esso implichi la morte del medesimo, si può far risalire al caso di Piergiorgio Welby. In quanto affetto da una malattia degenerativa che ne permetteva la sopravvivenza soltanto mediante respiratore automatico, egli aveva chiesto il distacco dell’apparecchio sotto sedazione ad un medico anestesista che, malgrado la decisione contraria del giudice civile, aveva accolto tale richiesta e determinato la morte del paziente il 20 dicembre 2006. Nel procedimento penale, in cui una consulenza medico-legale aveva stabilito che la causa della morte del paziente era stata l’insufficienza respiratoria e non la sedazione somministrata, dopo una prima richiesta di archiviazione della Procura di Roma e l’imputazione coatta per omicidio del consenziente ordinata dal giudice per le indagini preliminari, il giudice per l’udienza preliminare riteneva la condotta del medico effettivamente sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 579 c.p. ma scriminata dall’art. 51 c.p., trattandosi di adempimento di un dovere discendente dal diritto al rifiuto delle cure riconducibile agli artt. 32 della Costituzione e 5 della Convenzione di Oviedo. Se parte della dottrina ha concordato sul fatto che l’antigiuridicità sarebbe effettivamente la categoria nell’ambito della quale tematizzare questa problematica (Consulich), non mancano Autori che, almeno limitatamente all’eutanasia passiva, sul presupposto della sua natura omissiva (il che riporta alla problematica distinzione da quella attiva), hanno prospettato finanche l’insussistenza di un obbligo di agire ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. in ragione della contraddizione con il diritto del paziente di rifiutare le cure (Viganò).
Il caso Englaro
Una seconda rilevante vicenda in materia è quella di Eluana Englaro la quale, a seguito di un incidente stradale, versava in stato vegetativo permanente, nutrita con sondino naso-gastrico e, soprattutto, era incapace di intendere e volere per una degenerazione definitiva delle funzioni cerebrali. Il padre e tutore Beppino Englaro aveva più volte richiesto la sospensione dell’alimentazione della figlia sostenendo che questa sarebbe stata la volontà della medesima, ancorché ella non avesse mai avuto la possibilità di esprimerla prima dell’incidente. Peraltro, a differenza del caso Welby, Eluana Englaro non era attaccata ad un dispositivo medico per la ventilazione artificiale e, quindi, occorreva stabilire se la nutrizione di un paziente in coma irreversibile ma capace di respirare autonomamente si potesse considerare “cura medica”, rifiutabile ai sensi dell’art. 32 Cost. In senso negativo concludevano diverse decisioni di giudici civili finché la Corte di cassazione (Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748) ammetteva la possibilità di interruzione del trattamento a condizione che: a) lo stato vegetativo fosse irreversibile, ossia senza alcuna speranza di recupero della coscienza; b) l’istanza fosse espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”. Di conseguenza, alla luce di diverse testimonianze di amici e familiari della ragazza, in data 9 luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano aveva autorizzato Beppino Englaro ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata, il che avveniva effettivamente il 9 febbraio 2009 dopo che la Corte costituzionale aveva risolto a favore della Corte di cassazione un conflitto di attribuzioni sollevato da Camera e Senato (al quale era seguito un decreto legge non firmato dal Presidente della Repubblica in quanto manifestamente incostituzionale ed un disegno di legge dallo stesso contenuto che non ebbe seguito poiché nel frattempo si era verificata la morte di Eluana Englaro). Anche in questo caso, nel disporre l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Beppino Englaro e del personale sanitario che aveva sospeso il trattamento, il giudice per le indagini preliminari riteneva che, alla luce di quanto deciso in sede civile, tali soggetti avessero agito in adempimento del dovere di rispettare la volontà dell’incapace, non potendosi ammettere la contraddizione di un ordinamento giuridico che da un lato attribuisce un diritto e, dall’altro, ne incrimina l’esercizio.
La legge n. 219 del 2017
Proprio sulla scia della vicenda Englaro, quindi, è stata approvata la legge n. 219 del 2017, recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” che, fin dall’art. 1, afferma che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» e che ogni persona ha diritto «di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi». La legge, quindi, valorizza il consenso informato, il quale deve essere acquisito in forma scritta o attraverso altre modalità (ed è sempre ritrattabile), cosicché il medico, dopo aver prospettato al paziente le conseguenze della decisione di rifiutare i trattamenti sanitari, è tenuto a rispettarne la volontà (rimanendo ovviamente esente da conseguenze penali: art. 1, comma 6). Il sanitario deve peraltro adoperarsi in ogni caso per alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario da lui indicato (c.d. terapia del dolore), e comunque astenersi, in caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico, con il consenso del paziente, può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, sebbene anche per tale ipotesi sarebbe stata probabilmente opportuna la previsione espressa di una causa di esonero dalla responsabilità penale (Canestrari).
Soprattutto, la legge (art. 4) ha introdotto nell’ordinamento le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), ossia dichiarazioni di volontà in materia di trattamenti sanitari – tra cui il consenso o il rifiuto di accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari – che possono essere rese con certe formalità (di fronte ad un notaio, a un ufficio dello stato civile, a strutture sanitarie competenti, a uffici consolari; videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare se le condizioni fisiche del paziente non lo consentono) da soggetti maggiorenni e capaci di intendere e di volere in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte. La legge prevede la possibilità di indicare nelle DAT un fiduciario chiamato a rappresentare l’interessato nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Il caso Dj Fabo e l’intervento della Corte costituzionale
L’intervento legislativo, seppur significativo, non ha impedito l’emersione di ulteriori casi problematici, specialmente in relazione a vicende di eutanasia attiva, tra cui quella di Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo) il quale, in seguito a un incidente stradale, era rimasto cieco e tetraplegico in maniera irreversibile, il che lo rendeva non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione, oltreché afflitto da ricorrenti spasmi, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. In questa condizione, egli aveva maturato la ferma volontà di porre fine alla sua vita ma aveva escluso la possibilità di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che gli era stata effettivamente prospettata) poiché, non essendo egli totalmente dipendente dal respiratore artificiale, in questo modo la morte sarebbe sopravvenuta soltanto dopo alcuni giorni, in un modo che egli reputava non dignitoso e produttivo di sofferenze emotive per i propri cari. Aveva quindi chiesto all’attivista Marco Cappato di accompagnarlo in automobile presso una struttura svizzera che si occupava di assistenza al suicidio dove il 27 febbraio 2017 – dopo che il personale della struttura aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte – egli si suicidava azionando con la bocca uno stantuffo che consentiva l’iniezione letale. Dopo una prima richiesta di archiviazione, seguita da un’ordinanza di imputazione coatta ordinata dal giudice per le indagini preliminari, Marco Cappato veniva accusato di rafforzamento e di aiuto al suicidio. Durante il dibattimento, tuttavia, la Corte d’assise di Milano sollevava una questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto e istigazione a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio e non distingue le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio che non incidono sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida da quelle di istigazione.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Consulta ha effettivamente riconosciuto che l’art. 580 c.p., anche se di per sé compatibile con la Costituzione, contrasta con gli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. nei casi in cui il suicida sia (a) affetto da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, il quale sia (c) tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In tali ipotesi, secondo la Corte, «l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare». Si osserva, ancora, che in questi casi il malato potrebbe lasciarsi morire richiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua ai sensi della legge n. 219 del 2017, la quale invece non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte, così costringendo il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. La Consulta rileva, quindi, che «se, infatti, il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale», concludendo che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive».
Per la prima volta, peraltro, la Corte costituzionale ha adottato una procedura di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata”, sospendendo il procedimento e rinviando l’udienza di un anno (alla data del 24 settembre 2019) in modo da consentire al Parlamento di adottare una riforma della disciplina. Vista la perdurante inerzia del legislatore, tuttavia, con la successiva sentenza n. 242 del 2019 la Consulta non ha potuto che dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Le decisioni della Corte costituzionale hanno animato un ampio dibattito nella dottrina sul reale fondamento della soluzione adottata, sulla sua esatta giustificazione dogmatica e, di conseguenza, sulla possibilità di estenderla ad ipotesi diverse ed ulteriori di eutanasia attiva (Canestrari; Cupelli; Donini; Fiandaca; Giunta; Manes; M. Romano; Tordini Cagli; Vallini).
Le vicende più recenti
In effetti, nelle more dei giudizi della Consulta era emersa un’ulteriore vicenda di problematico inquadramento, ossia quella di Davide Trentini, sofferente dal 1993 di una forma di sclerosi multipla che aveva reso la sua condizione di salute sempre più deficitaria, tanto da condurlo a contattare Marco Cappato e Mina Welby per ottenere assistenza al suicidio, avvenuto presso una clinica Svizzera il 13 aprile 2017. Il giorno successivo, quindi, entrambi si erano autodenunciati proclamando la loro “disobbedienza civile” ed erano stati imputati per il reato di cui all’art. 580 c.p. La Corte d’assise di Massa, con sentenza del 28 aprile 2021, poi confermata dalla Corte d’assise d’appello di Genova, ha però assolto gli imputati ritenendo che i trattamenti farmacologici e l’assistenza personale possano rientrare tra quelli di “sostegno vitale”, dato che l’interruzione dei medesimi comporterebbe la morte del malato, ancorché in maniera non rapida (come nel caso di Trentini, sottoposto a trattamento farmacologico la cui interruzione, secondo i giudici, avrebbe alterato l’equilibrio che gli consentiva di sopravvivere). Nel corso del 2022, peraltro, lo stesso Marco Cappato si è nuovamente autodenunciato per avere accompagnato in Svizzera, dove hanno ottenuto assistenza al suicidio, una donna affetta da una patologia oncologica ed un uomo sofferente di una forma della malattia di Parkinson (entrambi non tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale). In un caso analogo a quest’ultimo, peraltro, nel febbraio 2023 la Procura di Bologna ha richiesto l’archiviazione del procedimento nato dall’autodenuncia di alcune attiviste che avevano accompagnato una donna affetta dalla malattia di Parkinson, sempre sulla base di un’interpretazione estensiva del requisito del “trattamento di sostegno vitale” (richiesta su cui il Giudice per le indagini preliminari non ha ancora provveduto). Da ultimo, il 6 novembre 2023 l’attrice Sibilla Barbieri, malata oncologica che versava in una situazione che secondo l’A.S.L. di Roma non presentava i requisiti individuati dalla Corte costituzionale, ha ottenuto assistenza al suicidio in una clinica svizzera dopo essere stata accompagnata dal figlio e da un ex senatore della Repubblica, i quali si sono autodenunciati il giorno successivo insieme a Marco Cappato, legale rappresentante dell’associazione ‘Soccorso civile’ che ha organizzato e sostenuto il viaggio. Il primo suicidio assistito dal servizio sanitario nazionale italiano, che ha fornito il farmaco letale e ha individuato un medico per supportare l’azione, la quale è stata eseguita materialmente dall’interessata, è stato posto in essere il 28 novembre 2023 sulla base di ordinanza cautelare pronunciata dal Tribunale di Trieste il 4 luglio 2023 in cui è stata riconosciuta la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla Corte costituzionale.
L’iniziativa referendaria e il nuovo intervento della Consulta
In questo contesto si è anche manifestata un’iniziativa referendaria volta ad intervenire sull’art. 579 c.p. in guisa da abrogare l’omicidio del consenziente, salve le ipotesi di vizi del consenso di cui al terzo comma. Con la sentenza n. 50 del 2022, tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito in quanto concernente una norma “costituzionalmente necessaria” poiché posta a tutela di «un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona», essendo il diritto alla vita «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono (…) all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana», dato che esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona». Pertanto, ha affermato la Consulta, «vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate» concludendo che «discipline come quella dell’art. 579 c.p., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale».
Conclusioni alla luce di alcune esperienze straniere
In definitiva, in un difficile rapporto tra regola ed eccezioni, l’attuale assetto normativo consente all’individuo di disporre della propria vita – con la fondamentale conseguenza della non punibilità dei terzi che prestano assistenza (che questa sia in concreto riconducibile alla fattispecie di aiuto al suicidio o a quella di omicidio del consenziente) – soltanto in ipotesi di gravi patologie che richiedono un trattamento di sostegno vitale, in virtù del diritto all’autodeterminazione in ambito terapeutico sancito dall’art. 32 Cost. (non senza incertezze nella delimitazione di tale presupposto, con particolare riferimento alla nozione di trattamento di sostegno vitale). Si tratta di un punto di equilibrio cui, in effetti, sono giunti diversi ordinamenti stranieri, spesso all’esito di vicende di “attivismo giudiziale”, come avvenuto nei contesti inglese e statunitense (Viganò), mentre al contrario la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre mantenuto un atteggiamento più prudente, ritenendo compatibile con la Convenzione europea anche discipline più restrittive (dal leading case Pretty c. Regno Unito del 29 aprile 2002 fino alla recente pronuncia Lings c. Danimarca del 12 aprile 2022). D’altra parte, si deve anche considerare che nel panorama comparatistico non mancano soluzioni ancor più “avanzate”: a parte Paesi come la Svizzera, dove il suicidio è assistito in maniera organizzata ed è punita soltanto l’assistenza dettata da “motivi egoistici”, merita una speciale considerazione l’ordinamento tedesco, in cui l’aiuto al suicidio dal 1871 non costituisce reato ed il Tribunale costituzionale federale ha recentemente dichiarato illegittima la fattispecie di cui al § 217 StGB, introdotta nel 2015, che puniva il “favoreggiamento commerciale del suicidio” (ossia la sua realizzazione in forma organizzata, analogamente a quanto avviene in Svizzera, nelle Sterbehilfevereine). Tale decisione è stata motivata sulla base del riconoscimento di un vero e proprio diritto a morire, quale espressione della dignità umana, indipendentemente dalle condizioni del soggetto e dalle sue motivazioni, osservando che tale diritto sarebbe limitato in maniera sproporzionata dalla preclusione all’accesso alle forme più organizzate e procedimentalizzate di assistenza (Fornasari; Recchia).
Note bibliografiche
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