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ELEMENTI DI DIRITTO PENALE

Sezione I

Le percosse e le lesioni

Massimiliano Lanzi

Sommario: 1. Il delitto di percosse (art. 581 c.p.).2. Il delitto di «lesione personale» – definizione di «malattia».3. Il delitto di lesione personale (artt. 582 e 583 c.p.): il fatto tipico.4. L’elemento soggettivo: il dolo nei reati di percosse e lesione personale.5. Lesioni personali gravi e gravissime (art. 583 c.p.).6. Lesioni personali aggravate (artt. 583-quater e 585 c.p.).7. Lesioni personali colpose (590 c.p.).8. Lesioni personali e consenso dell’avente diritto: il caso delle attività sportive.

1. Il delitto di percosse (art. 581 c.p.).

1.Il delitto di percosse (art. 581 c.p.).

I delitti di percosse e di lesioni personali, di cui rispettivamente agli artt. 581 e 582 c.p., rappresentano le classiche fattispecie a tutela dell’incolumità individuale, identificabile come diritto fondamentale della persona dotato di rilievo costituzionale, quale primo livello irrinunciabile nella prospettiva della soddisfazione del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.

Sul piano della tipicità, il reato di percosse sanziona con la pena alternativa della reclusione fino a sei mesi o della multa fino a 309 € chiunque «percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente».

Competenza e pene irrogabili

Occorre considerare che, trattandosi di reato attribuito alla competenza per materia del giudice di pace, la pena concretamente irrogabile non è quella, alternativa detentiva o pecuniaria, comminata nel codice penale, bensì quella disposta dall’art. 52, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 274/2000, per cui per ai reati di competenza del giudice di pace puniti con pena alternativa della reclusione o della multa, «si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente [nel caso in esame, quindi, la multa, nda] da euro 258 a euro 2.582». L’originaria sanzione codicistica permane nelle sole limitate ipotesi in cui le percosse restano di competenza del tribunale, e cioè in presenza delle circostanze aggravanti indicate all’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 274/2000.

Si tratta di un reato comune, che consta di due elementi, uno positivo, corrispondente ad una condotta qualificabile come percosse, e uno negativo, identificabile nell’assenza di malattia, fisica o mentale, quale conseguenza di tale condotta.

Elemento positivo: percosse

Costituisce la condotta del percuotere l’esecuzione di una violenza sul soggetto passivo del reato, idonea a provocare nella vittima una sensazione dolorosa. Si tratterebbe, nell’interpretazione prevalente, di un reato di mera condotta; in questo senso, anche laddove la vittima non percepisse alcuna sofferenza, vuoi ad esempio perché molto allenato, o insensibile al dolore, il reato si consumerebbe egualmente. La casistica è molto variegata, assumendo valore di percossa qualunque condotta dotata di violenza fisica, indirizzata ad altro soggetto, con o senza l’uso di strumenti atti a percuotere; purché sia comunque riscontrabile un contatto tra il soggetto agente e la vittima: pugno, calcio, schiaffo, urto, spinta, sculacciata, bastonata, frustata, getto violento d’acqua, afferramento e trascinamento per i capelli, tirata di capelli. Anche l’apposizione delle mani intorno al collo del soggetto passivo, quand’anche la stretta non sia tale da lasciare tracce ecchimotiche, integra il delitto di percosse. Non integrerebbe invece l’illecito in argomento il taglio dei capelli o della barba, contro la volontà di chi lo subisce, in quanto condotte non idonee a generare sofferenza fisica nel soggetto passivo; ciò sempre che non ne siano derivate ferite o tagli cutanei. Parimenti, non integrano le percosse le condotte volte a procurare alla persona offesa una mera sofferenza morale, e non già fisica: così, ad esempio, lo schiaffo “simbolico”, volto a manifestare disprezzo per la vittima ma inidoneo a generare alcuna concreta sofferenza fisica.

Elemento negativo: assenza di malattia

Come anticipato, il limite all’operatività della fattispecie in esame risiede nella circostanza che la condotta violenta non abbia cagionato nel soggetto passivo alcuna malattia, né fisica né mentale. Non deve verificarsi, in altre parole, alcun danno funzionale alla persona, anche solo di minima entità: tale fatto, altrimenti, risulterebbe inquadrabile nel delitto di lesioni personali.

La definizione di «malattia» assume quindi una particolare rilevanza nell’analisi degli illeciti in parola. Sul punto si dirà più diffusamente oltre, nel prossimo paragrafo.

Assorbimento delle percosse nel più grave reato “violento”

Un ulteriore limite all’applicazione della fattispecie di percosse è disposto dall’ultimo comma dell’art. 581 c.p., per cui tale disposizione non si applica «quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato». La previsione normativa dà luogo ad un assorbimento dei fatti di percosse nel diverso reato, più grave, che preveda appunto l’uso di violenza sulla persona nella modalità di realizzazione dell’illecito. La giurisprudenza ha riconosciuto, in questo senso, che le percosse restano assorbite, ad esempio, nella resistenza a pubblico ufficiale, nei maltrattamenti in famiglia, nella rapina, nel sequestro di persona a scopo di estorsione e nella violenza privata. Laddove tuttavia dalla condotta violenta dell’agente si verifichi, sulla persona offesa, una conseguenza lesiva che vada oltre il limite delle percosse e tale da configurare, invece, delle lesioni personali, tra quest’ultimo reato e il reato “prevalente” si verifica un concorso formale di reati, trovando luogo la disciplina sanzionatoria dell’art. 81 c.p. Per cui, tornando agli esempi formulati sopra, se l’agente, nel commettere resistenza a pubblico ufficiale, procura a quest’ultimo delle lesioni, lo stesso risponderà di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni; se invece si limita a percuotere l’agente senza procurargli alcuna lesione (ad esempio, spingendo lontano da sé il carabiniere che intende identificarlo) risponderà solo di resistenza a pubblico ufficiale.

Tentativo

In merito alle forme di manifestazione del reato, occorre rilevare che giurisprudenza risalente ammette la configurabilità del tentativo di percosse. Anche se risulta difficile, da un punto di vista pratico, distinguere tale illecito dal tentativo di lesioni personali.

Dolo di percosse

Sul piano dell’elemento soggettivo del reato, le percosse sono punibili a titolo di dolo generico. Secondo una prima teoria, il dolo di percosse consisterebbe nell’intenzione di colpire taluno con violenza e il fatto tipico di percosse, quindi, si differenzierebbe da quello di lesioni personali solo in ragione del diverso evento lesivo prodotto sul soggetto passivo della condotta (Manzini). Una diversa teoria individua il dolo di percosse nella volontà di tenere una condotta violenta tale da cagionare solo una sensazione dolorosa (Basile). Stando a quest’ultima impostazione, l’offesa alla personalità morale della vittima sarebbe quindi un elemento strutturale della fattispecie, e si avrebbe il diverso dolo di ingiuria nei soli casi, eccezionali, di violenza meramente formale, indirizzata unicamente, appunto, a ledere l’onore del soggetto passivo.

Sul versante procedurale, è opportuno segnalare due aspetti, utili per cogliere la concreta portata di tale fattispecie nell’economia della giustizia penale.

Competenza per materia: giudice di pace

Anzitutto, il delitto di percosse è stato attribuito, ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 274/2000, alla competenza per materia del giudice di pace. La competenza per materia del tribunale è stabilita, invece, per alcune particolari ipotesi di percosse, elencate all’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 274/2000, ovvero, tra le altre, quelle realizzate nel contesto della commissione di reati di criminalità organizzata, o ancora in presenza di aggravante di discriminazione o di odio etnico o raziale.

Procedibilità

Il secondo profilo è inerente alla procedibilità, la quale è a querela di parte, tranne che in alcune specifiche ipotesi. Si procede d’ufficio, anzitutto, laddove ricorra la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11-octies, c.p., e cioè se il fatto è commesso a danno di medici, infermieri o altro personale sanitario. Fattispecie, quest’ultima, introdotta nel 2020, nel corso dell’emergenza pandemica da Covid-19, in conseguenza di alcuni episodi di aggressione a personale ospedaliero che avevano suscitato un grande allarme sociale. E altresì, la procedibilità è d’ufficio nel caso in cui le percosse siano commesse, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito dal questore secondo la procedura di cui all’art. 3 D.L. n. 93/2013. Così è il nuovo comma 5 quinquies della norma da ultimo citata, introdotto di recente ad opera della L. n. 168/2023 («disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica»), sull’onda dell’aumentato allarme sociale legato al fenomeno della violenza domestica e di genere.

2. Il delitto di «lesione personale» – definizione di «malattia».

2.Il delitto di «lesione personale» – definizione di «malattia».

La fattispecie di lesione personale è oggetto di una articolata trama codicistica, ove si distingue tra lesione personale dolosa, di natura lieve e lievissima (art. 582 c.p.) e grave e gravissima (art. 583 c.p.), e lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), differenziate in lievi, gravi e gravissime. A queste si affiancano le disposizioni complementari di cui all’art. 583-quater c.p., inerente alle lesioni personali commesse a danno di pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico nel corso di manifestazioni sportive e di personale sanitario ospedaliero, e dell’art. 585 c.p., la quale prevede una serie di ulteriori circostanze aggravanti della fattispecie di lesione personale.

Le varie ipotesi si differenziano tra loro, dunque, sotto due distinti profili. Anzitutto sul piano dell’elemento soggettivo del reato, distinguendosi tra lesioni dolose – ovvero realizzate con la volontà quantomeno di procurare violenza ad altro soggetto, vedremo infra in che termini – e lesioni colpose, in cui l’evento del reato è invece la conseguenza non voluta di una condotta colposa, e ne costituisce quindi uno sviluppo prevedibile ed evitabile.

Il secondo criterio differenziale attiene, invece, al piano oggettivo del reato, e nella specie all’entità delle lesioni procurate – vuoi dolosamente, vuoi colposamente – al soggetto passivo della condotta, secondo una progressione offensiva che trova, come vedremo, un rispondente aggravio sanzionatorio (lesioni lievissime, lievi, gravi e gravissime).

Le fattispecie in argomento tutelano il bene giuridico dell’incolumità individuale, sia fisica che psichica, e si tratta di un reato di evento di danno, corrispondente alla malattia conseguente alla lesione procurata dalla condotta violenta o comunque, come vedremo, “invasiva”, altrui.

Interessante rilevare come la fattispecie di cui all’art. 582 c.p. si riferisca alla lesione personale procurata «ad alcuno», dovendosi escludere in questo senso le autolesioni, le quali potranno integrare, sussistendone gli ulteriori elementi essenziali, il delitto di frode in assicurazione, o anche i reati di autolesionismo previsti dalle leggi penali militari. Si considerano altresì estranee al perimetro delle fattispecie in parola le condotte lesive di un numero indeterminato di persone, le quali trovano invece collocazione penalistica nei delitti contro l’incolumità pubblica di cui al Titolo VI del Libro II del Codice.

Tratto distintivo delle ipotesi in parola, ad ogni modo, è il verificarsi, a danno del soggetto passivo, di una «lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente». È dunque dalla definizione di «malattia» che occorre guardare, per ritagliare il perimetro applicativo comune a tutte le ipotesi di lesione personale.

Definizione di «malattia»: teorie dottrinali

In dottrina, si tende a privilegiare una nozione di «malattia» quale limitazione funzionale alla vita di relazione dell’individuo, e ciò in quanto l’incolumità individuale, bene giuridico tutelato da tali figure criminose, non andrebbe inteso in senso statico bensì dinamico, come funzionale alla realizzazione della vita dell’essere umano e quindi, appunto, alla sua capacità di relazione. Secondo questa impostazione non rientrerebbero nel fatto tipico in esame, pertanto, i danni biologici assolutamente irrilevanti sul tale piano funzionale e relazionale. E così, sempre in tale ottica, la nozione penalistica di «malattia» dovrebbe avvicinarsi a quella propria della medicina legale, che ritiene necessario lo sviluppo di un processo patologico che determini un’apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo: con la conseguenza che, ove si riscontri un’alterazione anatomica ma priva di implicazioni funzionali – come avviene, ad esempio, in caso di ecchimosi o di abrasioni cutanee – non dovrebbe parlarsi di lesioni personali quanto di mere percosse.

… e prassi giurisprudenziale

Pur riscontrandosi alcuni precedenti giurisprudenziali in linea con tale tendenza riduttiva della portata applicativa della fattispecie, e che riconducono quindi le lesioni alle sole alterazioni apprezzabili della funzionalità dell’individuo, la giurisprudenza maggioritaria accede ad una definizione estremamente lata di «malattia». Tale interpretazione estensiva finisce, di fatto, per erodere gran parte dell’ambito applicativo della contigua fattispecie di percosse, che risulta quindi residuale. In sede pretoria, infatti, si intende per «malattia» qualsivoglia alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, circoscritta e non influente sulle condizioni generali e sulla funzionalità dell’individuo. Per tanto, costituisce lesione personale, e non percosse, qualsiasi tipo di trauma contusivo e di escoriazione, gli ematomi, le ecchimosi, i graffi. Ma si rintracciano altresì pronunce in cui si riconducono alla nozione di «malattia» anche compromissioni meno evidenti, quali l’acufene, la cervicoalgia, l’ipertensione.

Il primo comma dell’art. 581 c.p., ad ogni modo, si riferisce altresì alla malattia «nella mente», consistente in qualsivoglia disturbo funzionale dell’attività psichica. La giurisprudenza, in questo senso, riconosce la malattia nella mente in modo altrettanto lato di quanto accade rispetto alle malattie del corpo. E così, integra una «malattia», tipica ai sensi delle fattispecie in parola, non solo ogni offuscamento o disordine mentale, indebolimento, eccitazione o depressione; ma altresì qualsiasi alterazione del sistema nervoso, espressa da cefalee, insonnia, tremore alle mani. E anche lo shock e lo svenimento, comportando l’inerzia dell’attività psichica, sia pure per un periodo brevissimo, integrano gli estremi della malattia. La casistica in argomento è comunque molto vasta e variegata, e non sempre del tutto lineare. Si riscontrano precedenti, ad esempio, in cui è stata negata la qualificazione di «malattia» alla mera agitazione psicomotoria (Cass., 8 settembre 2022, n. 37870), e altresì all’alterazione del tono dell’umore di un insegnante, riconducibile, secondo la prospettazione accusatoria, a una condotta di mobbing realizzata dal preside dell’istituto scolastico (Cass., 29 agosto 2007, n. 33624). Da segnalarsi tuttavia, a tale riguardo, come in altre pronunce in tema di mobbing sia stata nondimeno riconosciuta la sussistenza di una malattia, rilevante come lesione personale di cui all’art. 582 c.p., individuata in particolare nella sussistenza di disturbi ansioso-depressivi (Cass., 6 luglio 2013, n. 28603).

3. Il delitto di lesione personale (artt. 582 e 583 c.p.): il fatto tipico.

3.Il delitto di lesione personale (artt. 582 e 583 c.p.): il fatto tipico.

Tradizionalmente, il più importante criterio distintivo tra ipotesi di lesioni personali dolose atteneva, come anticipato, all’entità delle lesioni procurate al soggetto passivo della condotta violenta. E così, è possibile distinguere, entro l’ordito costituito dalle fattispecie di cui agli artt. 582 c.p. e 583 c.p., tra lesione lievissima, la quale riguarda un’infermità guaribile in meno di venti giorni; lesione lieve, che ricorre in presenza di una prognosi tra i venti e i quaranta giorni; lesione grave, relativa ad una malattia che mette in pericolo la vita della persona offesa, ovvero ad una malattia con prognosi superiore ai quaranta giorni, o ancora che comporta l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; e infine lesione gravissima, se dal fatto derivano una malattia certamente o probabilmente incurabile, la perdita di un senso ovvero la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella.

Lesione personale lieve

L’art. 582, comma 1, c.p., disponeva – e dispone ancora oggi – la figura base, ai sensi della quale «chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da tre mesi a tre anni». Il legislatore, con la riforma di cui al d.lgs. n. 150/2022, ha quindi esteso alle lesioni c.d. lievi il regime di procedibilità a querela, prima previsto, ai sensi del previgente comma 2 del medesimo articolo, per le sole lesioni c.d. lievissime (cioè con prognosi inferiori ai venti giorni). L’attuale secondo comma dell’art. 582 c.p. – come risulta modificato dalla medesima riforma del 2022 – dispone invece la procedibilità d’ufficio se la malattia ha durata superiore a venti giorni quando il fatto è commesso contro persona incapace, per età o per infermità, e altresì se, a prescindere dalla durata della malattia, ricorrono alcune particolari circostanze aggravanti, quali l’aver agito a danno di esercenti le professioni sanitarie (art. 61, n. 11-octies, c.p.), avere procurato lesioni gravi o gravissime (art. 583, rispettivamente commi 1 e 2, c.p.), o ancora se ricorre alcuna tra le circostanze aggravanti indicate dall’art. 585 c.p. e al secondo comma dell’art. 577 c.p. Da notare come, ad opera della recentissima riforma di cui alla legge n. 163/2023, sia ora prevista altresì la procedibilità d’ufficio delle lesioni personali commesse, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già raggiunto da ammonimento del questore, ai sensi dell’art. 3 D.L. n. 93/2013 (così il nuovo comma 5 quinquies dello stesso art. 3 D.L. n. 93/2013).

Procedibilità a querela e competenza del giudice di pace

Sul piano processuale, le prime pronunce di legittimità intervenute dopo la riforma hanno stabilito come tutte le ipotesi di lesioni procedibili a querela, con prognosi superiore a venti e non eccedente i quaranta giorni, sarebbero oggi attratte nella competenza del giudice di pace, la quale era prima limitata alle sole lesioni lievissime. La giurisprudenza, pur avendo preso atto del mancato coordinamento, in occasione della riforma del 2022, tra la nuova lettera dell’art. 582 c.p. e le disposizioni dell’art. 4 d.lgs. n. 274/2000 sulla competenza del giudice di pace, ha affermato come tale interpretazione sarebbe conforme alla volontà del legislatore riformatore «di ampliare la competenza della predetta autorità giudiziaria a tutti i casi di lesioni procedibili a querela» (vd. Cass., 10 ottobre 2023, n. 15517). Occorre segnalare, tuttavia, come una successiva pronuncia si sia posta in consapevole contrasto con tale orientamento, il quale, disattendendo palesemente il testo di legge per dare attuazione alla «volontà del legislatore», si porrebbe in attrito con il principio di legalità formale (vd. Cass., 20 settembre 2023, n. 40719, la quale, ai sensi di una lettura “piana” dell’art. 4 d.lgs. n. 274/2000, esclude che al giudice di pace sia rimasta la competenza per alcuna delle ipotesi di lesioni personali, perseguibili a querela). In ragione di tale sopravvenuto contrasto interpretativo – foriero di estesi ed immediati impatti sulla giurisdizione penale – il 10 ottobre 2023 la questione è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, perché fornisca i doverosi chiarimenti del caso (vd. Cass., ord. 19 ottobre 2023, n. 42858).

Pena concretamente irrogabile

Il suddetto problema interpretativo assume rilevanza non solo dal punto di vista processuale – in merito all’attribuzione della competenza per materia – ma altresì sul piano sostanziale. E infatti, alle fattispecie attribuite alla competenza del giudice di pace non sarebbe in realtà comminabile la sanzione detentiva enunciata nel codice penale (ovvero la reclusione da tre mesi a tre anni), quanto piuttosto le sanzioni indicate dall’art. 52, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 274/2000, ovvero, in alternativa, la multa da € 516 a € 2.582, la permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni, o la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi.

Per le ipotesi attribuite alla competenza del tribunale risulterà invece comminabile la sanzione detentiva disposta dal codice. Per chiarire questo ulteriore e rilevante aspetto occorrerà dunque attendere che si pronuncino le Sezioni Unite.

Dal punto di vista della struttura del reato, si tratta di una fattispecie a consumazione istantanea, che coincide con l’inizio della malattia; l’eventuale protrarsi della stessa costituisce un effetto eventualmente permanente. Allo stesso tempo, eventuali postumi permanenti della violenza, cioè non rimovibili, costituiscono una circostanza aggravante dell’illecito, come si vedrà infra.

Condotta tipica

Sempre in merito all’elemento oggettivo del reato, nella giurisprudenza consolidata «cagionare una lesione» ha un’accezione più lata rispetto all’azione di picchiare o colpire, ricomprendendo qualunque manomissione fisica dell’altrui persona, purché tale condotta provochi una malattia. E così, nell’ampia casistica di riferimento, è qualificabile come lesione personale, ad esempio, lo spegnimento di una sigaretta sul corpo dell’altro, e altresì un ampio novero di condotte non qualificabili in senso stretto come “violente”, purché idonee all’insorgenza di una malattia. Integrano il fatto tipico di lesione personale, infatti, l’esposizione ad un forte rumore che provochi danni all’udito, l’esposizione prolungata al freddo che cagioni una polmonite o altra malattia respiratoria; ma anche, si sostiene in dottrina, la comunicazione di una falsa notizia tragica che cagioni l’aggravamento di una cardiopatia (Zagrebelsky). In alcuni arresti giurisprudenziali, parimenti, è stato attribuito valore di lesione personale all’iniezione in vena di stupefacente, in quanto la stessa provoca un’alterazione dello stato fisico e psichico.

Nesso causale – criteri di accertamento

Trattandosi di un reato di evento di danno, occorre naturalmente accertare il nesso causale incorrente tra la condotta – violenta o no – dell’agente, la lesione e la malattia patita dal soggetto passivo. L’accertamento di tale nesso causale si presenta talvolta come problematico, e la medicina legale ha elaborato, nel tempo, una serie di criteri, seguiti dalla giurisprudenza. Il primo è anzitutto quello cronologico, il quale valuta la distanza temporale tra la lesione e l’insorgenza della malattia, prendendo a riferimento casi analoghi. È poi utilizzato un criterio topografico, il quale mette in relazione la sede della lesione con l’emersione delle alterazioni. Si considera, inoltre, l’efficienza lesiva-quantitativa della lesione, e cioè l’adeguatezza della stessa rispetto alla malattia. Gli esperti del settore impiegano, da ultimo, i criteri della continuità e della esclusione, corrispondenti, rispettivamente, alla compatibilità della malattia con il periodo di latenza osservato in casi simili, e alla inverosimiglianza di ipotesi causali alternative; questo ultimo criterio, in particolare, esplora la possibilità che la malattia sia stata cagionata da altra e diversa lesione.

Importante notare come la giurisprudenza fondi, in talune pronunce, la ricorrenza della fattispecie non solo nell’avere ingenerato ex novo una malattia – di cui prima il soggetto passivo non soffriva – ma anche nell’averne aggravato una preesistente, ovvero nell’averne cagionato una di carattere latente. Proprio a tale riguardo, del resto, si è formata la casistica in merito alla trasmissione del virus HIV, che – ricorrendone gli altri elementi tipici della fattispecie – la giurisprudenza riconduce al novero di malattia, anche laddove non ancora sfociata in AIDS conclamata.

4. L’elemento soggettivo: il dolo nei reati di percosse e lesione personale.

4.L’elemento soggettivo: il dolo nei reati di percosse e lesione personale.

Sul piano dell’elemento soggettivo del reato, si tratta naturalmente di un reato doloso, in cui pertanto l’agente deve agire avendo rappresentazione e volontà di tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico. Non è univoco, tuttavia, quale sia il concreto perimetro del dolo tipico di lesione personale, e in particolare quale debba essere l’oggetto delle suddette previsione e volontà dell’agente.

Il dolo di lesione

Secondo una prima impostazione, accolta dalla giurisprudenza costante, per rispondere di lesione personale è sufficiente che l’agente si rappresenti e voglia la violenta manomissione del soggetto passivo della propria condotta, senza necessità che il dolo comprenda il risultato di tale manomissione, ovvero l’esatta entità della malattia che ne scaturisce. Pertanto, vi sarebbe un unico dolo che riguarderebbe, indistintamente, i delitti di percosse, lesioni lievissime, lievi, gravi e gravissime. Il solo nesso causale incorrente tra la condotta violenta, la lesione e la malattia che ne consegue (la cui entità qualifica diversamente, come visto, il fatto di lesione personale) sarebbe sufficiente per addebitare al soggetto la fattispecie concretamente realizzata. A tale stregua, la responsabilità per le lesioni personali volontarie discenderebbe, pertanto, da ogni condotta volontaria idonea a determinarle, quando sia accompagnata da intenzionalità lesiva, intesa come volontà di procurare sensazioni dolorose. La giurisprudenza motiva tale assunto rappresentando come il legislatore non abbia invece previsto – differentemente da quanto accade in tema di omicidio – la figura delle “lesioni preterintenzionali”, sia per la pratica impossibilità di discernere, tra le lesioni procurate alla persona offesa, quelle previste e volute da quelle non previste e non volute, sia perché «la tutela dell’integrità personale – oggetto di speciale considerazione costituzionale – può essere assicurata solamente attraverso un ordito legislativo che scoraggi ogni forma di aggressione alla persona» (così Cass., 5 giugno 2019, n. 25116).

Secondo un diverso orientamento, il dolo dovrebbe riguardare la malattia sviluppata dal soggetto passivo (Antolisei), e dunque la volontà di cagionare allo stesso le particolari conseguenze lesive verificatesi.

Una terza impostazione occupa un apprezzabile punto di equilibrio tra le suddette teorie, che rispettivamente molto allargano e molto restringono l’ambito applicativo del reato in esame. Ai sensi di tale ultima tesi, il dolo di lesione personale consisterebbe nella volontà di cagionare una lesione idonea rispetto alla conseguente insorgenza di una malattia. Si potrebbe differenziare da ciò, pertanto, il dolo di percosse, che consisterebbe invece nella volontà di cagionare a taluno una mera sofferenza fisica, senza la successiva insorgenza, appunto, di una malattia.

5. Lesioni personali gravi e gravissime (art. 583 c.p.).

5.Lesioni personali gravi e gravissime (art. 583 c.p.).

Secondo una parte della dottrina (es. Antolisei), nonostante la rubrica dell’art. 583 c.p. – ove si parla espressamente di «circostanze aggravanti» – le lesioni gravi e gravissime rappresenterebbero altrettanti titoli autonomi di reato. Uno dei principali argomenti addotti a sostegno di tale conclusione fa leva su di un dato letterale. L’art. 583, comma 1, n. 1 c.p. stabilisce che la lesione è grave «se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni». Si osserva, in proposito, che la lesione grave può quindi consistere o in una malattia, oppure nella suddetta incapacità di dedicarsi alle ordinarie occupazioni. Trattandosi di due concetti distinti e fra loro alternativi (come risulterebbe dalla disgiuntiva «o»), l’incapacità in oggetto non potrebbe rappresentare una species del genus malattia; e pertanto, l’art. 583 c.p. non potrebbe dirsi norma speciale rispetto all’art. 582, che contempla unicamente la «malattia». Ma se il rapporto di specialità tra lesione personale lieve (art. 582, comma 1, c.p.) e lesioni personali gravi o gravissime non è sempre ravvisabile – si osserva – viene meno la possibilità di qualificare l’art. 583 c.p. alla stregua di norma che prevede circostanze aggravanti. La circostanza, invero, dovrebbe sempre essere un quid di speciale rispetto alla fattispecie base: cosa che non avverrebbe in questo caso, poiché l’evento del fatto-base sarebbe rappresentato soltanto dalla «malattia», e non anche dall’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni.

La soluzione recepita dalla giurisprudenza e condivisa dalla dottrina prevalente è tuttavia nel senso che l’art. 583 c.p. preveda vere e proprie circostanze aggravanti. Dal punto di vista pratico, ciò comporta una serie di conseguenze di notevole rilievo: prima fra tutte, la necessità di procedere ad un giudizio di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti.

L’assunto maggioritario sembra condivisibile. Innanzitutto, se è vero che rubrica legis non est lex, essa rappresenta comunque una chiara indicazione circa la volontà del legislatore di configurare circostanze aggravanti, e non modelli delittuosi autonomi. Inoltre, l’attuale disposto dell’art. 59, comma 2, c.p. impone un’imputazione delle aggravanti in linea con il principio di colpevolezza, sicché non è più necessario ricorrere ad una qualificazione delle lesioni gravi o gravissime alla stregua di fattispecie autonome per sottrarle alla sfera della responsabilità oggettiva. Quanto poi al tenore letterale degli artt. 582 e 583 c.p., esso pare tutt’altro che decisivo, a causa delle imprecisioni che lo caratterizzano in più punti. La stessa fattispecie base di lesioni sembrerebbe, ad una prima lettura, contraddistinta dalla presenza di un doppio evento naturalistico: si richiede infatti che la condotta cagioni una lesione (= primo evento), dalla quale derivi, a sua volta, una malattia (= secondo evento). In realtà, non si dubita che l’evento del delitto in esame sia uno soltanto: la condotta deve aver cagionato il risultato lesivo del bene «incolumità individuale», e dunque la malattia. Ma allora le espressioni «malattia» e «lesione» possono essere intese in maniera sufficientemente estesa da poter comprendere l’ipotesi della incapacità di attendere alle proprie occupazioni: così venendo meno il principale argomento addotto a sostegno della tesi che considera le lesioni gravi e gravissime quali titoli autonomi di reato.

Lesione grave

Al netto di tale questione classificatoria, ai sensi di legge la lesione è «grave» – e si applica quindi la più grave sanzione della reclusione da tre a sette anni – i) se dal fatto derivi una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; ovvero ii) se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.

Pericolo di vita

Analizzando le singole ipotesi previste dalla norma in esame, si consideri anzitutto che il pericolo di vita si verifica quando, in un momento qualsiasi del percorso morboso, è diagnosticata, in base ad evidenze scientifiche, il pericolo di morte imminente della persona offesa; non essendo sufficiente, in questo senso, una mera prognosi in merito alla possibilità di un esito sfavorevole del decorso morboso. Ai sensi della giurisprudenza consolidata, la mera “prognosi riservata” non coincide con il pericolo di vita, occorrendo invece che il pericolo di morte – necessario ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante in parola – risulti da un giudizio diagnostico sull’effettivo stato di salute del paziente.

Malattia superiore a quaranta giorni

In merito alla malattia o all’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni, la giurisprudenza si riferisce al tempo necessario per pervenire alla guarigione clinica, da intendersi come pieno recupero funzionale, comprensivo quindi anche dell’eventuale periodo di convalescenza, e altresì al periodo di riposo, sempre dipendente dalla malattia.

È da notare come l’espressione «ordinarie occupazioni» si riferisca ad ogni attività, non solo a quelle lavorative; interpretazione questa che, evidentemente, discriminerebbe i soggetti privi di un lavoro, vuoi perché disoccupati, o perché troppo anziani o troppo giovani (Fiandaca-Musco). L’incapacità che rileva, inoltre, non è solo quella assoluta, bensì anche quella parziale, che si verifica laddove la persona offesa riesca sì a svolgere le proprie ordinarie mansioni, ma con uno sforzo inconsueto ovvero comunque con un pregiudizio rispetto alla propria abituale qualità della vita.

Indebolimento permanente di un senso o di un organo

Per quanto attiene, da ultimo, all’indebolimento permanente di un senso o di un organo, profili di dubbio interpretativo attengono, anzitutto, alla corretta definizione di «senso» e di «organo».

Il senso è definito, in dottrina, come il complesso di elementi e tessuti anatomici che mettono l’individuo in contatto con il mondo esterno, facendogli percepire stimoli provenienti dall’esterno (vista, udito, olfatto, tatto, gusto) o anche dall’interno (senso viscerale, muscolare, genesico).

L’organo rappresenta invece, nell’ampia casistica giurisprudenziale di riferimento, quel complesso di elementi e tessuti anatomici che servono a una funzione della vita. E così, costituiscono un «organo», ad esempio, la parete addominale o la teca cranica. Discorso più articolato si rinviene in merito alla cute, la quale è sì considerata «organo», ma solo con riferimento alla funzione di difesa, termoregolatoria e secretoria da essa svolta. Non costituisce quindi una lesione di per sé grave la compromissione permanente della sola funzione estetica della cute. La cicatrice, come vedremo infra, è piuttosto considerata dal legislatore quale ipotesi speciale di lesione, punita in modo particolarmente severo, ma solo nel caso in cui riguardi il viso del soggetto leso: in questi termini è il nuovo art. 583-quinquies c.p. («Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso»), introdotto nel 2019. Fino ad allora, la deformazione o lo sfregio permanente del viso costituiva un’ipotesi di lesione personale gravissima, ai sensi dell’art. 583, comma 2, n. 4), c.p.

Per integrare la circostanza aggravante in parola deve poi verificarsi un indebolimento, trattandosi questo di un dato quantitativo, che si riscontra in una finestra che ha come estremi il normale grado di funzionalità ottimale, da un lato, e la soppressione totale di quella medesima funzione, dall’altro. La suddetta condizione corrisponde a qualsiasi menomazione, a prescindere, come chiarito dalla giurisprudenza, dalla gravità; la stessa potrà infatti anche avere carattere minimo, purché apprezzabile strumentalmente. Tale menomazione, ai sensi di legge, deve poi essere permanente, destinata cioè a durare per l’intera vita della persona offesa, o rispetto alla quale sia comunque assolutamente imprevedibile il recupero funzionale. Da questo punto di vista, è stato a più riprese affermato che l’eventuale superamento della menomazione tramite protesi non esclude l’aggravante, purché l’indebolimento si riferisca alla normale funzione dell’organo e del senso, indipendentemente dall’ausilio di mezzi artificiali.

La costante giurisprudenza ha inoltre chiarito che, negli organi complessi, anche la perdita di un solo elemento è sufficiente ad integrare un indebolimento. Nella ricca casistica di riferimento, si attribuisce rilevanza, quale lesione grave in parola, alla perdita di un testicolo, rispetto alla funzione riproduttiva, e altresì alla perdita di un occhio, rispetto alla funzione visiva. Più articolato il discorso con riferimento a lesioni che interessino la dentatura del soggetto passivo: anche la perdita o la devitalizzazione di un solo dente può integrare l’aggravante in argomento, laddove abbia comportato il complessivo indebolimento della funzione masticatoria. Parimenti, rilevano in questo senso anche apprezzabili deficit all’organo dell’udito, e si riscontrano precedenti che accertano la sussistenza dell’aggravante in esame a fronte di una menomazione di tale organo del 4-5%.

Lesioni gravissime

Il secondo comma dell’art. 583 c.p. dispone poi una pena ancora più elevata, corrispondente alla reclusione da sei a dodici anni, nel caso di lesioni personali gravissime, qualificando in questo modo quei fatti da cui derivi i) una malattia certamente o probabilmente insanabile, ii) la perdita di un senso, iii) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà di favella.

Per quanto attiene all’ipotesi di una malattia certamente o probabilmente insanabile, in dottrina si evidenzia la difficoltà di distinguere tale ipotesi rispetto alla verificazione di una malattia che procuri menomazioni o alterazioni permanenti di un senso o di un organo del soggetto passivo (le quali integrano, come visto, una lesione grave). In linea generale, può osservarsi che, poiché la malattia costituisce un processo, l’aggravante in parola si riscontra nei casi di prognosi di una alterazione funzionale dell’organismo, che evolva nel tempo senza ragionevole possibilità di guarigione.

Nella casistica di riferimento, ipotesi di particolare rilevanza sono quelle che attengono alla trasmissione del virus HIV. La giurisprudenza di legittimità, anche a fronte di recenti pronunce, ha più volte affermato come risponda di lesioni personali gravissime sorrette da dolo eventuale, e non già di lesioni colpose con previsione dell’evento, la condotta di colui che, consapevole di essere affetto da sindrome HIV, intrattenga, ciò nonostante, reiteratamente rapporti sessuali non protetti con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo, così finendo per trasmettergli il virus della suddetta malattia (vd. Cass., 17 febbraio 2023, n. 6911).

Per quanto attiene alla perdita di un senso o dell’uso di un organo, si tratta con ogni evidenza di un accadimento posto in una relazione di progressione offensiva rispetto alla mera menomazione dell’organo o del senso, prevista invece quale mera lesione grave, ai sensi del comma primo dell’art. 583 c.p. In dottrina si rappresenta che la perdita di un senso o di un organo ricorre non soltanto in caso di totale soppressione della funzione, ma anche di riduzione sotto la soglia dell’utilità funzionale.

Per quanto attiene alla perdita di un arto o ad una mutilazione che lo renda inservibile, per «arto» deve anzitutto intendersi uno dei quattro segmenti corporei articolabili che si staccano dal tronco, e l’aggravante in parola è integrata tanto dalla perdita quanto da una paralisi che renda l’arto inservibile. È stata evidenziata, ad ogni modo, la ridondanza della previsione in esame: poiché, infatti, la nozione di arto rientra in quella di organo, la perdita anatomica o l’inutilizzabilità funzionale di un arto rileverebbero comunque come lesione gravissima, quale perdita dell’uso di un organo. Perdite o mutilazioni di una parte soltanto di un arto, invece, dovrebbe rilevare quale indebolimento permanente dell’organo, e quindi come lesione personale grave, ai sensi dell’art. 583, comma 1, n. 2), c.p.

La perdita della capacità di procreare consiste nella perdita definitiva della facoltà di dare alla luce, in maniera fisiologica, un figlio. Nel maschio si può distinguere, a tale riguardo, tra impotentia coeundi – intesa come impotenza dell’uomo nell’avere il coito – e impotentia generandi, riscontrabile nei casi di sterilità, in senso stretto. Per quanto attiene alla femmina, invece, l’aggravante si riferisce alla perdita della capacità di concepire, di gestare e di partorire. Secondo la dottrina, peraltro, l’aggravante in parola riguarda anche gli impuberi, poiché la capacità va considerata in termini potenziali, e non di attualità (Manzini).

Per quanto riguarda la difficoltà della favella, questa concerne la facoltà del parlare, e riguarda ogni lesione, periferica o al livello del sistema nervoso centrale, che produca una menomazione della naturale chiarezza dell’eloquio. Per integrare l’aggravante in parola, ad ogni modo, la perdita dovrebbe essere permanente e grave, tale cioè da porre la persona offesa in spiccata inferiorità nelle sue relazioni con gli altri (Antolisei).

6. Lesioni personali aggravate (artt. 583-quater e 585 c.p.).

6.Lesioni personali aggravate (artt. 583-quater e 585 c.p.).

L’art. 583-quater c.p., introdotto nel 2007 sulla scia dell’allarme sociale cagionato dalla violenza negli stadi di calcio, commina pene di particolare gravità per le lesioni inferte a pubblici ufficiali in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive. Le lesioni gravi sono punite, infatti, con la reclusione da quattro a dieci anni; le lesioni gravissime, con la reclusione da otto a sedici anni.

Alla norma è stato aggiunto nel 2020 un secondo comma, ai sensi del quale le medesime pene si applicano per lesioni gravi o gravissime cagionate a personale sanitario o socio-sanitario, mentre si trova in servizio presso presidi ospedalieri: disposizione, quest’ultima, generata nel corso dell’emergenza pandemica da Covid-19, in risposta a fatti di aggressione a personale sanitario che avevano avuto una eccezionale risonanza mediatica, e destato, anch’essi, un particolare allarme sociale. Nel maggio 2023, un’ulteriore modifica ha inoltre previsto, nella medesima fattispecie, una recrudescenza sanzionatoria per le lesioni personali inferte a personale sanitario, anche se non gravi né gravissime, che vengono sanzionate con la reclusione da due a cinque anni.

Natura giuridica dell’art. 583-quater c.p.

Una parte della dottrina ritiene che la norma in esame configuri una fattispecie autonoma di reato, in rapporto di specialità rispetto alle lesioni personali di cui agli artt. 582 e 583 c.p. Pare tuttavia preferibile la diversa opinione (F. Mantovani) di chi ritiene tale previsione una circostanza aggravante delle lesioni personali, al pari delle altre ipotesi aggravate previste nelle disposizioni successive all’art. 582 c.p.

Circostanze aggravanti (art. 585 c.p.)

Sempre in tema di circostanze aggravanti del delitto di lesione personale, l’art. 585 c.p. (rubricato, «circostanze aggravanti») prevede tre gruppi di circostanze aggravanti, da applicarsi alle lesioni personali, all’omicidio preterintenzionale e ai delitti di pratiche di mutilazione di organi genitali femminili (art. 582-bis c.p.) e di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.). La norma, anzitutto, rinvia alle circostanze aggravanti dell’omicidio disposte dall’art. 576 c.p., e altresì a quelle di cui all’art. 577 c.p. (per il commento alle quali vedi supra, nel capitolo dedicato all’omicidio doloso). Da ultimo, costituisce aggravante l’essere il fatto commesso con armi o con sostanze corrosive. Le circostanze di cui all’art. 576 c.p. hanno, nell’economia della presente fattispecie, effetto speciale, mentre quelle di cui all’art. 577 c.p. e dell’uso di armi e sostanze corrosive hanno effetto comune.

La giurisprudenza afferma, in modo costante, come la circostanza aggravante in parola abbia natura oggettiva, ai sensi dell’art. 70, comma 1, c.p., e ricorra nel caso in cui venga commesso il delitto con l’uso di un’arma, a prescindere dalla legittimità del possesso della stessa da parte dell’agente.

Nozione di «arma»

Il secondo comma dell’art. 585 c.p., in esame, fornisce la nozione di «armi», per cui, agli effetti della legge penale, per armi si intendono 1) quelle da sparo e tutte quelle la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona (c.d. armi proprie), 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo (c.d. armi improprie). Si tratta di una disposizione che non limita la propria efficacia all’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 585 c.p., bensì a qualunque norma penale che faccia riferimento, appunto, all’impiego di armi.

Le c.d. armi proprie, nella specie, possono essere ricondotte a quattro distinte tipologie, scorrendo le disposizioni della l. n. 110/1975 (c.d. legge armi): i) le armi da guerra, a cui sono assimilate le armi tipo-guerra (art. 1, commi 1 e 2, l. n. 110/1975), ii) le armi comuni da sparo, iii) gli strumenti considerati armi comuni da sparo, e infine iv) le armi proprie non da sparo, individuate in via residuale all’art. 585, comma 2, n. 1), c.p., «la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona»: si tratta delle c.d. armi bianche, e dunque coltelli, mazze, bastoni, ecc.).

Le c.d. armi improprie sono invece definite, sempre al secondo comma della norma in argomento, in relazione al divieto di porto, assoluto o senza giustificato motivo. Tale categoria comprende ogni oggetto che, pur non considerato espressamente da punta o da taglio, sia chiaramente utilizzabile, in relazione alle circostanze di tempo e di luogo del fatto, per l’offesa della persona. La giurisprudenza afferma, a tale riguardo, che uno stesso strumento può quindi essere considerato arma a seconda del motivo per il quale, e delle circostanze nelle quali, è portato. La casistica è pertanto molto ampia, e la circostanza aggravante in parola viene riconosciuta in maniera altrettanto estesa, costituendo arma impropria, ad esempio, il bicchiere di vetro, un pezzo di legno, il frustino, il manico di scopa, il matterello o il randello, quando vengono utilizzati per arrecare una lesione ad alcuno.

Materie esplodenti e gas

Il comma terzo dell’art. 585 c.p. accomuna alle armi le materie esplodenti e i gas asfissianti e accecanti. Materie esplodenti, anzitutto, sono gli esplosivi in senso stretto e altresì qualsiasi altra sostanza suscettibile di dare luogo ad un’esplosione. La nozione di gas asfissianti o accecanti è stata di fatto assorbita entro la previsione di cui all’art. 1 l. n. 110/1975, la quale nel quadro dell’equiparazione tra armi a emissione di gas e quelle comuni da sparo, ha coniato la nuova categoria degli aggressivi chimici, equiparata alle armi da guerra, costituiti da sostanze capaci di produrre negli esseri viventi delle lesioni anatomico-funzionali di varia natura, ma tali comunque da compromettere l’integrità dell’organismo. Un’ulteriore circostanza aggravante delle lesioni personali ex art. 582 c.p. – e altresì delle percosse di cui all’art. 581 c.p. – è oggi disposta dal nuovo comma 5-quater dell’art. 3, D.L. n. 93/2013. Ai sensi di tale disposizione, introdotta di recente con L. n. 168/2023, le pene sono aumentate se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito dal questore, secondo la procedura di cui al medesimo art. 3 D.L. n. 93/2013.

7. Lesioni personali colpose (590 c.p.).

7.Lesioni personali colpose (590 c.p.).

Il primo comma dell’art. 590 c.p. sanziona con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309 «chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale». Si tratta della figura base delle lesioni personali colpose, che riguarda le lesioni c.d. lievi e lievissime, cioè quelle con prognosi inferiore ai quaranta giorni. Al comma secondo sono previste poi due circostanze aggravanti, configurabili laddove la lesione arrecata al soggetto passivo sia grave o gravissima. In tal caso la sanzione è, rispettivamente, la reclusione da uno a sei mesi o la multa da euro 123 a euro 619, per le lesioni gravi; la reclusione da tre mesi a due anni o la multa da euro 309 a euro 1.239 per le lesioni gravissime. Per la nozione di lesione «grave» e «gravissima» si richiamano i contenuti dell’art. 583 c.p., sopra passati in rassegna.

Infortuni sul lavoro

Al comma terzo è prevista, quale ulteriore circostanza aggravante, che se i fatti di cui al secondo comma – ovvero lesioni gravi o gravissime – vengono commessi «con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro», la pena è ulteriormente aumentata: reclusione da tre mesi a un anno o multa da euro 500 a euro 2.000 per le lesioni gravi, e reclusione da uno a tre anni per le lesioni gravissime. Nel medesimo comma era altresì previsto un analogo trattamento differenziato, e più severo rispetto alle “normali” lesioni colpose, per un’altra casistica di grande impatto sociale, ovvero quella relativa alla violazione delle norme sulla sicurezza stradale. Tale previsione è ora confluita in una norma ad hoc, contenuta nell’art. 590 bis c.p., «lesioni personali stradali gravi o gravissime».

La previsione aggravata di cui al comma terzo dell’art. 590 c.p., in esame, contempla l’ampia categoria delle malattie professionali, species della nozione comune di malattia, e che la giurisprudenza individua sostanzialmente in qualsiasi fatto morboso di cui sia comunque provata la causa di lavoro. La casistica, al riguardo, è amplissima ed è stata ricondotta nel novero delle malattie professionali ogni tipo di patologia, dalla ipoacusia da rumore, cagionato dall’eccessiva esposizione a rumore del lavoratore, alla bronchite cronica causata dall’esposizione a polveri. E così, anche, dermatiti da contatto con sostanze utilizzate nella produzione, l’indebolimento dell’organo della prensione cagionato dall’esposizione prolungata a vibrazioni. Recessivi sembrerebbero essere, invece, i tentativi della magistratura inquirente di allargare tale categoria alle sindromi psicopatologiche da esposizione a sorgenti di inquinamento atmosferico e acustico: casistica che, per ora, non ha mai superato lo scoglio costituito, comunque, dalla necessaria ricostruzione di un nesso causale che consenta di qualificare una certa violazione cautelare quale causa, oltre ogni ragionevole dubbio, della patologia manifestata dal lavoratore.

Sul piano della condotta tipica, è importante evidenziare come la giurisprudenza consolidata non limiti il novero delle norme cautelari, la cui violazione risulta rilevante ai fini della commissione della fattispecie, alle specifiche norme di prevenzione scritte, essendo sufficiente la colpa generica, che nel particolare settore in argomento si sostanzia della previsione generale di cui all’art. 2087 c.c., per cui «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Per giurisprudenza costante, inoltre, l’eventuale violazione cautelare addebitabile al lavoratore medesimo libera da responsabilità il datore di lavoro – o altro soggetto obbligato dalle previsioni in materia di sicurezza sul lavoro – solo quando sia abnorme, del tutto imprevedibile e non evitabile dal datore di lavoro medesimo; il quale infatti è gravato, tra gli altri oneri, di quello di formare e sorvegliare i lavoratori per il rispetto delle norme antinfortunistiche.

Esercizio abusivo di una professione

Il comma quarto dell’art. 590 c.p. dispone poi un’ulteriore circostanza aggravante delle lesioni personali colpose, la quale si configura quando i fatti di lesioni gravi o gravissime siano commessi «nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria»; in tali casi, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni per le lesioni gravi, e della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni per le lesioni gravissime.

Lesioni colpose plurime

Al quinto comma è poi previsto che, nel caso di lesioni di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può comunque superare i cinque anni.

Procedibilità

L’ultimo comma della norma in esame riguarda gli aspetti procedurali, e prescrive che le lesioni personali colpose siano procedibili a querela della persona offesa, tranne i casi del terzo e quarto comma, ovvero gli infortuni sul lavoro e le lesioni occorse nell’esercizio abusivo di un mestiere.

8. Lesioni personali e consenso dell’avente diritto: il caso delle attività sportive.

8.Lesioni personali e consenso dell’avente diritto: il caso delle attività sportive.

Il problema della astratta configurabilità di fattispecie tipiche di lesioni personali, sia dolose che colpose, si pone con riferimento alla pratica di svariate discipline sportive; sia di quelle in cui il combattimento e una certa dose di violenza fisica contro l’avversario siano parte integrante della disciplina di gioco (si pensi naturalmente al pugilato o alla lotta greco-romana, ma anche al rugby o al football americano); ma altresì di quelle che, pur non prevedendo la realizzazione di azioni direttamente lesive contro l’avversario, postulano comunque il possibile contrasto fisico tra avversari, quali il calcio, la pallacanestro o l’hockey.

Ora, può dirsi che chi partecipa a tali attività sportive “mette in conto”, e quindi accetta il rischio, di possibili esiti traumatici e lesivi. E ciò, non solo con riferimento alle regolari azioni di gioco, ma altresì ad eventuali condotte che, sebbene contrarie alle regole della specifica disciplina – e che costituiscono quindi un “fallo”, in senso stretto, e un illecito sportivo – rientrano pur sempre nel novero di quel rischio consentito implicito nello svolgimento di simili attività sportive, specie se praticate a livello agonistico. La giurisprudenza ha quindi declinato, in questo senso, una vera e propria scriminante atipica, per la quale non sussiste responsabilità per gli eventi lesivi cagionati (i) da comportamenti rispettosi delle regole del gioco o (ii) da condotte costituenti violazione non volontaria delle regole del gioco. In questa seconda ipotesi si configura un illecito sportivo, e non già penale. Tale causa di giustificazione non codificata – che non sarebbe riconducibile né al consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p., né all’esercizio di un diritto di cui art. 51 c.p. – sarebbe basata sul preminente rilievo, anche costituzionale, della pratica sportiva. E ciò, in chiave sia individuale sia sociale, rientrando le associazioni e società sportive nel novero delle formazioni sociali nelle quali, ai sensi dell’art. 2 Cost., si svolge la personalità dell’individuo.

La scriminante atipica dovrebbe coprire, ai sensi di questo preminente indirizzo giurisprudenziale, altresì (iii) le lesioni derivanti da violazioni volontarie delle regole del gioco, ma pur sempre non incompatibili con le caratteristiche e la cultura di una determinata disciplina sportiva. E così, ne sarebbero invece esclusi i gesti violenti commessi a gioco fermo, o ancora durante il gioco, ma al precipuo fine di cagionare, in modo contrario anche allo spirito della lealtà sportiva, una lesione fisica all’avversario.

In questi termini si presenta, in particolare, la ricostruzione dottrinale, la quale limita la rilevanza penale alle sole lesioni che siano conseguenza di condotte irregolari del tutto al di fuori delle fisiologiche dinamiche, anche dure sul piano fisico e atletico, tipiche della disciplina sportiva di riferimento.

E così, scorrendo la giurisprudenza in argomento che fa propria questa teoria del “rischio consentito” in attività sportiva, si è affermato che non può essere desunta la natura colposa della condotta unicamente dalla circostanza che l’arbitro abbia fischiato un “fallo” (Cass., 26 marzo 2011, n. 28772). Nella casistica giurisprudenziale si afferma altresì che, per valutare la soglia di “rischio consentito” utile ai fini dell’operatività della scriminante atipica in argomento, occorre valutare le concrete circostanze in cui si verifica la condotta lesiva. E così, ai partecipanti in attività amatoriali è richiesta una cautela maggiore rispetto a quelli impegnati in attività agonistiche (vd. Cass., 27 novembre 2008, n. 44306, in merito ad uno “sgambetto” avvenuto nel corso di una partita di calcio amatoriale tra compagni di scuola). E ancora, nelle sedute di allenamento la soglia del “rischio consentito” sarebbe collocabile diversamente rispetto a quanto avviene nel corso di una gara (vd. Cass., 25 febbraio 2000, n. 2286, che ha come oggetto un calcio sferrato durante una seduta di allenamento di karatè).

Negli anni più recenti, tuttavia, inizia ad affacciarsi nella giurisprudenza di legittimità un nuovo orientamento, ai sensi del quale in merito alle lesioni cagionate nel corso delle attività sportive andrebbero applicati gli ordinari canoni dell’imputazione colposa o dolosa, superando di fatto il criterio del “rischio consentito”, pure consolidato in numerose precedenti pronunce. E così, applicando i criteri consueti in tema di colpevolezza, andrebbe individuata la regola cautelare che presidia l’attività sportiva e la doverosità della condotta richiesta secondo i canoni di prudenza, perizia e diligenza, nonché di osservanza delle specifiche regole di gioco, volte a evitare il pericolo di lesioni (vd. Cass., 21 ottobre 2021, n. 3284, il cui caso riguarda un intervento in scivolata durante una partita di calcio a cinque). E ancora, in altre pronunce è stato espressamente escluso, in questo ambito, il ricorso al criterio del rischio consentito, il quale delineerebbe in termini eccessivamente discrezionali i confini tra attività lecita e illecita, lasciando in definitiva al giudice il compito di individuare le caratteristiche “normali” o “ideali” del modello di comportamento di riferimento. Si è precisato, in questi termini, che l’attività sportiva costituisce una pratica lecita ma pericolosa, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre i relativi rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o colposamente danneggiata a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari (vd. Cass., 28 ottobre 2021, n. 8609, relativa ad un intervento in scivolata durante una partita di calcio di un campionato amatoriale).

Note bibliografiche

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