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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio.

    2. Nei riguardi delle Forze armate e di Polizia, del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, dei servizi di protezione civile, nonché nell'ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle università, degli istituti di istruzione universitaria, delle istituzioni dell'alta formazione artistica e coreutica, degli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado, degli uffici all'estero di cui all'articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, e dei mezzi di trasporto aerei e marittimi, le disposizioni del presente decreto legislativo sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative ivi comprese quelle per la tutela della salute e sicurezza del personale nel corso di operazioni ed attività condotte dalle Forze armate, compresa l'Arma dei Carabinieri, nonché dalle altre Forze di polizia e dal Corpo dei Vigili del fuoco, nonché dal Dipartimento della protezione civile fuori dal territorio nazionale, individuate entro e non oltre ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo con decreti emanati, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dai Ministri competenti di concerto con i Ministri del lavoro, della salute e delle politiche sociali e per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentite le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nonché, relativamente agli schemi di decreti di interesse delle Forze armate, compresa l'Arma dei carabinieri ed il Corpo della Guardia di finanza, le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari rappresentative del personale militare ai sensi dell’articolo 1478 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66; analogamente si provvede per quanto riguarda gli archivi, le biblioteche e i musei solo nel caso siano sottoposti a particolari vincoli di tutela dei beni artistici storici e culturali2. Con decreti, da emanare entro cinquantacinque3 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti, di concerto con il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, si provvede a dettare le disposizioni necessarie a consentire il coordinamento con la disciplina recata dal presente decreto della normativa relativa alle attività lavorative a bordo delle navi, di cui al decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271, in ambito portuale, di cui al decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 272, e per il settore delle navi da pesca, di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 298, e l'armonizzazione delle disposizioni tecniche di cui ai titoli dal II al XII del medesimo decreto con la disciplina in tema di trasporto ferroviario contenuta nella legge 26 aprile 1974, n. 191, e relativi decreti di attuazione.4-5-6

    3. Fino all'emanazione dei decreti di cui al comma 2, sono fatte salve le disposizioni attuative dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nonché le disposizioni di cui al decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 271, al decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 272, al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 298, e le disposizioni tecniche del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, e del decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, richiamate dalla legge 26 aprile 1974, n. 191, e dai relativi decreti di attuazione. Gli schemi dei decreti di cui al citato comma 2 del presente articolo sono trasmessi alle Camere per l'espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti, da rendere entro trenta giorni dalla data di assegnazione.7

    3-bis. Nei riguardi delle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, e delle organizzazioni di volontariato della protezione civile, ivi compresi i volontari della Croce Rossa Italiana e del Corpo Nazionale soccorso alpino e speleologico, e i volontari dei vigili del fuoco, le disposizioni del presente decreto legislativo sono applicate tenendo conto delle particolari modalità di svolgimento delle rispettive attività, individuate entro il 31 dicembre 20108 con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Dipartimento della protezione civile e il Ministero dell'interno, sentita la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro.9 Le disposizioni del presente decreto si applicano alle attività dei volontari di cui al primo periodo esclusivamente nei limiti e con le modalità previsti dal decreto adottato in attuazione del primo periodo.

    4. Il presente decreto legislativo si applica a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati, fermo restando quanto previsto dai commi successivi del presente articolo.

    5.10

    6. Nell'ipotesi di distacco del lavoratore di cui all'articolo 30 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato. Per il personale delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli obblighi di cui al presente decreto sono a carico del datore di lavoro designato dall'amministrazione, organo o autorità ospitante.11

    7. Nei confronti dei lavoratori a progetto di cui agli articoli 61 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, e dei collaboratori coordinati e continuativi di cui all'articolo 409, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile, le disposizioni di cui al presente decreto si applicano ove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente.12

    8. Nei confronti dei lavoratori che effettuano prestazioni di lavoro accessorio, le disposizioni di cui al presente decreto e le altre norme speciali vigenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori si applicano nei casi in cui la prestazione sia svolta a favore di un committente imprenditore o professionista. Negli altri casi si applicano esclusivamente le disposizioni di cui all'articolo 21. Sono comunque esclusi dall'applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto e delle altre norme speciali vigenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori i piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l'insegnamento privato supplementare e l'assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili.13

    9. Fermo restando quanto previsto dalla legge 18 dicembre 1973, n. 877, ai lavoratori a domicilio ed ai lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati trovano applicazione gli obblighi di informazione e formazione di cui agli articoli 36 e 37. Ad essi devono inoltre essere forniti i necessari dispositivi di protezione individuali in relazione alle effettive mansioni assegnate. Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al titolo III.14

    10. A tutti i lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico, compresi quelli di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 70, e di cui all'accordo-quadro europeo sul telelavoro concluso il 16 luglio 2002, si applicano le disposizioni di cui al titolo VII, indipendentemente dall'ambito in cui si svolge la prestazione stessa. Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al titolo III. I lavoratori a distanza sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali ed applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza. Al fine di verificare la corretta attuazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza da parte del lavoratore a distanza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti hanno accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere subordinato al preavviso e al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio. Il lavoratore a distanza può chiedere ispezioni. Il datore di lavoro garantisce l'adozione di misure dirette a prevenire l'isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all'azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell'azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali.

    11. Nei confronti dei lavoratori autonomi di cui all'articolo 2222 del codice civile si applicano le disposizioni di cui agli articoli 21 e 26.

    12. Nei confronti dei componenti dell'impresa familiare di cui all'articolo 230-bis del codice civile, dei coltivatori diretti del fondo, degli artigiani e dei piccoli commercianti e dei soci delle società semplici operanti nel settore agricolo si applicano le disposizioni di cui all'articolo 21.15

    12-bis. Nei confronti dei volontari di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, dei volontari che effettuano servizio civile, dei soggetti che svolgono attività di volontariato in favore delle associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383, delle associazioni sportive dilettantistiche di cui alla legge 16 dicembre 1991, n. 398, e all'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e delle associazioni religiose, dei volontari accolti nell'ambito dei programmi internazionali di educazione non formale, nonché nei confronti di tutti i soggetti di cui all'articolo 67, comma 1, lettera m), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 21 del presente decreto. Con accordi tra i soggetti e le associazioni o gli enti di servizio civile possono essere individuate le modalità di attuazione della tutela di cui al primo periodo. Ove uno dei soggetti di cui al primo periodo svolga la sua prestazione nell'ambito di un'organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali è chiamato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua attività. Egli è altresì tenuto ad adottare le misure utili a eliminare o, ove ciò non sia possibile, a ridurre al minimo i rischi da interferenze tra la prestazione del soggetto e altre attività che si svolgano nell'ambito della medesima organizzazione.16

    13. In considerazione della specificità dell'attività esercitata dalle imprese medie e piccole operanti nel settore agricolo, il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, nel rispetto dei livelli generali di tutela di cui alla normativa in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, e limitatamente alle imprese che impiegano lavoratori stagionali ciascuno dei quali non superi le cinquanta giornate lavorative e per un numero complessivo di lavoratori compatibile con gli ordinamenti colturali aziendali, provvede ad emanare disposizioni per semplificare gli adempimenti relativi all'informazione, formazione e sorveglianza sanitaria previsti dal presente decreto, sentite le organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative del settore sul piano nazionale. I contratti collettivi stipulati dalle predette organizzazioni definiscono specifiche modalità di attuazione delle previsioni del presente decreto legislativo concernenti il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nel caso le imprese utilizzino esclusivamente la tipologia di lavoratori stagionali di cui al precedente periodo.17

    13-bis. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro della salute, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari e sentite la Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro di cui all'articolo 6 del presente decreto e la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto dei livelli generali di tutela di cui alla normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro e fermi restando gli obblighi di cui agli articoli 36 e 37 del presente decreto, sono definite misure di semplificazione della documentazione, anche ai fini dell'inserimento di tale documentazione nel libretto formativo del cittadino, che dimostra l'adempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi di informazione e formazione previsti dal presente decreto in relazione a prestazioni lavorative regolamentate dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che implicano una permanenza del lavoratore in azienda per un periodo non superiore a cinquanta giornate lavorative nell'anno solare di riferimento.18

    13-ter. Con un ulteriore decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, sentite le Commissioni parlamentari competenti per materia e la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto dei livelli generali di tutela di cui alla normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sono definite misure di semplificazione degli adempimenti relativi all'informazione, formazione, valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria per le imprese agricole, con particolare riferimento a lavoratori a tempo determinato e stagionali, e per le imprese di piccole dimensioni.19

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Applicabilità a tutti i settori e particolari esigenze - 2. Lavoratori somministrati - 3. I lavoratori distaccati - 4. I volontari - 5. Addetti all'assistenza dei disabili - 6. Tutela dei terzi - 7. Incidenti ferroviari - 8. Lavoratori vittime d'incidenti stradali e autostradali - 9. La sicurezza stradale - 10. Lavoro a chiamata - 11. Il settore agricolo e il coltivatore diretto - 12. Soprintendenze - 13. Industrie estrattive - 14. Legionellosi e infezione nosocomiale - 15. La parrocchia - 16. L'industria alimentare - 17. Forze armate e Vigili del fuoco - 18. Piccoli lavori domestici .

    La Sez. IV conferma l'assoluzione di un capo squadra esperto del personale SAF (Speleo-Alpino Fluviale) dei Vigili del Fuoco dal reato di lesione personale colposa in danno di un vigile coordinatore che, ``dopo aver partecipato a una esercitazione tesa a simulare le operazioni di evacuazione di una cabinovia, era sceso dal pilone sul quale si trovava, utilizzando un bloccante `shunt' e non la fune di sicurezza, e perciò era andato in carico sulla doppia corda e, dopo pochi metri, a causa di un improvviso sganciamento, era precipitato al suolo da un'altezza di circa sei-sette metri'': ``Il richiamo all'art. 19 D.Lgs. n. 81/2008, che varrebbe a fondare l'asserita violazione di legge, non pare avere rilievo. La Corte di Appello, invero, non ha messo in dubbio che il capo squadra fosse tenuto a vigilare sulla osservanza da parte dei lavoratori dell'utilizzo dei dispositivi di sicurezza, ma in maniera non illogica, ha rilevato che nel caso di specie la persona offesa, pur dopo essere stata formata e informata sull'obbligo dell'utilizzo della fune messa a sua disposizione, aveva inopinatamente e inspiegabilmente deciso di non utilizzarla e di scendere dal pilone con altra modalità: il capo squadra, pure presente e intento a svolgere i compiti di coordinamento e vigilanza nei confronti degli operatori impegnati nella esercitazione e sottordinati rispetto al vigile coordinatore, non aveva violato gli obblighi connessi alla sua posizione di garanzia''.

    Condanna di un vigile del fuoco in servizio presso un Comando Provinciale Vigili del Fuoco in qualità di responsabile della sicurezza e coordinatore, operatore SAF (speleo-alpino-fluviale) di livello 2B, per l'infortunio accaduto nel corso di una manifestazione di piazza in occasione dell'epifania: un collega, ``travestito da befana, con l'uso di un sistema di funi approntato dall'imputato, issato sul campanile della chiesa, doveva sorvolare la piazza, lanciando caramelle ai bambini, e calarsi infine in un punto prestabilito della piazza in modo controllato''. Solo che ``il sistema di corde si era rivelato inadeguato'': l'imputato ``aveva previsto una sola fune traente (detta `del vieni') e non aveva previsto altra corda traente (detta `del vai'), come stabilito nella scheda 22 del manuale SAF, corso 2, livello A, che aveva una precipua funzione di controllo anti caduta''. Con la conseguenza che l'infortunato, ``dopo essersi volontariamente sganciato dalla fune portante, per calarsi sulla piazza, era stato attirato all'indietro, andando a sbattere violentemente contro le pareti del campanile''. La Sez. IV ne trae occasione per occuparsi anche del Decreto Ministeriale n. 127 del 21 agosto 2019, intitolato ``Regolamento recante l'applicazione del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, nell'ambito delle articolazioni centrali e periferiche della Polizia di Stato, del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché delle strutture del Ministero dell'interno destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica'': un D.M. che nel Capo III ``disciplina l'attività istituzionale del personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e contiene precipue disposizioni di raccordo con il D.Lgs. n. 81/2008 in materia antinfortunistica, a conferma del fatto che, anche in epoca antecedente alla emanazione del suddetto decreto ministeriale, dovesse farsi riferimento alla più generale disciplina dettata in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro dal D.Lgs. n. 81/2008''. Rileva che ``l'aspetto maggiormente innovativo del nuovo decreto ministeriale (art. 16) riguarda l'espressa intervenuta esclusione, dalla qualificazione di `luoghi di lavoro', delle aree in cui il personale dei VV.FF. intervenga per soccorso tecnico urgente a tutela della pubblica incolumità, dei beni e dell'ambiente'', e che, in forza del comma 3, ``in tali ambiti gli obblighi di cui al comma 1, lettera a), dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 81 del 2008 si intendono adempiuti adottando uno o più dei seguenti strumenti appositamente predisposti: corsi base di qualificazione e di specializzazione, attività di istruzione e addestrative di aggiornamento, verifica e mantenimento delle qualificazioni professionali acquisite, disposizioni interne, manuali addestrativi e libretti di uso e manutenzione e note informative redatte dalle ditte fornitrici''. Aggiunge che, ``in tali circostanze, il personale interviene sulla base della preparazione tecnica e professionale posseduta e adotta le tecniche e le procedure ritenute più idonee in relazione all'evento, contemperando la valutazione della diretta e personale esposizione al pericolo con l'esigenza di assicurare la protezione propria e di quanti sono presenti sullo scenario, in relazione all'urgenza e alla gravità dell'attività da espletare'', che ``non sono intesi come `luoghi di lavoro' le aree in cui si effettuano attività di addestramento, esercitazioni operative o manifestazioni a cui il personale partecipa anche al di fuori delle sedi e infrastrutture di pertinenza del Corpo nazionale'', e che ``in tali casi le operazioni sono svolte a seguito di specifica pianificazione da effettuarsi con le modalità di cui al comma 3 del medesimo articolo''. Ciò premesso, la Sez. IV ritiene indubbio che, ``al caso in esame, si debbano applicare le generali norme del D.Lgs. n. 81/2008''. Anzitutto, perché ``la particolare previsione riguardante la definizione di luogo di lavoro contenuta nel D.M. n. 127/2019 è stata emanata successivamente al fatto in esame''. Ma altresì - ed è questo il profilo ora d'interesse - perché ``anche alla luce della definizione del perimetro di `luogo di lavoro' introdotta nel decreto ministeriale richiamato, non può escludersi il carattere d'infortunio sul lavoro nell'incidente occorso al vigile del fuoco''. Spiega che, ``pur essendo l'episodio avvenuto in occasione di una manifestazione di beneficenza, lo stesso si è verificato in orario di lavoro, con attrezzature messe a disposizione del Comando dei VV.FF. e previa autorizzazione del Comandante, che aveva emesso apposito ordine di servizio con il quale autorizzava i sottoposti a partecipare alla manifestazione''. Aggiunge che ``l'art. 16 D.M. n. 127/2019, pur escludendo dal novero dei luoghi di lavoro quelli nei quali si svolgono manifestazioni, al di fuori delle sedi di pertinenza del Corpo dei VV.FF., prevede comunque che vi sia un'attività di individuazione dei rischi a cui è esposto il personale, la cui neutralizzazione, secondo la nuova previsione, è affidata alla qualificazione professionale, al rispetto delle disposizioni interne, al rispetto delle disposizioni contenute in manuali addestrativi e libretti di uso''. Nota che ``nel presente caso viene in rilievo, tra le cause dell'infortunio occorso, un errore di progettazione e realizzazione del complesso di funi che doveva sostenere il vigile durante i suoi movimenti, in violazione delle disposizioni contenute nel manuale d'uso (nella specie SAF) che prevede le regole di allestimento di un sistema di tal fatta''. Precisa che ``per luogo di lavoro, tutelato dalla normativa antinfortunistica, deve intendersi qualsiasi posto in cui il lavoratore acceda, anche solo occasionalmente, per svolgervi le mansioni affidategli'', e che ``nella ratio della normativa antinfortunistica, il riferimento ai `luoghi di lavoro' ed ai `posti di lavoro' non può che riguardare qualsiasi posto nel quale concretamente si svolga l'attività lavorativa''. Rileva che ``una limitazione di tale nozione non si traduce nell'automatica esclusione dal novero degli infortuni sul lavoro degli accadimenti che interessano il personale del Corpo'', poiché ``la stessa norma richiede che vi sia comunque l'adempimento degli obblighi di cui all'art. 17 D.Lgs. n. 81/2008''. Conclude che nel caso di specie ``si tratta di infortunio sul lavoro tenuto conto della circostanza che pur trattandosi di un'attività di beneficienza si era svolta in orario di servizio degli operanti, con utilizzo di attrezzature e mezzi in dotazione alla stazione dei vigili del fuoco di cui certamente gli operanti non avrebbero potuto usufruire a titolo personale''.

    ``Le norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro hanno applicazione generalizzata, estesa a tutti i settori di attività, pubblici o privati e a tutte le tipologie di rischio, nonché a tutti i lavoratori, subordinati ed autonomi, nonché ai soggetti che si trovino nell'ambiente di lavoro indipendentemente dall'esistenza di un rapporto con il titolare dell'impresa, a meno che tale presenza non rivesta carattere di anormalità ed eccezionalità''.

    ``Non si rinviene alcuna norma che escluda l'applicazione del D.Lgs. n. 81/2008 per i lavoratori delle ferrovie o che dichiari la sua incompatibilità con le disposizioni del D.P.R. n. 753/1990 (``Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto''). Anzi, è esplicitamente previsto che le sue disposizioni si applicano `in tutti i settori di attività privati o pubblici'. Del resto le norme cautelari previste dal D.Lgs. n. 81/2008 costituiscono pur sempre codificazione di regole di diligenza, prudenza e perizia e non vi sono ragioni per ritenerle inapplicabili al settore ferroviario''.

    ``Il documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, previsto dall'art. 28, D.Lgs. n. 81/2008, è applicabile a tutte le tipologie di rischio e a tutti i settori pubblici o privati, ivi comprese le attività di ristorazione. Tale principio trova il suo fondamento nell'ampia formulazione dell'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2008, secondo cui, appunto, `il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio'''. Ne ricava ``l'obbligo del prescritto documento anche per l'attività di pub con attività accessoria di piccoli intrattenimenti''.

    Con riguardo al caso di un direttore di casa di reclusione imputato del delitto di lesione personale colposa in pregiudizio di un detenuto lavorante, infortunatosi a un occhio a causa di uno spruzzo di calce viva durante la preparazione di una vernice, la Sez. IV premette che «con il decreto del Ministero della Giustizia del 18 aprile 1996 è stata attribuita al direttore dell'istituto di pena la titolarità di una posizione di garanzia in riferimento al dovere di sicurezza degli istituti penitenziari, per cui egli assume la qualifica di datore di lavoro che comprende tutti i luoghi di lavoro interni (ovvero anche esterni) all'istituto e con riguardo a chiunque vi svolga attività lavorativa». Rimprovera alla corte d'appello il fatto che, «pur partendo dal corretto presupposto dell'applicabilità, anche alla fattispecie in esame, delle norme dettate dal D.Lgs. n. 626/1994, è, tuttavia, in concreto, pervenuta a conclusioni del tutto erronee e sostanzialmente contrastanti con la normativa richiamata, avendo sostenuto che gli obblighi nascenti da detta normativa dovrebbero commisurarsi e raffrontarsi con le condizioni e le caratteristiche di una struttura carceraria, del tutto particolari e diverse da quelle di una normale impresa, ovvero del soggetto al quale sono tipicamente riferibili gli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro», e, «in tal guisa, sostanzialmente affermato lo sconcertante principio secondo cui gli istituti di pena debbano quasi considerarsi delle `zone franche', impermeabili al rispetto delle norme di legge, invece che, al contrario, come luoghi in cui debba venir assolutamente perseguita e garantita l'osservanza delle leggi», e, «in specie, proprio delle norme antinfortunistiche e di quelle che attengono alla sicurezza dei luoghi di lavoro, la cui precisa osservanza, pretesa dall'imprenditore privato, non può non essere richiesta a chiunque, nella pubblica amministrazione, ricopra un ruolo di responsabilità del tutto simile a quello dell'imprenditore privato, ed al quale si debba riconoscere una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore», «rispetto delle norme che ancor più deve pretendersi in una struttura carceraria, a tutela di un lavoratore detenuto che, in ragione della propria condizione di grave subalternità e di soggezione derivante dalla carcerazione, non ha tutele di alcun genere, se non quella che deve garantirgli la struttura e chi la dirige». Ciò premesso, sviluppa una analisi illuminante in ordine alle «particolare esigenze connesse al servizio espletato» evocate già dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 626/1994 e ora dall'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, nega che un sostegno alla assoluzione dell'imputato possa «rinvenirsi nel riferimento - contenuto sub art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 626/1994 [v. ora art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008] - alla applicazione delle norme contenute nello stesso testo normativo `...tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del Ministero competente di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale, della sanità e della funzione pubblica'». Espone al proposito due argomenti, utili al di là dello specifico settore preso in considerazione: «a) `le particolari esigenze connesse al servizio espletato' riguardano evidentemente problemi di organizzazione e di sicurezza interna alle strutture che certamente non possono portare alla sostanziale abrogazione di precise norme di legge ed all'azzeramento, o anche solo alla compressione, delle garanzie riconosciute dalla legge a tutti i lavoratori, senza differenze di sorta, e con riguardo a tutti i luoghi di lavoro, nessuno escluso; mentre il richiamo all'esigenza di `declinare' gli obblighi discendenti dalla citata normativa `secondo i limiti e le caratteristiche proprie delle strutture carcerarie, profondamente diverse da quelle riferibili ad un'impresa o all'imprenditore', costituisce osservazione del tutto apodittica e, nella sua totale genericità, pericolosa, oltre che inaccettabile, poiché finisce con l'attribuire al dirigente carcerario del momento il potere di individuare, di volta in volta, quali obblighi prevenzionali debbano essere rispettati e quali no, se non, addirittura, nei confronti di chi tra i lavoratori essi debbano essere osservati; b) l'art. 2 del decreto del Ministero della Giustizia n. 338 del 1997, che ha individuato le «particolari esigenze» delle strutture penitenziarie (e giudiziarie) ai fini delle norme contenute nel D.Lgs. n. 626/1994, ha chiarito che dette esigenze sono quelle preordinate ad evitare la eliminazione di fortificazioni o strutture di vigilanza, ed ancora, pericoli di fuga, aggressioni, sabotaggi di apparecchiature o impianti, pericoli di auto o etero aggressività, autolesionismo, nonché il conferimento di posizioni di preminenza ad alcuni detenuti o internati per mantenere l'ordine e la disciplina all'interno del carcere; direttive che attengono a specifiche ed irrinunciabili esigenze di sicurezza della struttura carceraria, e di quanti la frequentano, che non possono essere, né sono dalle disposizioni vigenti, ritenute in competizione con le norme prevenzionali che specificamente attengono alla sicurezza del detenuto lavorante». Reputa, pertanto, «del tutto estranee alla normativa di riferimento le pretese limitazioni di responsabilità del direttore dell'istituto di pena». A questo punto, sottolinea che «la richiamata normativa ha ricevuto, con il D.Lgs. n. 81/2008, come novellato dal D.Lgs. n. 106/2009, specifiche conferme quanto alla nozione di `datore di lavoro' ed all'applicazione dello stesso a tutti i settori di attività, privati e pubblici, ed a tutte le tipologie a rischio». Afferma che «solo un'errata interpretazione della normativa di riferimento ha impedito al giudice del gravame di escludere l'esigibilità dall'imputato del rispetto degli obblighi specifici ai quali era tenuto quale datore di lavoro dell'operaio infortunato»: «obblighi che gli imponevano, prima di avviare al lavoro un semplice apprendista, che non aveva nessuna pregressa esperienza lavorativa e nessuna competenza nel settore, di assicurargli una specifica formazione professionale e di fornirgli precise informazioni circa le regole minime di sicurezza da osservare, specie nella manipolazione di preparati pericolosi per la salute; e di renderlo consapevole della necessità di utilizzare i dispositivi individuali di protezione, nel caso di specie gli occhiali»; e che gli imponevano, altresì, di verificare che fosse garantita la perfetta osservanza delle norme di sicurezza, e di dare disposizioni perché fosse costantemente assicurata la presenza del capo d'arte, chiamato, il giorno dell'infortunio, ad altri incarichi».

    Circa la tutela del lavoratore somministrato v., sotto il profilo inerente alla formazione, Cass. 9 marzo 2017, n. 11432; Cass. 5 luglio 2010, n. 25553, riportate sub art. 37, al paragrafo 3; nonché, con riguardo a un'ipotesi di infortunio occorso a un «dipendente della ditta fornitrice di lavoro temporaneo», Cass. 24 novembre 2008, n. 41588. V. pure Cass. 9 giugno 2011, n. 23314, Garbelli. A sua volta, Cass. 17 novembre 2014, n. 47274 conferma la condanna per l'infortunio occorso a un lavoratore somministrato dell'utilizzatore delle sue prestazioni per aver ``consentito e comunque non impedito al lavoratore medesimo l'uso della macchina denominata trancia priva del dispositivo di sicurezza e protezione della lama della trancia e per non aver comunque adottato le necessarie misure atte a mettere in evidenza ed a ridurre al minimo il pericolo derivante dalla rimozione della predetta protezione, nonché per non aver assicurato che il lavoratore ricevesse una sufficiente ed adeguata formazione in materia di sicurezza e salute''. Per una particolare ipotesi di responsabilità del datore di lavoro e del preposto di fatto in rapporto a un lavoratore in somministrazione infortunato Cass. 14 giugno 2022 n. 23137.

    (Analogamente, per l'infortunio occorso a un lavoratore alle dipendenze di un'agenzia interinale ed assunto con mansioni di operaio sabbiatore con contratto di somministrazione presso una fonderia, il presidente del consiglio di amministrazione della s.p.a. fu condannato per ``non avere assicurato alla persona offesa una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza riferiti alle mansioni, ai rischi, ai possibili danni e alle procedure di prevenzione e protezione'': Cass. 12 ottobre 2018, n. 46427). Oltre Cass. 17 gennaio 2020, n. 1700, v.:

    Condanna del delegato di una s.p.a. per l'infortunio subito da un lavoratore somministrato da altra società di lavoro interinale. Duplice l'addebito di colpa: attrezzatura da lavoro non conforme ai requisiti di sicurezza di cui all'allegato V del D.Lgs. n. 81/2008; formazione inadeguata. A questo secondo riguardo, la Sez. IV pone in risalto che l'infortunato: ``era stato assunto quale lavoratore interinale addetto a mansioni impiegatizie, ossia il controllo qualità; in tale veste, aveva frequentato corsi sulla sicurezza destinati ai lavoratori a rischio medio, come emergeva dagli attestati di frequenza dei corsi; la mansione assegnatagli, riguardante il settore produttivo, era invece una mansione a rischio alto e non risultava documentata alcuna formazione specifica; il mutamento delle mansioni rispetto a quelle cui il lavoratore era stato originariamente destinato era dovuto alle improvvise dimissioni di alcuni operai specializzati che improvvisamente era stato necessario sostituire, al fine di garantire la produzione; l'utilizzo del macchinario gli era stato mostrato da un'altra lavoratrice, ma non gli era stata impartita alcuna formazione sul rischio specifico connesso all'uso del macchinario in questione''.

    Un'azienda di rilevante importanza, esercente l'attività di costruzione di imbarcazioni, affidò in appalto a una s.r.l. lavori di installazione di pannelli solari sul tetto di un proprio capannone industriale. Quattro lavoratori interinali utilizzati dalla s.r.l. appaltatrice precipitarono dal tetto del capannone sito ad un'altezza di circa dieci metri: uno morì, gli altri subirono lesioni gravissime. Per i reati di omicidio e lesioni fu condannato, in particolare, il rappresentante legale dell'azienda committente. La colpa venne individuata, anzitutto, nell'aver scelto ``per l'esecuzione dei lavori un'azienda senza approfondire la sua idoneità in termini di sicurezza, ma privilegiando le capacità tecniche nelle installazioni dei pannelli'', tanto che l'appaltatore ``si avvaleva di lavoratori interinali non adeguatamente formati''.

    Per l'infortunio mortale a un lavoratore intento a manovrare il braccio snodabile dell'autopompa e folgorato per vicinanza o contatto con la linea elettrica in cantiere, fu condannata anche la titolare di un'impresa che aveva assunto alle proprie dipendenze la vittima, ma che si era limitata a somministrare manodopera in favore dell'amministratore di una s.r.l. committente dei lavori di recupero di unità abitative. La Sez. IV ne conferma la responsabilità: ``Destinatario della normativa antinfortunistica, applicabile anche al somministratore, in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso cui l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive; ne consegue che la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche. L'assenza di una valida delega, lungi dall'escludere la responsabilità del datore di lavoro, attribuisce anche a colui che abbia esercitato di fatto le funzioni datoriali la posizione di garanzia che si affianca a quella del datore di lavoro. Nel caso concreto, la previa valutazione dei rischi connessi all'attività alla quale avrebbe dovuto essere adibito l'infortunato avrebbe consentito all'imputata di appurare la presenza dell'elettrodotto. L'utilizzatore non aveva assunto in forma scritta l'obbligo di formare ed informare i lavoratori in relazione ai rischi dell'attività alla quale sarebbero stati adibiti. La stipulazione di un contratto di somministrazione di manodopera con l'utilizzatore, indipendentemente dall'autorizzazione dell'attività del somministratore o dalla forma o dal contenuto prescritti per la validità del contratto a fini civilistici, non comporta la cessazione del rapporto di lavoro, e degli obblighi prevenzionistici che ne derivano, tra il somministratore ed il lavoratore. Rientra nel generale obbligo di cooperazione il dovere del datore di lavoro i cui dipendenti siano impegnati in cantieri in cui operano, sia diacronicamente che sincronicamente, altri lavoratori, di sollecitare la redazione del P.S.C. al quale dovrà adeguare il proprio P.O.S.''.

    Sulla tutela della sicurezza dei lavoratori distaccati v., sub art. 26, al paragrafo 18.

    Nel corso di ``operazioni di innevamento di una struttura di arrampicata sportiva, affidate a un comitato di volontari ed eseguite con l'ausilio di un vecchio trinciaforaggi (mosso da trattore agricolo riadattato in funzione di `cannone sparaneve') e di una pala gommata, che serviva a prelevare la neve da un cumulo prodotto artificialmente e nelle vicinanze della struttura per trasportarla sulla base della struttura'', un volontario si trovava a ridosso del montante di sud-est per la sistemazione su di esso della neve ghiacciata. Contemporaneamente altro volontario si trovava alla guida della pala meccanica a brevissima distanza dal primo, per supportare le operazioni svolte da costui. Durante le manovre del mezzo, il primo volontario veniva schiacciato dalla benna della pala gommata nell'esiguo spazio esistente tra il tagliente della benna e la parete della struttura. Il secondo volontario veniva ritenuto responsabile: del reato di omicidio colposo, perché, in cooperazione colposa con il presidente del comitato con funzioni di coordinatore delle operazioni di innevamento ed organizzazione della manifestazione, cagionava la morte del primo volontario, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia nonché nella specifica violazione dell'art. 21, D.Lgs. n. 81/2008, come richiamato dall'art. 3, comma 12bis del medesimo decreto, perché non rispettava le regole di ordinaria prudenza circa il corretto uso dell'attrezzatura di lavoro, operando con la pala meccanica a distanza ravvicinata dal primo volontario, che si trovava appunto nell'area di azione della macchina, praticamente davanti alla benna''. La Sez. IV conferma la condanna: ``Erano in corso, ad opera dei volontari del comitato i lavori di innevamento e ghiacciatura di una struttura di arrampicata sportiva: allo scopo venivano usati un cannone spara neve, un soffiatore e una pala gommata. Nel pomeriggio, la pala gommata veniva utilizzata per portare la neve dal luogo in cui cannone l'aveva accumulata in prossimità della struttura, dove i volontari la raccoglievano e ve la premevano contro verticalmente. L'imputato, che aveva assunto la guida del mezzo, doveva rifinire il lavoro e segnatamente liberare la base dagli eventuali accumuli di neve formatisi nelle operazioni di innevamento. Pur procedendo a velocità relativamente modesta, non rispettava le regole di ordinaria prudenza circa il corretto uso della relativa attrezzatura di lavoro: in particolare, operava con la pala a distanza ravvicinata dall'altro volontario che si era venuto a trovare, seppur per un suo comportamento incauto, nell'area di azione della benna e ciò nonostante egli avesse piena contezza che nel luogo si muovevano altri soggetti, tanto che aveva già intimato alla vittima di allontanarsi e così lo schiacciava contro la parete della struttura. L'imputato non aveva, inoltre, rispettato le prescrizioni contenute nel manuale di uso e manutenzione della pala che prescrivevano al conducente di `arrestare immediatamente la macchina qualora le persone, malgrado il suo invito, non lascino la zona di pericolo e, a macchina in movimento, di tenere la benna a circa 4 m da terra in modo da avere la massima visibilità e contemporaneamente la massima stabilità della macchina, mentre procedeva con la benna posizionata ad un'altezza di 113 cm''.

    Per un infortunio mortale subito da un volontario, fu incriminato, oltre al coordinatore dei volontari giudicato a parte, il comandante della polizia municipale capo della protezione civile di un comune in qualità di datore di lavoro, in particolare «per la violazione degli articoli: 71, commi 1 e 2, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, non avendo posto a disposizione dei volontari della protezione civile, che si accingevano ad effettuare i lavori di manutenzione della facciata, attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza prescritti dalla legge; 71, comma 7, D.Lgs. n. 81/2008, per aver consentito l'utilizzo di una gru oleodinamica priva di comando elettromagnetico in maniera errata ad operatori non incaricati, non informati e non adeguatamente addestrati; 71, comma 8, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver provveduto a che le attrezzature di cui sopra fossero sottoposte ad interventi di controllo periodici; 36 e 37 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver fornito al volontario adeguata informazione sui rischi specifici dell'attività che andava a svolgere né adeguata formazione con particolare riferimento ai rischi specifici dell'attività che gli si richiedeva di svolgere né adeguato addestramento; 28 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver predisposto per il fabbricato in questione, di proprietà del comune il documento di valutazione dei rischi, all'interno del quale sarebbe stato necessario evidenziare il rischio di caduta dall'alto costituito dalla copertura non calpestabile e non pedonabile, specificando altresì le procedure di sicurezza, i dispositivi di protezione e la formazione necessari per lo svolgimento dell'attività lavorativa, non rientrante nell'ambito di competenza della protezione civile; 115, commi 1 e 3, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver predisposto né presidio né vigilanza da parte di preposti, designati e formati ai sensi dell'art. 37, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver informato il personale adibito a lavori in quota, che avrebbe dovuto utilizzare idonei dispositivi anticaduta in presenza di un parapetto di altezza inferiore ad un metro e a fronte della necessità di muoversi sul tetto per posizionare provvisoriamente l'insegna che l'infortunato aveva sganciato dal muro ove era infissa; 18, comma 1, lettere c), d), e), D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso di tenere conto della capacità e delle condizioni dei volontari della protezione civile ed in particolare del volontario in rapporto in particolare alla sicurezza e per aver omesso di fornire i lavoratori dei necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale, prendendo altresì appropriate misure affinché solamente lavoratori adeguatamente formati avessero accesso alle zone che li esponevano al rischio grave e specifico sopra descritto». Peraltro, il GUP dichiarò non luogo a procedere nei confronti del capo della protezione civile per non aver commesso il fatto. Osservò, infatti, che «l'intervento eseguito dai volontari era un intervento di manutenzione straordinaria e non un intervento proprio e specifico di protezione civile, né un'esercitazione istituzionale», e che non si era chiarito se l'imputato «avesse inciso in qualche misura sull'intervento previamente concordato nel corso di una riunione svoltasi tra i volontari e il coordinatore degli stessi o se ne sia stato in concreto informato». Sicché ritenne «incontestabili all'imputato i diversi profili di colpa specifica indicati nel capo d'imputazione, presupponenti la preventiva conoscenza dell'intervento». Nell'annullare la sentenza di proscioglimento, la Sez. IV ne trae spunto per sottolineare che «il giudice ha fatto buon governo dei principi per cui, in tema di reato omissivo improprio, il rapporto di causalità tra condotta ed evento presuppone l'affermazione di un obbligo di garanzia in capo al soggetto di cui si assume la responsabilità; nel rispetto del principio di tassatività, oltre agli obblighi di garanzia previsti dalla legge, vengono individuati obblighi di garanzia derivati, ossia trasferiti dall'originario garante ad altro soggetto; l'obbligo di garanzia, in virtù della delimitazione prevista dall'art. 40, comma 2, c.p. alle sole fonti di doveri giuridici, deve essere previsto dalla legge, dal contratto o può derivare dalla volontaria assunzione dell'obbligo (negotiorum gestio art. 2028 c.c.); in tema di infortuni sul lavoro, la previsione di cui all'art. 299, D.Lgs. n. 81/2008 (rubricata esercizio di fatto di poteri direttivi) - per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati - ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale» (conforme Cass. 19 marzo 2012, Corsi). Prende atto che, ad avviso del GUP, la posizione di garanzia dell'imputato non sarebbe stata «configurabile in relazione ad un intervento di manutenzione edile estraneo ai compiti istituzionali della protezione civile», e che, «per sostenere l'accusa in giudizio, sarebbe stata necessaria l'acquisizione di elementi probatori atti a dimostrare che l'indagato avesse volontariamente assunto tale obbligo di garanzia». A questo punto, in accoglimento del ricorso proposto dal Pubblico Ministero, la Sez. IV rimprovera al GUP di non aver preso in esplicita considerazione le testimonianze rese da altri volontari della protezione civile, atte a dimostrare secondo il Pubblico Ministero che «i volontari della protezione civile si fossero improvvisati operai edili, con il benestare e comunque condividendo le loro attività certamente con il coordinatore e con il datore di lavoro» e che «i volontari della protezione civile svolgessero quasi per abitudine attività di manutenzione di edifici».

    Un parroco viene imputato del reato di lesioni personali colpose aggravate in danno di un volontario «per avere cagionato allo stesso lesioni gravi consistite nelle fratture pluriframmentarie, scomposte ed esposte del malleolo e della tibia destra, nonché varie altre ferite, consentendo che questi usasse un trabattello non allestito a regolare d'arte sul quale saliva per effettuare dei lavori preparatori alla festa parrocchiale e dal quale cadeva dall'altezza di tre metri a causa del ribaltamento dei medesimo». Nel corso delle indagini, si accertava che «occorreva montare dei teloni antigrandine per ombreggiare il cortile e che il parroco aveva messo a disposizione le scale ed il trabattello; che l'infortunato si era offerto volontario ed aveva effettuato una prima parte del lavoro, quindi era disceso dal trabattello per consentirne lo spostamento verso la parete opposta ed era stato in questa seconda operazione che, salito nuovamente sul trabattello, lo aveva sentito ondeggiare ed era caduto a terra con tutta la struttura, riportando gravi lesioni». Si appurava, altresì, che «la struttura era dotata di stabilizzatori delle ruote, ma che questi non erano stati messi perché rendevano difficoltoso lo svolgimento del lavoro, che comportava lo spostamento continuo del trabattello», e che il parroco «non aveva dato alcuna disposizione ed il lavoro veniva svolto dai volontari con l'aiuto di due dipendenti della parrocchia». Il Tribunale di Torino dichiara l'improcedibilità dell'azione penale per tardività della querela, in quanto «escludeva che fosse applicabile la normativa posta a prevenzione degli infortuni sul lavoro, non essendo l'oratorio equiparabile ad un cantiere, né essendo ravvisabile un rapporto di dipendenza tra il volontario ed il parroco, che poteva rispondere sotto profili diversi, quale proprietario e custode del trabattello, ma non per violazione di norme antinfortunistiche». A sua volta, la Corte d'Appello di Torino conferma la sentenza del Tribunale, «affermando che, nel caso di specie, mancava il presupposto del raggiungimento di un risultato utile al parroco perché erano stati i parrocchiani a volere la festa e a prestarsi al suo allestimento in piena libertà, dedicandosi con la propria attività ad un'opera che tornava non a vantaggio dei parroco, ma a vantaggio proprio», e opinando, altresì, che il parroco «non si trovò in una posizione di supremazia rispetto ai volontari e perciò non assunse una posizione di garanzia, anche se nella denuncia all'assicurazione dichiarò di avere dato incarico ai medesimi di realizzare l'allestimento, perché questa dichiarazione era diretta a favorire il risarcimento del danno all'infortunato». Su ricorso della parte civile, e sia pure ai soli effetti civili, la Sez. IV annulla la sentenza della Corte d'Appello di Torino. Rimprovera ai giudici di tale Corte d'Appello di non aver «tenuto conto che la festa parrocchiale non riguardava solo i parrocchiani, ma in prima persona il parroco, il quale è il soggetto che ha la direzione delle attività della parrocchia, pur richiedendo il parere del consiglio parrocchiale ed ha messo a disposizione l'oratorio come luogo da allestire per la festa, oltre il trabattello appartenente alla parrocchia». Ne desume che «l'affermazione relativa alla finalità ed al vantaggio apportato dal lavoro dei volontari contrasta con un ragionamento rispettoso di rigorosi passaggi logici». Argomenta ancora che «l'approntamento di misure di sicurezza e quindi il rispetto delle norme antinfortunistiche esula dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo stata riconosciuta la tutela anche in fattispecie di lavoro prestato per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi `di lavoro'». Rileva che, «nel caso di specie, premesso l'interesse del parroco perché la festa potesse realizzarsi con meno spese possibili, fu lo stesso imputato ad ammettere nella denuncia all'assicurazione di avere affidato ai volontari il compito di predisporre un telone che presupponeva il lavoro ad una certa altezza sul trabattello», e non senza ironia che «questa dichiarazione è stata liquidata dalla corte come un elemento non significativo, a favore della parte offesa per agevolare la liquidazione del danno». Ricorda ai giudici della Corte d'Appello che «non corrisponde a logica e a corretto metodo di valutazione della prova scartare un elemento a carico di importante rilevanza, dal momento che tutta la tesi difensiva tende a scagionare l'imputato sotto il profilo dell'autonomia dell'iniziativa dei parrocchiani e quindi anche dell'infortunato». E insegna che, «tenuto conto del lavoro pericoloso che si doveva svolgere nell'oratorio con strumenti messi a disposizione dal parroco e per un'attività che riguardava la parrocchia, anche se per favorire i parrocchiani (ma questa finalità è tipica dell'attività del parroco) il parroco aveva assunto una posizione di garanzia nei confronti di chi prestava volontariamente il proprio lavoro e per questa ragione era tenuto a rispettare le norme antinfortunistiche che richiedevano tra l'altro l'uso di un trabattello idoneo ed il controllo che lo stesso venisse adoperato in un modo conforme alle norme prudenziali». Di qui l'errore di diritto commesso dalla Corte d'Appello di Torino, e, cioè, «l'esclusione dell'applicazione delle medesime e la conseguente dichiarazione di ímprocedibilità per la ritardata presentazione della querela in quanto il reato era perseguibile d'ufficio».

    Un problema discusso, e quanto mai delicato, concerne l'attività di assistenza ai disabili:

    Il legale rappresentante di una associazione onlus per l'assistenza ai disabili viene dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 89, comma 2, lettera a), e 48, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 [ora art. 168, D.Lgs. n. 81/2008], «perché aveva omesso, sebbene i dipendenti fossero esposti al rischio di movimentazione manuale dei carichi, di adottare alcuna misura organizzativa o alcun mezzo meccanico per evitare o ridurre la movimentazione manuale, omettendo anche di nominare il medico competente». A sua discolpa, l'imputato deduce che: «non esiste nessuna norma che preveda l'obbligo di sorveglianza sanitaria e di nomina di un medico competente per i dipendenti che svolgano attività come quelle del centro in questione», ed «egli non aveva quindi alcun obbligo di nominare un medico competente, avendo in proposito ampia discrezionalità valutativa»; «la perizia di ufficio ha escluso l'esistenza di alcun rischio dei dipendenti per la movimentazione dei disabili ed esistevano idonei apparecchi per la movimentazione meccanica», sicché «non essendovi rischio non vi era obbligo di nominare un medico competente»; «egli aveva nominato un tecnico quale responsabile della sicurezza nella struttura lavorativa, il quale gli aveva assicurato l'assenza di rischi sul posto di lavoro».

    La Sez. III ritiene invece «configurata la contravvenzione in esame essendo stato accertato che i dipendenti del centro addetti ai disabili avevano a disposizione un unico lettino in grado solo di alzarsi ed abbassarsi, e dovevano quindi provvedere manualmente al trasferimento dei disabili dalla carrozzina al lettino e viceversa nonché a tutte le operazioni di sollevamento e spostamento necessarie per consentire ai pazienti di assolvere alle esigenze fondamentali, e quindi con una movimentazione manuale del carico gravosa non solo per il peso in sé ma anche per la variabilità del baricentro dovuta alla mobilità del soggetto trasportato». Ne deduce «da un lato, che le suddette mansioni dei dipendenti li esponevano al rischio di lesioni dorso lombari e, da un altro lato, che non erano state messe a disposizione attrezzature fondamentali, quali automezzi dotati di pedana meccanica, lettini ad altezza variabile, solleva persone idraulico, e cosi via». Rileva, infine, che «era evidente la mancanza di qualsiasi adeguata attrezzatura idonea a ridurre i rischi per i dipendenti derivanti dalla movimentazione manuale dei disabili».

    Istruttivo è confrontare le soluzioni accolte nelle sentenze della Corte Suprema, e coglierne concordanze e discordanze in ordine al quesito: in caso di decesso o lesione a carico di un terzo presente nel luogo di lavoro, a quali condizioni il reato di omicidio colposo o lesione personale colposa è aggravato dalla circostanza della violazione di norme antinfortunistiche di cui agli artt. 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., e il reato di lesione personale colposa grave o gravissima è perseguibile d'ufficio ex art. 590, ultimo comma, c.p.? (Su tale quesito v. Guariniello, Dai lavoratori ai terzi nei luoghi di lavoro: accordi e disaccordi giurisprudenziali, in Dir.prat.lav., 2022, 39, 2364). Ecco in sintesi le condizioni poste in risalto dalle diverse sentenze (a partire dalla c.d. sentenza Viareggio, ma con la segnalazione di pronunce anche risalenti e tuttavia largamente citate in giurisprudenza):

    - che sia stata violata una norma a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori

    - che l'evento, anche quello occorso in danno di un terzo, sia concretizzazione del rischio lavorativo, e, cioè, del rischio derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma che può concernere anche la sicurezza e la salute del terzo che venga a trovarsi nella medesima o in analoga situazione di esposizione del lavoratore, in presenza non occasionale sul luogo di lavoro o in contatto più o meno diretto e ravvicinato con la fonte del pericolo

    - che il terzo versi quanto meno in una situazione analoga a quella dei lavoratori

    - che il terzo si sia introdotto nel luogo di lavoro per qualsiasi ragione purché a questo connessa, e non magari per curiosità o addirittura abusivamente

    - che la presenza del terzo nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante

    - che la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi

    - che la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi

    - che sussista tra violazione della norma ed evento dannoso un legame causale

    - che la presenza del terzo nel luogo e nel momento dell'infortunio non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante

    - che il terzo sia esposto ai pericoli derivanti da un'attività lavorativa da altri svolta nell'ambiente di lavoro

    - che la presenza del terzo sul luogo e nel momento dell'infortunio, non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante

    - che la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi

    - che l'infortunio rientri nell'area di rischio definita dalla regola cautelare violata

    - che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo

    ovvero

    - che la presenza del terzo nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante

    - che la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi

    - che lo specifico rischio concretizzatosi nell'evento sia interno alla sfera rispetto alla quale il datore di lavoro è tenuto direttamente ad assicurare l'incolumità soggettiva altrui.

    Tutte da leggere sono, quindi, le più recenti:

    Omicidio colposo in danno di una minore di anni quattro ascritto all'amministratore e al direttore di un punto vendita di una s.p.a., con l'addebito di aver omesso di ``adottare le misure necessarie affinché gli scaffali dell'esercizio commerciale fossero adeguatamente utilizzati'' e ``di impartire precise istruzioni per il caricamento della merce'', con la conseguenza che la minore, ``trovandosi sul passeggino nei pressi di una scaffalatura, veniva travolta da un pallet contenente un carico di merce ivi riposto del peso di oltre trecento chilogrammi''. La Sez. IV annulla con rinvio la sentenza di condanna ``limitatamente al punto relativo alla circostanza attenuante del risarcimento dei danni'', ma la conferma nel resto: ``I profili di colpa specifica individuati nelle sentenze di merito hanno riguardato la mancata individuazione del rischio rappresentato dalla caduta dall'alto della merce, la mancata adozione dei rimedi necessari ad evitare simili eventi, la mancata formazione del personale''. In particolare, a proposito dell'imputato individuato come datore di lavoro, esclude che ``il breve tempo intercorso tra la nomina e l'infortunio (15 giorni) non gli avrebbe consentito di prendere cognizione dei rischi collegati al caricamento dei bancali sugli scaffali e di porvi rimedio''. Prende atto che ``in tempi vicini alla nomina, vi era stata la segnalazione urgente di pericolo proveniente dalla società incaricata della verifica degli scaffali, che aveva riguardato proprio il posizionamento delle travi'', e ne desume che l'imputato, ``sia pure nominato da breve tempo, avrebbe dovuto e potuto informarsi sulle problematiche più gravi, segnalate da fonti autorevoli, onde provvedere ad adottare con sollecitudine le necessarie misure di tutela''.

    Il titolare di una ditta edile realizza senza titolo abilitativo tre corpi di fabbrica in cemento armato, ``abbandonando il relativo cantiere privo di recinzione e di parapetti con tavole fermapiede o intavolato solidamente fissato sui ponti di servizio e sulle aperture presenti sul suolo opere imposte dalla normativa e necessarie e indispensabili per impedire l'accesso di terzi e/o caduta dall'alto di persone in prossimità dell'apertura di solai'', e cagiona la morte di un minore salito sul piano sopraelevato e precipitato da una buca priva di protezione. Colpa: violazione degli artt. 109 e 146 D.Lgs. n. 81/2008. La Sez. IV conferma la condanna: ``Le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa; conseguendone che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p. Conseguendone che, in tale evenienza, dovrà ravvisarsi l'aggravante di cui agli artt. 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590, ultimo comma, c.p., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi. L'appaltatore di lavori edili, nell'esecuzione della propria attività e in base al principio del neminem laedere, deve osservare tutte le cautele necessarie per evitare che non solo i propri dipendenti, ma anche i terzi, riportino danni alla persona; rilevando che tale obbligo non si limita al periodo di mera esecuzione delle opere appaltate, ma anche alla fase successiva, qualora egli conservi il controllo della zona dei lavori, ma soprattutto si concreta nell'obbligo di non lasciare senza custodia situazioni di grave pericolo; principio dal quale si desume la persistenza della posizione di garanzia in capo all'appaltatore anche nella fase successiva alla eventuale cessione dei lavori e anteriormente al momento in cui l'area interessata dalle opere sia materialmente ed effettivamente entrata nella disponibilità del cessionario. Gli obblighi di sorveglianza del cantiere incombono sul titolare della posizione di garanzia anche nel caso in cui i lavori non siano in corso di esecuzione; essendo attuali anche in tale fase gli obblighi di recinzione preordinati a prevenire l'ingresso di terzi sull'area interessata (previsto dall'art. 109 D.Lgs. n. 81/2008) e tanto in coerenza con il principio richiamato in ordine al quale le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo''.

    Il titolare di un'azienda pirotecnica si reca unitamente ai propri dipendenti a bordo di un autocarro in un agro per una manifestazione autorizzata di fuochi d'artificio. L'autocarro lasciato in sosta sul fondo agricolo con pendenza pari al 10%, durante le operazioni di carico di materiale all'interno del vano del veicolo, retrocede autonomamente e travolge una persona che di fatto partecipava direttamente a tali operazioni con abiti da lavoro e guanti dell'azienda. La Sez. IV prende atto che la sentenza di condanna del titolare ``ha identificato lo specifico rischio concretizzatosi nell'evento ritenendolo interno alla sfera rispetto alla quale il datore di lavoro era tenuto direttamente ad assicurare l'incolumità soggettiva altrui'', e ``soddisfa i requisiti che giustificano l'applicazione della circostanza aggravante, avendo identificato come ambiente di lavoro il fondo agricolo sul quale era stato parcheggiato il furgone utile al trasporto del materiale pirotecnico che, per sua naturale destinazione, deve essere utilizzato all'esterno dell'area di produzione''. Ne desume che ``l'ubicazione del mezzo in quel luogo, caratterizzato da forte pendenza, fosse strettamente funzionale allo svolgimento dello spettacolo pirotecnico, che il rischio concretizzatosi sia dipeso dalla violazione di un precetto rivolto alla tutela della salute dei lavoratori, in quanto esso è scaturito dallo svolgimento di attività pirotecnica e dall'inappropriato stazionamento del mezzo a tale attività funzionale''.

    ``In caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p. Conseguendone che, in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l'aggravante di cui agli artt. 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 ultimo comma, c.p., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi''. (Nel caso di specie, il ``terzo'' sarebbe un soggetto ``impiegato irregolarmente'' dal datore di lavoro imputato).

    Su una linea ferroviaria, un treno regionale impatta violentemente contro un grosso masso posizionatosi sui binari a seguito di una frana. Il treno deraglia, la cabina di guida è schiacciata, il macchinista dipendente della s.p.a. esercente i treni muore. Condanna di due responsabili della distinta s.p.a. esercente la linea ferroviaria per disastro e omicidio colposo. Addebito di colpa, in particolare, ``la mancata considerazione dello specifico rischio in sede di redazione del DVR''. In propria difesa, gli imputati lamentano la ritenuta applicabilità delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, pur a fronte del verificarsi di un evento influente non sull'ambiente di lavoro, bensì sul rischio da circolazione ferroviaria. Nel richiamare a proprio supporto principalmente la sentenza Viareggio, la Sez. IV ritiene ``ben possibile che nell'evento si sia concretizzato il rischio lavorativo anche se avvenuto in danno del terzo, ma ciò richiede che questi si sia trovato esposto a tale rischio alla stessa stregua del lavoratore''. Ne desume che, ``in positivo, vengono richieste condizioni quali la presenza non occasionale sul luogo di lavoro o un contatto più o meno diretto e ravvicinato con la fonte del pericolo, e, in negativo, che non deve aver esplicato i suoi effetti un rischio diverso e assorbente''. Afferma il ``principio per cui ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante di cui all'art. 589, comma 2, e all'art. 590, comma 3, c.p., la locuzione `se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' va interpretata come riferita a eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati a tale tipo di rischio'', e ``per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori, ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima posizione di esposizione del lavoratore''. In dichiarato ossequio a tale principio, la Sez. IV ritiene necessario che ``sia stata violata una norma a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori'', e che ``l'evento, anche quello occorso in danno di un terzo, sia concretizzazione del rischio lavorativo, ovvero del rischio di nocumento del lavoratore in conseguenza dell'attività espletata o del terzo che si trova in analoga situazione di esposizione''. Con riguardo al caso di specie, reputa ``operante la disciplina in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro''. Spiega, infatti, che ``l'evento si è concretizzato nell'area di rischio da ambiente lavorativo, che, per il macchinista, ancorché dipendente della s.p.a. (esercente i treni), era costituito dall'automotrice da lui condotta e anche dalla rete ferroviaria gestita da altra s.p.a., e in presenza di condizioni che, ordinariamente, si associano al rischio lavorativo da gestione della rete ferroviaria''. Sicché il macchinista, soggetto `terzo' rispetto alla s.p.a. esercente la rete ferroviaria, è stato esposto alla stessa situazione di contesto lavorativo della s.p.a. esercente la rete ferroviaria. (Anche qui una domanda: può davvero considerarsi un ``terzo'' il lavoratore che utilizza per incarico del proprio datore di lavoro un luogo di lavoro di altra azienda?).

    Infortunio subito dal dipendente di una s.r.l. che, ``avendo fatto accesso alla guida della sua automobile al fronte di cava gestito da altra s.r.l. senza incontrare alcun ostacolo o impedimento o allarme e ciò nonostante fosse imminente il brillamento dì circa sei quintali di esplosivo, veniva attinto e sepolto vivo da migliaia di tonnellate di pietra distaccatesi dal fronte a seguito dell'esplosione''. Una situazione, questa, di ``promiscuità'' tra le due s.r.l., derivante da più fattori: condivisione degli spazi da esse usati per lo svolgimento delle reciproche attività produttive, accesso in comune all'impianto di betonaggio ed a quello di cava, proprietà in capo all'una s.r.l. dei due impianti utilizzati dall'altra s.r.l. per la produzione del conglomerato cementizio bituminoso, identità della proprietà delle due s.r.l. in capo alla medesima persona. Nel confermare la condanna di tale persona, la Sez. IV ritiene che ``l'insussistenza di un rapporto di dipendenza fra l'infortunato e la s.r.l. esercente la cava non costituisca un ostacolo alla operatività della posizione di garanzia in capo all'imputato, in qualità di amministratore della predetta società''. Segnala ``la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, per cui in tema di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico''. Considera, pertanto, irrilevante che ``non si sia trattato di un infortunio sul lavoro perché l'infortunato in quel luogo non stava svolgendo la propria prestazione lavorativa, ma c'era entrato per ragioni personali''. Afferma che ``quel soggetto andava tutelato dal garante della sicurezza come qualsiasi altro terzo, ed invece la riscontrata assenza di presidi e le plurime omissioni ascritte all'imputato hanno fatto sì che egli potesse tranquillamente entrare con la propria auto nella cava al momento dell'esplosione''. (Resta da chiedersi, in particolare, se il caso di un ``terzo'' entrato in azienda ``per ragioni personali'' - in sentenza si evoca l'intento di ``sottrarre cascami di pietre da utilizzare per scopi personali'' - rivesta, o non, carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità).

    Morte per asfissia da annegamento in una cavità marina sommersa di quattro subacquei, solo uno ritenuto lavoratore: ``Le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico''. (Sentenza riportata ampiamente sub art. 2, paragrafo 45; del medesimo Estensore v. pure Cass. 31 gennaio 2022 n. 3293, relativa a un incidente che ha coinvolto un terzo presente in un esercizio commerciale).

    ``Ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante del `fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro', è necessario e sufficiente che venga violata una regola cautelare volta a eliminare o ridurre lo specifico rischio, derivante dallo svolgimento di attività lavorativa, di morte o lesioni in danno dei lavoratori o di terzi esposti alla medesima situazione di rischio e pertanto assimilabili ai lavoratori, e che l'evento sia concretizzazione di tale rischio `lavorativo'. Appartiene al gestore del rischio connesso all'esistenza di un cantiere o di un'azienda anche la prevenzione degli infortuni di soggetti a questo estranei, ancorché gli stessi tengano condotte imprudenti, purché non esorbitanti il tipo di rischio definito dalla norma cautelare violata. Le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino, a danno del terzo, i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità/atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico. Si tratta di insegnamenti che valgono, a maggior ragione, anche nel caso di specie, in cui l'imprenditore ha consentito al terzo estraneo all'azienda di avvalersi delle strutture aziendali, ed in particolare di accedere al silo in modo da potervi operare autonomamente, senza però assicurargli le condizioni di sicurezza nell'utilizzo delle attrezzature, in tal modo violando i profili di colpa specifica che devono trovare applicazione a prescindere dall'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti in causa''.

    Scontro tra un treno passeggeri e un treno merci su tratto di monorotaia in aperta campagna all'altezza di una curva cieca e coperta da una macchia di cisti che ne impediva quasi completamente la visibilità. Condanna per disastro, omicidio e lesioni colposi, di un dirigente movimento per aver omesso di indicare l'incrocio al capotreno del convoglio, nonché della s.p.a. quale responsabile civile. A quest'ultimo riguardo, la Sez. IV osserva che l'inquadramento della responsabilità del responsabile civile nell'art. 2049 o 2050 c.c. ``condiziona l'onere probatorio, posto che la presunzione di cui all'art. 2049 non lascia spazio a prove contrarie, ove sia provato che l'evento è derivato da una condotta del prestatore di lavoro in occasione del lavoro svolto, mentre la presunzione di responsabilità derivante dall'esercizio di attività pericolose consente la prova liberatoria dell'avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno''. Prende atto che la Corte d'Appello non ha dato ``applicazione alla presunzione di responsabilità sancita dall'art. 2049 c.c., che postula l'esistenza del rapporto di lavoro ed il collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni svolte, che abbia agevolato o reso possibile il fatto, ma ha indagato sull'adozione di misure idonee ad evitare il danno da parte del gestore dell'attività'', e pertanto ha ``ritenuto `pericolosa', ai sensi dell'art. 2050 c.c., l'attività svolta, tanto è vero che si è posta la domanda sull'adempimento da parte dell'ente gestore della rete ferroviaria dell'obbligo di predisporre le misure idonee ad evitare l'evento, ricomprendendo fra queste anche l'attribuzione di compiti di particolare responsabilità a soggetti idonei ad assicurarne il regolare svolgimento''. Ne desume che ``non è in discussione se l'attività svolta possa considerarsi `pericolosa', ai sensi dell'art. 2050 c.c., ancorché non espressamente qualificata come tale dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, potendo per la sua stessa natura, per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comportare la rilevante possibilità del verificarsi di un danno, perché la considera tale `in concreto', evidentemente per le modalità `rudimentali' del controllo della circolazione, affidato al solo adempimento delle prescrizioni da parte degli addetti''. Precisa che, ``per andare esente da responsabilità, chi gestisce un'attività pericolosa - tale perché così qualificata dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, o per la sua stessa natura, per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, o per le modalità con cui viene svolta `in concreto' - non può limitarsi a dare la prova di avere adottato tutte le misure offerte dalla tecnica, ma deve dimostrare di avere adottato tutte le cautele idonee ad evitare il prodursi del danno derivante da quella attività, ivi comprese quelle organizzative e gestionali, imposte dalla prudenza e dalla diligenza, e ciò non può che comprendere, da un lato, un sistema di controllo efficace delta catena di comando in ordine alle prescrizioni da impartire ai prestatori di lavoro, attraverso i quali l'attività si esercita, dall'altro, la doverosa verifica della capacità degli addetti, cui vengono assegnati compiti nevralgici sulla sicurezza e la stringente sorveglianza sul corretto adempimento delle mansioni''.

    ``La notte si stavano svolgendo lavori lungo la tratta ferroviaria tra due stazioni ferroviarie a cura di una impresa che tuttavia utilizzava alcuni lavoratori dipendenti di una s.r.l. distaccati presso la predetta impresa. Allorquando l'infortunato era sceso dal locomotore di cui era macchinista, e che si trovava sul binario interessato ai lavori, veniva travolto da un treno merco che circolava sul binario attiguo''. Furono condannati il datore di lavoro distaccatario ``per non aver formato ed informato il lavoratore sugli specifici rischi presenti sul cantiere ferroviario e per aver omesso di far osservare le cautele stabilite nel PSC e nel POS'' e il preposto ``per non aver vigilato in ordine al rispetto delle prescrizioni, per le quali l'intervento di risanamento della massicciata ferroviaria avrebbe dovuto avere inizio solo dopo la completa interruzione della circolazione dei convogli su entrambi i binari della tratta''.

    Decesso di un operatore travolto da un treno regionale su un binario su cui la squadra si era spostata per il sopraggiungere, sul binario adiacente dove operava, di un treno merci. Colpa addebitata a più dirigenti: ``negligenza, imprudenza, imperizia e violazione delle disposizioni di servizio concernenti l'obbligo di predisporre un'apposita e idonea organizzazione protettiva per le persone addette a lavori sui binari in esercizio, onde assicurarne l'incolumità al passaggio dei treni, e aver omesso di adempiere ai doveri di adeguata, specifica ed effettiva informazione, formazione e addestramento dei lavoratori, con riferimento ai rischi specifici correlati all'esecuzione di lavori sui binari in esercizio e di adottare le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che avevano ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedessero alle zone che li esponevano ai rischi relativi a tali lavori; non disponendo che si procedesse in regime di interruzione del binario, come sarebbe stato corretto, bensì in regime di liberazione del binario su avvistamento, peraltro in assenza di formale assegnazione degli incarichi e precisa individuazione della distanza di sicurezza e del punto di avvistamento, non sussistendo la possibilità di avvistare il treno alla `distanza di sicurezza', calcolabile in non meno di metri 830, laddove in concreto era possibile avvistare i treni provenienti da nord solo alla distanza di metri 200 circa, per la presenza di una curva e di una barriera antirumore, che limitavano la visuale, ed in considerazione altresì dell'orario notturno, dell'assenza di illuminazione e delle caratteristiche della sede dei lavori, in cui vi era un fascio di sette binari paralleli, raccordati da svariati deviatoi; non ricoverando la squadra in luogo sicuro, al transito dei treni; non adoperandosi per eliminare la situazione di pericolo grave e incombente, correlata al passaggio contemporaneo di due convogli''.

    Due macchinisti, l'uno addetto alla guida del treno, l'altro al controllo dei segnali, condannati in primo grado, furono assolti perché il fatto non costituisce reato, dai delitti di disastro ferroviario e di omicidio colposo in danno di due passeggeri, addebitati ``perché approssimandosi a una stazione, non rispettavano il segnale di avviso disposto al giallo, in presenza del quale avrebbero dovuto ridurre la velocità del treno a non più di 30 Km/h e superavano il successivo segnale di protezione disposto a via impedita, in presenza del quale avrebbero dovuto arrestare il treno, sopraggiungendo nella stazione alla velocità di circa 120 Km/h, ove, in corrispondenza dei deviatoi d'ingresso, avvedutisi della presenza sullo stesso binario di altro treno, che stava ripartendo, il macchinista addetto alla guida azionava la frenatura rapida, circa 380 metri prima dell'impatto, andando a collidere, tamponandolo, con il suddetto treno alla velocità di circa 105 Km/h, di modo che la carrozza motrice del treno, per effetto dell'urto, sormontava l'ultimo vagone dell'altro treno 3361, schiacciandolo''. La Sez. IV annulla con rinvio agli effetti civili l'assoluzione.

    Il macchinista e il capotreno di un treno - condannati per il reato di cui all'art. 450 c.p., per aver ``dato il via libera alla partenza del treno presso una stazione ferroviaria senza attendere l'incrocio con altro treno, proveniente dalla opposta direzione di marcia, in tratto ferroviario a binario unico, determinando il pericolo di disastro ferroviario'' - negano ``la ricorrenza del presupposto oggettivo del pericolo di disastro''. (Per un'ipotesi di omessa custodia di un toro che consentì all'animale di allontanarsi da un'azienda agricola e posizionarsi al centro dei binari provocando l'impatto con un convoglio ferroviario v. Cass. 12 febbraio 2013 n. 6982. Per la tesi che il reato di cui all'art. 450 c.p. anticipa la tutela rispetto a quella delineata dall'art. 449 c.p., incriminando anche le condotte che fanno solo sorgere o persistere il pericolo di un evento disastroso, del tipo di quelli espressamente menzionati, senza necessità che si realizzi alcun evento e tanto meno alcun danno Cass. 11 marzo 2010 n. 9969, ove si aggiunge: ``perché il reato si perfezioni è sufficiente che un disastro possa verificarsi, nel senso che deve essere accertata la effettiva esistenza di un pericolo che l'evento temuto si verifichi'').

    La Sez. IV ribatte che ``la stessa circostanza che due treni provengano da opposte direzioni di marcia e si affrontino su un unico binario, a poche centinaia di metri di distanza, in assenza di vie di fuga, di sbarramenti intermedi e di possibilità di deviarne la marcia o impedirne la collisione, se non attraverso l'azione frenante di emergenza dell'uno o dell'altro macchinista, costituisce palese concretizzazione del rischio di collisione tra i convogli''. Aggiunge che ``lo scontro avrebbe con alta probabilità logica coinvolto non solo i locomotori, ma avrebbe determinato il deragliamento di uno o più vagoni dei convogli, con danni rilevantissimi non solo alle macchine e ai binari, con pregiudizio al traffico ferroviario in termini di sicurezza dei trasporti e blocco della circolazione, ma soprattutto con la messa a repentaglio della vita e della integrità fisica di un numero indeterminato di persone, i passeggeri dei due convogli coinvolti nello scontro''.

    (Per la condanna per i reati di pericolo di disastro ferroviario e di lesioni colpose di ``un macchinista, conduttore di un treno che aveva tamponato altro treno che lo precedeva fermo presso la stazione'', per ``avere oltrepassato il limite di velocità di 15 Km/h prescritto per la tratta impegnata, che prevedeva marcia a vista e in modalità rosso permissivo e per non avere prestato l'attenzione dovuta e prudenza all'approssimarsi alla stazione metropolitana'', per ``non avere tenuto una velocità prudenziale rispetto alle condizioni di tempo e di luogo e per non avere imposto una corretta frenata in modo da arrestare il convoglio a distanza di sicurezza'' v. Cass. 21 gennaio 2019, n. 2597; per la condanna per il reato di cui all'art. 450 c.p. del conducente di un autocarro entrato in collisione con un treno a un passaggio a livello Cass. 19 ottobre 2018, n. 47779 e del conducente di un autobus entrato in collisione con un treno a un passaggio a livello Cass. 4 settembre 2018, n. 39736; cfr., inoltre, Cass.pen. 22 dicembre 2022 n. 48635; Cass. 24 ottobre 2022 n. 40074, su infortunio occorso a dipendente ferroviario caduto a terra per gli effetti aereodinamici di un treno in transito, e, retro, al paragrafo 6, Cass. pen. 24 luglio 2023 n. 31816).

    Con frequenza, la giurisprudenza è chiamata ad occuparsi di incidenti stradali (e autostradali) addebitati al datore di lavoro (v. pure Cass. 27 marzo 2017, n. 15164).

    Nel percorrere una strada rettilinea in discesa, il conducente di una spazzatrive sfonda la ringliera e precipita in un torrente. Condannati in primo grado, ma assolti in appello perché il fatto non sussiste, più soggetti della s.p.a. datrice di lavoro. Addebito di colpa: violazione degli obblighi di valutazione dei rischi e di informazione-formazione. Nell'annullare con rinvio l'assoluzione, la Sez. IV prende atto delle ``carenze, rilevate e stigmatizzate dal Tribunale, del D.V.R. a proposito dei pericoli connessi alla circolazione di una macchina destinata a operare come spazzatrice e non già come mezzo di trasporto'', e delle ``connesse carenze formative e informative del personale dipendente, addestrato non già attraverso specifici corsi, bensì unicamente attraverso affiancamento sul campo ai colleghi più anziani''. E rileva che ``l'eventuale affermazione della responsabilità in ordine al decesso della persona offesa dovrà essere accompagnata da una puntuale verifica della sussistenza delle posizioni di garanzia in capo agli imputati''.

    Il legale rappresentante di una s.r.l. fu condannato per omicidio colposo, per aver cagionato la morte di un dipendente, incaricandolo di guidare un veicolo betoniera autocaricante nonostante fosse sprovvisto di patente di guida idonea alla tipologia di veicolo e privo di specifica formazione tecnico professionale. Per giunta, il veicolo risultava privo della porta di accesso alla cabina di guida, del vetro parabrezza nonché del vetro lunotto posteriore. Nel percorrere una via senza aver allacciato la cintura di sicurezza, affrontava una curva a destra in discesa e perdeva il controllo della macchina operatrice che si ribaltava sul lato destro. Proiettato al di fuori dell'abitacolo, il lavoratore perdeva la vita, schiacciato dal mezzo. Addebito mosso al datore di lavoro quello di aver incaricato il dipendente, ``adibito alle generiche mansioni di autista, della conduzione su strada della betoniera, nonostante la vittima non fosse abilitata alla guida di macchine operatrici con massa superiore a 3500 Kg.''. Né, d'altra parte, ``veniva rinvenuta alcuna documentazione relativa alla formazione del dipendente per le mansioni di autista di autobetoniere, né risultava espletata alcuna attività formativa specifica, come l'illustrazione al conducente delle prescrizioni contenute nel Manuale di uso e manutenzione del veicolo, che prevedeva che la macchina è dotata di cabina di sicurezza ROPS'', e ``nel caso di ribaltamento è necessario però che l'operatore sia allacciato con la cintura di sicurezza, altrimenti verrà proiettato all'esterno e correrà il rischio di rimanere schiacciato dal mezzo''. La Sez. IV ritiene ``la sussistenza di responsabilità per colpa specifica a carico del datore di lavoro, avendo affidato al dipendente la guida della betoniera, a pieno carico, sebbene non avesse conseguito la patente C e non fosse stato a tal fine formato, non essendosi neanche premurato di mettere a disposizione del lavoratore un veicolo idoneamente manutenuto e avergli fornito attrezzatura adatta''. Aggiunge che ``la rnacchina operatrice risultava in un cattivo stato di manutenzione, data l'assenza di protezione sul lato anteriore e posteriore della cabina a causa della mancanza del parabrezza e del lunotto, oltre che priva di assicurazione per la responsabilità civile, circostanza questa del pari indicativa di una sostanziale insensibilità al tema della sicurezza''.

    Il titolare di una s.a.s. in qualità di datore di lavoro e un dipendente furono condannati per omicidio colposo. Alla guida di un autoarticolato con semirimorchio carico di 88 cassoni contenenti pomodori, il dipendente percorreva una strada statale, ``quando a causa di un restringimento della corsia dl percorrenza dovuto ad un cantiere delimitato sulla destra da un new jersey in cemento, nell'affrontare la curva a sinistra, aveva impattato contro detta barriera sormontando con le ruote posteriori destre del semirimorchio il piano inclinato posto alla base del new jersey, e a seguito dell'urto il semirimorchio aveva subito uno squilibrio verso sinistra ed aveva determinato lo sbandamento del carico, la rottura del cavo di fissaggio dei cassoni e la caduta di parte di essi a sinistra con invasione della opposta corsia di marcia in cui in quei momento stava sopraggiungendo un motociclo che aveva impattato contro alcune casse cadute dall'autoarticolato, sicché il conducente ed il trasportato del motociclo erano decedute''. Accusa mossa al datore di lavoro: ``omissione della formazione periodica del conducente in merito ai rischi connessi alla specifica attività di trasporto di un considerevole carico di merci con un veicolo pesante di notevoli dimensioni (art. 37, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008)''. La Sez. IV conferma la condanna del dipendente, ma annulla perché il fatto non sussiste la condanna del datore di lavoro. Prende atto che ``i giudici di merito hanno ritenuto che nel caso in esame la formazione dovesse essere svolta con riferimento a più aspetti riconducibili, in ultima analisi, a due diverse aree, ovvero quella relativa alla condotta di guida di mezzi di notevoli dimensioni nel caso di trasporto di carichi cli peso rilevante e quella relativa alle modalità di stivaggio della merce''. Ma replica che, ``mentre il secondo aspetto è riconducibile a pieno diritto nel perimetro della formazione di cui deve essere debitore il datore di lavoro in tema di autotrasporto, non altrettanto può dirsi per il primo aspetto'', in quanto ``i conducenti che circolano a bordo di autoveicolo del tipo di quello coinvolto nell'incidente stradale in contestazione ricevono specifica formazione, in ordine alla condotta di guida di mezzi pesanti, da parte di scuole guida e sono muniti di una speciale autorizzazione''. Quanto allo stivaggio della merce, nota che ``i bins erano stati adeguatamente stivati e contenuti con funi di ancoraggio ed in ogni caso nessun sistema di stivaggio, ovvero anche quello più sofisticato suggerito dalla normativa all'epoca del fatto non ancora in vigore, in astratto può garantire rispetto al rischio di caduta determinato da una condotta di guida quale quella tenuta dal conducente''.

    La Sez. IV conferma la condanna del datore di lavoro per l'infortunio occorso per caduta sulla neve a un dipendente sceso dal camion per aiutare il conducente nelle manovre di guida stante le avverse condizioni meteorologiche e stradali: ``Il documento di valutazione dei rischi predisposto dalla ditta non conteneva previsioni specifiche per il caso di operarazioni da svolgere in condizioni ambientali particolari, come quelle verificatisi in occasione dell'infortunio al dipendente. Non risulta dimostrato che da parte datrice vi sia stata un'opera di formazione specifica dei dipendenti per evenienze di tale fatta. L'unico presidio di sicurezza posto a disposizione consisteva nella calzatura antinfortunistica fornita, che per ammissione dello stesso produttore era bensì adeguata per condizioni ordinarie, ma non qualora l'utilizzatore si fosse trovato ad operare in ambiti caratterizzati da consistente innevamento o presenza di ghiaccio. L'allegato 8 al D.Lgs. n. 81/2008, recante l'elencazione indicativa dei dispositivi ed attrezzature di protezione individuale, ricomprende i ramponi inamovibili per ghiaccio, neve o terreno sdrucciolevole''.

    ``Un operaio stagionale addetto all'irrigazione dei campi, messosi alla guida del trattore da definirsi `attrezzatura di lavoro', perdeva il controllo del mezzo che si ribaltava a causa di una scorretta ripartizione dei pesi tra i due assi. L'incidente mortale fu ricondotto sia a ipotesi di sinistro stradale, essendosi verificato il ribaltamento lungo una via aperta al pubblico, sia come infortunio sul lavoro assoggettato, pertanto, alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 81/2008, ravvisando la causa dell'evento nel mancato impedimento da parte degli imputati del montaggio della multifresa dietro il trattore, non accompagnato dalla installazione di una adeguata zavorra nella parte anteriore del veicolo per controbilanciare il peso. Fu escluso che il nesso di causalità potesse essere interrotto dalla condotta, pure imprudente, assunta dal lavoratore tenuto conto che egli, seppur assunto come operario generico con mansioni di irrigazione dei campi, anche prima dell'infortunio aveva di fatto svolto mansioni di autista ponendosi alla conduzione dei trattori in dotazione all'azienda essendo titolare della necessaria patente di guida''.

    Per l'infortunio mortale in danno di un operaio impegnato in un porto nelle operazioni di sbarco a terra dei semirimorchi imbarcati su una motonave e schiacciato da un semirimorchio, la Sez. III annulla con rinvio la condanna del titolare dell'impresa proprietaria del semirimorchio: ``L'obbligo di revisione di questi veicoli è fissato dalla legge in sei mesi, sicché deve ritenersi che questo sia il tempo valutato dalla norma come congruo, sulla base delle conoscenze tecniche, per garantire la sicurezza di questi tipi di veicoli, il cui uso frequente è noto e tenuto già in conto dalla disciplina di settore. Né è emerso che l'uso fosse, nella specie, eccezionale e straordinario. Appurato l'adempimento dell'obbligo, la corte d'appello ha opinato che lo stesso comunque non assicurasse l'effettività della tutela ed ha ipotizzato a tal fine a) che il documento dei rischi non fosse stato portato a conoscenza degli autisti, circostanza tuttavia non accertata, b) che, in ogni caso, la misura prescritta di delegare all'autista il controllo giornaliero fosse inidonea alla protezione, perché doveva essere preposto alla bisogna un meccanico esperto, circostanza tuttavia che non pare abbia un fondamento scientifico o sia il frutto di una regola tecnica, anche non codificata, sebbene condivisa dai professionisti del settore, bensì piuttosto sembra scaturire dal foro interno del giudice. I giudici non hanno spiegato in modo scientifico e razionale per quali motivi era necessario effettuare controlli più ravvicinati, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge, e se era coerente con le prassi standardizzate delle società operanti nel medesimo settore, nonché esigibile, pretendere la presenza costante di meccanici per le verifiche di efficienza di tutti i mezzi in uso; inoltre, il fatto che l'autista non sia un meccanico non significa necessariamente che l'autista non abbia le competenze per sospettare l'esistenza di un problema e per gestirlo anche con l'ausilio di altri professionisti''.

    ``Un dipendente restava schiacciato in conseguenza del ribaltamento del trattore agricolo, non rispondente alle prescrizioni in materia di sicurezza, di cui gli era stata affidata la guida nel corso delle sue prestazioni lavorative, e di cui perdeva il controllo, essendo sprovvisto di idonea patente di guida''. Nel confermare la condanna del datore di lavoro, la Sez. IV prende atto che l'infortunato ``procedeva necessariamente a velocità minima e in un tratto di strada pianeggiante, asfaltata e priva di insidie'', sicché ``in modo del tutto superficiale e censurabile l'imputato ha affidato la conduzione del mezzo agricolo al suo dipendente nonostante la sua palese inesperienza e il mancato conseguimento di un titolo abilitativo, quantomeno equipollente''. Rileva che ``la perdita del controllo del mezzo, da parte della vittima, è stata collegata alla sua inesperienza ed incapacità nella guida, essendosi esclusa l'assunzione da parte sua di alcool o sostanze stupefacenti e non essendovi particolari difficoltà o alcuna condizione avversa''. Nota come ``il fatto che il mezzo agricolo normalmente doveva percorrere la pubblica viabilità, con le conseguenti insidie collegate al traffico ordinario, imponeva, indipendentemente dal tipo di terreno agricolo servito, la predisposizione di banali sistemi antiribaltamento ovvero di barre di protezione''. Segnala che, a norma dell'art. 124 c.s., ``per guidare macchine agricole, escluse quelle con conducente a terra, occorre avere ottenuto una delle patenti di cui all'art. 116, comma 3, e precisamente: a) della categoria A, per la guida delle macchine agricole indicate dall'art. 115, comma 1, lettera c); b) della categoria B, per la guida delle macchine agricole, nonché delle macchine operatrici; c) della categoria C, per le macchine operatrici eccezionali''.

    La corte d'appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, respinse la domanda con la quale un lavoratore aveva chiesto la condanna della s.p.a. datrice di lavoro al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all'infortunio lavorativo occorsogli ``allorquando, mentre trasportava materiale su un ciclomotore di sua proprietà alla cui utilizzazione era stato autorizzato, perdeva il controllo del mezzo e cadeva a terra''. Nel cassare con rinvio la sentenza della corte d'appello di Bologna, la Sez. Lavoro esclude ``che l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio si configuri ex se quale causa destinata, in ipotesi di infortunio lavorativo, ad esonerare la datrice di lavoro da ogni responsabilità connessa all'uso del mezzo''. Spiega che ``l'obbligo di sicurezza che fa capo alla parte datoriale implica la necessità per questa di farsi carico della valutazione del rischio connesso a specifiche modalità di esecuzione della prestazione pretese in relazione all'utilizzazione del veicolo di proprietà al quale il dipendente è stato autorizzato''. Sottolinea che, nel caso di specie, ``avendo il dipendente allegato che per disposizioni aziendali egli era tenuto ad effettuare la consegna di un carico notevole (circa 40 kg) in un unico giro, in assenza di c.d. sacchi di appoggio, senza che gli venissero forniti strumenti idonei al fissaggio del carico trasportato sul ciclomotore onde garantirne la stabilità, occorre verificare se tali circostanze e comunque il complesso degli elementi relativi alla modalità di effettuazione della prestazione, ove accertati, abbiano determinato, tenuto conto delle caratteristiche del mezzo, una situazione di specifico rischio per il lavoratore, conseguendone in ipotesi affermativa la responsabilità della società datrice di lavoro''. E insegna che, ``in ipotesi di autorizzazione del dipendente all'uso del veicolo di proprietà, in caso di infortunio lavorativo connesso alla conduzione del mezzo, la parte datrice non è esonerata dalla responsabilità ex art. 2087 c.c., ove tale infortunio possa essere posto in relazione causale con lo specifico rischio creato, in relazione alla conduzione del mezzo, da disposizioni datoriali relative alle modalità di esecuzione della prestazione''.

    Infortunio a dipendente di una società di autotrasporti che, percorrendo un'autostrada alla guida di un trattore stradale con rimorchio, fuoriusciva dalla sede stradale dopo aver abbattuto un tratto di guard-rail. Causa: ``blocco dei sistema frenante della ruota sinistra del semirimorchio'', e, dunque, ``una evidente superficialità e negligenza nella manutenzione dei mezzi aziendali''.

    ``Un dipendente conduceva in retromarcia un autocarro con un ingente carico di sacchi di sabbia all'interno di uno stretto vicolo, provvedendo a mettere in sosta l'autocarro con la cabina rivolta a valle, inserendo la retromarcia e ponendo sotto le ruote del mezzo dei pezzi di legno, i quali avrebbero dovuto svolgere la funzione di cunei ferma ruote. Essendo quasi completamente inefficiente l'impianto frenante, assente la manutenzione praticata sul mezzo, insufficiente il sistema di ancoraggio sulla strada, che presentava una pendenza dell'11%, si determinava la discesa libera dell'autocarro a valle che, durante il tragitto, schiacciava contro una impalcatura l'operaio, disceso dal veicolo. Il veicolo messo a disposizione del lavoratore non era in condizione di garantire il necessario livello di sicurezza. La negligente vigilanza sulle condizioni di efficienza dell'autocarro ha riguardato parti visibili e raggiungibili del veicolo, essendosi peraltro manifestato il difetto del sistema frenante, attraverso la fuoriuscita di grasso dalla ruota sinistra. Quanto all'argomentazione difensiva della recente revisione del veicolo, essa non è suscettibile di incidere sull'accertata inidoneità del sistema frenante''.

    Il dipendente di una s.p.a. esercente servizi stradali ``fu sbalzato a terra dal cassone dell'autocarro, sul quale era intento a contenere con la forza delle braccia le transenne para-pedonali, che caricate sul mezzo, dovevano ancora essere assicurate, a causa del repentino sbalzo in avanti del mezzo, e avevano finito per sospingere fuori del cassone l'infortunato''. Vengono accusati ``il datore di lavoro, poiché presidente del consiglio d'amministrazione della predetta società, di aver redatto un documento di valutazione rischi (DVR) inadeguato e carente a riguardo della procedura da rispettare per ridurre al minimo i rischi derivanti dal carico e impilamento delle transenne para-pedonali, utilizzate per disciplinare l'afflusso delle persone in occasione di manifestazioni, omettendo, in particolar modo di prescrivere all'autista di scendere dal mezzo durante la fase di caricamento dei manufatti in discorso'', e il ``dirigente all'uopo delegato, di essere venuto meno ai propri obblighi di formazione ed informazione derivanti dai piani annuali pertinenti''.

    Un operaio fu investito da un veicolo, mentre era intento a segnalare l'approssimarsi del restringimento della carreggiata in presenza di cantiere autostradale in allestimento e a deviare conseguentemente la circolazione sulle porzioni di carreggiata più interne su tratto autostradale. Per lesioni personali colpose venne imputato il presidente del CdA della società datrice di lavoro ``per la omessa o incompleta formazione del lavoratore in materia di sicurezza e per la omessa predisposizione di una serie di accorgimenti e di cautele imposte dalla peculiare e molto pericolosa attività di `segnalatore' di lavori in autostrada richiesta al lavoratore''. La Sez. IV osserva: ``Il lavoratore si trovava a operare in area autostradale nella veste di segnalatore, mediante bandiera, di un cantiere in allestimento e in particolare della presenza di altri operai che stavano predisponendo il restringimento della carreggiata autostradale, promuovendo la deviazione del traffico dalla terza corsia (di sorpasso) alla seconda corsia (intermedia) del tratto autostradale. A prescindere dall'insufficiente fase formativa dell'operaio il quale non possedeva una adeguata formazione professionale relativamente alla specifica mansione di sbandieratore, il quale da un lato doveva segnalare agli automobilisti lungo la carreggiata autostradale il prossimo restringimento della carreggiata a partire dalla corsia di sorpasso, così operando in detta pericolosa posizione in mancanza di alcuna protezione materiale e al di fuori di una zona delimitata da segni visibili sull'asfalto, e dall'altra doveva concorrere alla protezione degli operai che in posizione più avanzata erano a realizzare la suddetta delimitazione, si è evidenziata l'omessa e decisiva cautela, pure prevista dal Piano Operativo di Sicurezza, della mancanza del segnalatore luminoso a monte del lavoratore la cui previsione del POS era così indicata `a monte dello sbandieratore a circa 150 metri dovrà essere posizionato un mezzo di segnalamento elettromeccanico', e la cui mancanza costituisce in colpa il titolare della posizione di garanzia. La suddetta segnalazione era necessaria e la sua mancanza non può essere ovviata dai segnali posti a 700 metri a monte (che invitavano alla moderazione della velocità ma non escludevano la necessità di una puntuale segnalazione specifica nell'imminenza del restringimento), né tantomeno dal freccione posto a valle che, pure visibile proprio in ragione della sua collocazione a valle, segnalava la chiusura del cantiere e non era idoneo a sostituire la segnalazione che doveva avvisare dell'inizio del restringimento. Se il segnale luminoso a valle del lavoratore avrebbe richiamato l'attenzione degli utenti sulla presenza di un restringimento o di lavori in corso in prossimità della segnalazione, certamente la detta segnalazione luminosa, collocata circa cento metri oltre la posizione del lavoratore non costituiva immediato presidio a tutela del lavoratore la cui funzione era quella di indurre gli automobilisti a deviare la propria marcia verso le corsie interne dell'autostrada e si presentava come avanguardia isolata e autoreferenziale (torcia luminosa, bandiera e indumenti catarifrangenti) in condizioni di visibilità ambientale non ottimale (tramonto)''.

    Di notte, un lavoratore invalido al 70%, ``mentre si trovava a piedi in autostrada, impegnato a segnalare ai veicoli in transito il restringimento della carreggiata interessata dai lavori eseguiti dalla ditta di cui era dipendente, veniva investito da un'autovettura, a sua volta tamponata violentemente da un furgone, e a seguito dell'urto decedeva. Più in particolare, il furgone, per la velocità eccessiva, 112-120 km/h a fronte del limite di 80 e del segnale di restringimento della carreggiata per lavori in corso, tamponava violentemente l'auto che lo precedeva che ruotava verso destra, travolgendo la vittima mentre era intento ad effettuare la segnalazione del cantiere''. Oltre al conducente del furgone, furono condannati per omicidio colposo il presidente del consiglio di amministrazione e il consigliere del consiglio di amministrazione responsabile tecnico nonché responsabile della gestione dei rapporti con gli enti autostradali, della direzione tecnica ed ambientale. Colpa: ``non aver valutato tutti i rischi per la sicurezza dei lavoratori; non aver sufficientemente protetto l'attività del cantiere mobile in esercizio predisponendo una adeguata protezione fisica delle maestranze; aver adibito il lavoratore, invalido civile al 70% con ridotte capacità di movimento per una patologia cardiaca e vertebrale, con ridotte capacità di reazione per ipoacusia e altresì con ridotte capacità intellettive per deficit mentale, all'attività di segnalazione di un cantiere mobile in autostrada, attività diversa dalle mansioni che allo stesso erano state contrattualmente assegnate di addetto alle pulizie in autogrill e incompatibile con le sue minorazioni''. La Sez. IV conferma la condanna: ``Lo svolgimento dell'attività lavorativa in un cantiere mobile operante in autostrada è attività ad elevato rischio infortunistico e nell'ambito della stessa il lavoratore addetto alla segnalazione (come nella specie l'infortunato) è quello che assume il maggior rischio stante la sua maggiore esposizione al pericolo rispetto agli altri; si tratta infatti della prima persona che viene in contatto visivo con i veicoli in transito e che è più vicina agli stessi, laddove coloro che lavorano all'interno del cantiere sono più arretrati, protetti dalla sua stessa presenza e da un traffico che è stato già incanalato. Non poteva condividersi la valutazione, contenuta nel documento di valutazione dei rischi, di un valore medio di un tale rischio, essendo la previsione contenuta nel documento in questione del tutto generica e riferita allo `spostamento a piedi nei cantieri' e dunque non alla specifica situazione di cui trattasi. Conseguenza logica di tale pericolosità è che I `attività deve essere direttamente protetta, in primo luogo attraverso la previsione specifica delle regole da adottare nel suo svolgimento e dei presidi a tutela della incolumità di chi vi è addetto. Anche ammesso che nella specifica situazione data l'attività di segnalazione fosse prevista e consentita dal POS, la stessa non era in alcun modo disciplinata nelle sue modalità attuative; ha riferito il capo squadra che la prassi era quella per cui il conducente del veicolo segnalatore normalmente rimaneva sul mezzo stesso e di lì effettuava la segnalazione del cantiere con la bandierina, salvo però decidere caso per caso se era opportuno scendere dal mezzo per effettuare, stando a piedi sulla sede stradale, la segnalazione, servendosi, ove fosse notte, di una torcia elettrica. Dunque quella che era l'attività del cantiere a più alto rischio, non era regolata ma affidata ad una prassi operativa che rimetteva alla valutazione discrezionale dell'operatore la scelta se scendere o meno dal mezzo e rimanere sulla strada in una posizione dove i rischi sono massimi e tanto più di notte per la mancanza di visibilità. È stato altresì accertato che nessuna protezione vi era a tutela dell'investimento di tale lavoratore, assolutamente prevedibile, ad eccezione della apposita tuta luminescente, certamente non idonea a scongiurare fatti del tipo di quello avvenuto. L'attività di segnalatore non poteva rientrare tra quelle attività a rischio medio cui il medesimo era stato dichiarato idoneo (con valutazione peraltro resa in relazione alle mansioni concretamente assegnategli di addetto alla pulizia in autogrill); in tal modo si è creata la paradossale situazione per cui quella attività lavorativa che comportava la massima esposizione al rischio è stata in concreto assegnata al lavoratore meno idoneo a svolgerla per le rilevanti menomazioni da cui era affetto; in una situazione in cui ampia discrezionalità era lasciata al lavoratore sull'opportunità di scendere dal veicolo dove normalmente si trovava e dove comunque si richiedevano massime capacità di attenzione e prontezza, si è effettuata la scelta di un lavoratore con i gravi deficit sopra specificati. Al riguardo, gli imputati hanno cercato di mettere in discussione il nesso di causalità, sottolineando la circostanza che qualunque lavoratore si fosse trovato nella posizione dell'infortunato sarebbe stato travolto dall'auto investitrice; dunque le particolari condizioni soggettive del medesimo sarebbero state irrilevanti e sarebbe pertanto esclusa la causalità della colpa, Come noto, la c.d. causalità della colpa, si riferisce alla relazione esistente tra la specifica regola cautelare e l'evento. Si parla di causalità della colpa in relazione a quel nesso che deve sussistere tra la violazione del dovere oggettivo di diligenza e l'evento concretamente verificatosi, affinché detto evento possa essere imputato a colpa del soggetto. Secondo i più attenti contributi della dottrina, seguita sul punto da questa Corte, perché possa farsi luogo all'imputazione colposa è necessario non solo l'accertamento del nesso di causalità materiale tra la condotta e l'evento, ma che la condotta colposa sia violazione di una regola cautelare avente come specifica finalità quella di evitare eventi del tipo di quelli verificatisi; infatti, sul terreno della responsabilità colposa, l'evento rappresenta proprio quella concretizzazione del rischio che la norma precauzionale di condotta violata tende a prevenire, e dunque I'evento lesivo cagionato deve appartenere al tipo di quelli che la norma di condotta mirava a prevenire. Nella specie I'osservazione formulata non coglie nel segno dal momento che le condizioni soggettive del lavoratore non possono ritenersi irrilevanti una volta che ampia discrezionalità era lasciata al medesimo circa il comportamento da adottare nella singola situazione data, in particolare nella scelta se, come e quando scendere dal camion. Senza considerare la sussistenza comunque di altri profili di colpa che prescindevano dalla situazione soggettiva dell'infortunato. Deve ancora esaminarsi l'eccezione relativa alla pretesa interruzione del nesso di causalità per effetto della condotta colposa dell'automobilista. Al riguardo occorre ricordare che, secondo il chiaro dettato normativo (art. 41, commi 2 e 3, c.p.), il concorso di cause preesistenti, concomitanti ed anche sopravvenute non esclude il nesso di causalità, salvo l'efficacia interruttiva della causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento; è principio pacificamente espresso da questa Corte che sono da considerarsi `cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento', secondo la previsione dell'art. 41, comma 2, c.p., soltanto quelle del tutto indipendenti dal fatto del reo, avulse dalla sua condotta e operanti in assoluta autonomia; non costituisce invece causa sopravvenuta quella che sia legata alla causa preesistente e si trovi con essa in una situazione di interdipendenza; in particolare con riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro si è fatto riferimento, specie per quanto riguarda il c.d. comportamento abnorme dello stesso lavoratore infortunato, alla nozione di area di rischio nel senso che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità per esclusione dell'imputazione oggettiva dell'evento solo quando il comportamento del lavoratore e le conseguenze che ne discendono presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive organizzative ricevute; in tali situazioni estreme, si è completamente al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso; e quindi oltre la pur estesa sfera di responsabilità del datore di lavoro. Invece, quando si è comunque all'interno dell'area di rischio nella quale si colloca l'obbligo del datore di lavoro di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore, non è possibile ipotizzare l'esonero da responsabilità. Analoghe considerazioni valgono per la presente situazione; l'incidente in questione si è verificato nell'ambito di un cantiere mobile addetto alla manutenzione stradale che operava su una autostrada; rientrava nell'area di rischio di tale cantiere la possibilità di investimento dei lavoratori da parte di un automobilista distratto o disattento che fosse, ed anzi si trattava di rischio tipico dell'attività svolta tanto che erano previste apposite attività di segnalazione a tutela dell'incolumità sia degli automobilisti che dei lavoratori del cantiere; il segnalatore era il soggetto maggiormente a rischio di investimento da parte degli automobilisti, rischio assolutamente conosciuto e che andava protetto con opportune cautele nella specie del tutto insussistenti. Il capo cantiere è tenuto a valutare la concreta idoneità del lavoratore alle mansioni cui destina i singoli lavoratori e nella specie il direttore di cantiere avrebbe dovuto ricordarsi che le mansioni dell'infortunato, per cui era stato espresso un giudizio di compatibilità con un rischio medio, erano quelle di pulizia in autogrill; laddove quelle in concreto assegnate, da esercitarsi sulla strada e in situazione di massima pericolosità, non erano compatibili con le capacità della vittima''.

    Un autista dipendente era stato dal datore di lavoro «comandato al trasporto di materiali mediante un semirimorchio, e nel percorrere una strada con numerose curve, in un tratto in discesa, il veicolo aveva preso velocità senza che il conducente potesse frenarlo in modo adeguato a causa di un difetto dell'impianto frenante, di talché il mezzo aveva finito per ribaltarsi cadendo da un ponte». Nel confermare la condanna del datore di lavoro, la Sez. IV osserva: «Il ruolo di datore di lavoro ricoperto dall'imputato gli imponeva di fornire al proprio lavoratore attrezzature da lavoro (qual è certamente il veicolo per il suo conducente) in condizioni di efficienza e comunque tali da far si che esse non costituissero pericolo per la salute e la sicurezza dei lavoratori (art. 71, D.Lgs. n. 81/2008). «Si trattava di sottoporre i mezzi a controlli periodici in grado di identificare guasti o riduzioni di efficienza dovute ad eventi occasionali, cedimenti o usura. Il perito ha rilevato un difetto dell'impianto frenante dovuto ad usura, i controlli che pacificamente risultano eseguiti sul semirimorchio denunciano chiaramente la propria inadeguatezza. Privo di rilievo è il fatto che l'imputato avesse appreso o meno di problemi ai freni il giorno prima dell'accaduto, poiché la perdita di efficienza del sistema frenante si è prodotta nel tempo. Il comportamento del lavoratore, consistito nel porsi alla guida nonostante lo stato del semirimorchio e nell'aver mantenuto una velocità non adeguata a quello, non costituisce fattore in grado di interrompere il nesso di causalità tra la condotta antidoverosa mantenuta dall'imputato e l'evento verificatosi. L'imputato si rese responsabile del sinistro occorso al dipendente perché non esegui o fece eseguire adeguate verifiche dell'impianto frenante del semirimorchio, non impartì ai lavoratori le necessarie istruzioni affinché essi potessero avvedersi tempestivamente dell'eventuale persistente avaria ovvero non proibì che in presenza di queste essi si mettessero comunque alla guida».

    Il legale rappresentante di una s.r.l. fu dichiarato colpevole del reato di omicidio colposo in danno di un dipendente e di altre due persone. Il dipendente aveva ricevuto dall'imputato l'ordine di recarsi all'aeroporto di Roma Fiumicino a prelevare dei clienti per accompagnarli allo stabilimento. Nella via del ritorno, mentre percorreva l'autostrada A 1, a seguito del distacco del battistrada, il conducente perdeva il controllo dell'autovettura che, dopo aver fatto alcuni giri su se stessa, andava a conficcarsi nella parte posteriore destra di un autocarro fermo, in quanto guasto, sulla adiacente piazzola di sosta. Nell'incidente decedevano sia il dipendente che le due persone che egli aveva prelevato all'aeroporto. L'addebito mosso al datore di lavoro fu quello di «aver affidato al dipendente un'autovettura senza prima verificare l'efficienza ed in particolare lo stato degli pneumatici e non rilevando cosi che quello montato sulla ruota posteriore sinistra era diverso dagli altri, era usato e di vecchia data (come dimostrato dal fatto che era fuori produzione da anni), circostanze che avevano determinato o contribuito a determinare il distacco del battistrada e dunque a causare l'incidente». Nel ricorrere per cassazione, l'imputato lamenta che non si era «tenuto presente che l'art. 79 del codice della strada impone al conducente di un'auto di assicurarsi personalmente della efficienza e funzionalità del mezzo che si accinge a guidare e che inoltre è stata accertato che il dipendente viaggiava a velocità superiore a quella consentita onde anche sotto questo profilo doveva ritenersi che l'incidente fosse avvenuto per colpa esclusiva del medesimo». La Sez. IV non è d'accordo. Rileva che «il dipendente con funzioni di impiegato-disegnatore aveva ricevuto dall'imputato l'ordine di recarsi all'aeroporto con l'autovettura Fiat Marea fornita dal datore di lavoro per prelevare dei clienti»; che «si trattava di un compito assolutamente non rientrante nelle sue mansioni di lavoro»; che «nel percorrere un tratto autostradale interessato da lavori che avevano comportato il convogliamento di tutto il traffico nella sola semicarreggiata con direzione sud percorsa dalla Fiat Marea, a causa del distacco del battistrada del pneumatico posteriore sinistro della vettura, il conducente perdeva il controllo dell'auto con le conseguenze sopra precisate»; che «il pneumatico in questione era diverso per marca e tipo dagli altri tre montati sulla vettura, era sicuramente assai vecchio (del 1992 e forse addirittura del 1982) e pertanto inefficiente per la sua vetustà (che ne cagionava la cristallizzazione e l'indurimento)», e che «proprio questa era stata la causa principale dello scollamento del battistrada; che un eventuale sottogonfiaggio, peraltro non accertato, non sarebbe stato rilevante e che visivamente il pneumatico non presentava segni di usura»; che «la velocità tenuta dal dipendente al momento dell'incidente, stimata tra i 95 e 110 km/h, non aveva avuto efficacia determinante sullo scollamento del battistrada e neppure sulle conseguenze dell'incidente che sarebbero state le stesse anche se l'auto avesse rispettato il limite degli 80 km/h in quel breve tratto imposto unicamente in relazione alla presenza di lavori in corso sull'altra carreggiata». Aggiunge che il dipendente «non poteva sottrarsi all'ordine impartitogli dal proprio datore di lavoro e che, essendosi l'incidente verificato nello svolgimento di attività lavorativa, trovavano applicazione le disposizioni volte a tutelare la sicurezza dei lavoratori ed in particolare l'art. 35, D.Lgs. n. 626/1994, contestato all'imputato, che impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate al lavoro da svolgere e idonee dal punto di vista della sicurezza». Ne ricava che «era compito del datore di lavoro assicurarsi dell'adeguatezza del veicolo affidato al dipendente, anche sotto il profilo della corretta manutenzione di tutti i suoi componenti, pneumatici compresi, compito che nella specie era stato violato, avendo l'imputato affidato al dipendente un veicolo che non era affatto in regola e che, proprio per il difetto del pneumatico sinistro, aveva avuto l'incidente». Conclude che «correttamente è stata ritenuta la responsabilità dell'imputato in base alle disposizioni che tutelano la sicurezza sul lavoro, atteso che l'incidente si è verificato proprio nell'espletamento di un attività che era stata direttamente commissionata al dipendente dal datore di lavoro e per un difetto del mezzo che costui aveva messo a disposizione del primo». Nega la possibilità di invocare «la concorrente responsabilità del dipendente ex art. 79 c.d.s. sotto il profilo che il medesimo, in quanto conducente di un veicolo, avrebbe dovuto controllarne la efficienza prima di mettersi alla guida dello stesso», in quanto «l'inosservanza dell'obbligo in questione, certamente esistente a carico del conducente, può portare alla affermazione della responsabilità del medesimo quando gli sia addebitale un rimprovero di negligenza, come nel caso che egli non accerti difetti palesi o comunque riscontrabili mediante la normale diligenza, come certamente non era nel caso di specie atteso che si è escluso che il pneumatico presentasse segni visibili di consunzione e che né la vetustà dello stesso né il fatto che lo stesso fosse diverso dagli altri montati sulla vettura (le due circostanze di fatto che sono state ritenute determinanti ai fini del distacco del battistrada) erano circostanze percepibili da colui che si stava per porre alla guida del mezzo medesimo».

    (Sull'infortunio mortale a un bracciante agricolo ``investito da una motrice al cui traino era collegata una macchina operatrice per la tranciatura e miscelazione delle balle di foraggio lasciata in sosta nel piazzale adiacente il capannone dell'azienda agricola adibita allo stoccaggio del foraggio in un tratto in pendenza a causa dell'usura pronunciata dei denti del dispositivo di bloccaggio della leva di azionamento del freno di stazionamento della motrice, che determinava lo sganciamento e il disinserimento del freno di stazionamento, con conseguente avvio del complesso agricolo verso la scarpata, agevolato dalla pendenza dei luoghi'' v. Cass. 21 luglio 2021, n. 28170, che per prescrizione del reato di omicidio colposo annulla la condanna del datore di lavoro con rinvio al giudice civile per l'individuazione dei ``casi, che rappresentano l'eccezione alla regola, nei quali appare necessario ed opportuno l'utilizzo del cambio a scopi di frenatura ex art. 353, comma 2, Reg.c.s.'').

    a) I principi ispiratori.

    Di notte, lungo una strada provinciale, il conducente di un'autovettura, giunto in prossimità di una curva sinistrorsa posta al termine di un rettilineo di duecento metri, in mancanza di idonea segnaletica stradale e di illuminazione, non si avvede della conformazione della strada e prosegue la marcia senza svoltare, precipitando nella scarpata sottostante. Nel confermare la condanna sia del dirigente del settore viabilità della Provincia responsabile unico del procedimento, sia del responsabile gestione della zona, la Sez. IV evoca i criteri-guida in argomento. Anzitutto, ``se è vero che, nel ricostruire il nesso causale, il giudice deve porsi il tema dell'eventuale sussistenza di fattori causali alternativi, è anche vero che tali fattori non possono assumere rilievo quando - come nel caso di specie - siano prospettati in termini generici o di mera possibilità''. Inoltre, ``in tema di responsabilità per colpa, sussiste in capo all'Ente proprietario di una strada destinata ad uso pubblico una posizione di garanzia da cui deriva l'obbligo di vigilare affinché quell'uso si svolga senza pericolo per gli utenti'', e ``tale obbligo permane anche in caso di concessione di appalto per l'esecuzione di lavori di manutenzione stradale''. Sicché, ``per affermare una tale responsabilità colposa, non occorre che l'agente abbia conoscenza della situazione di pericolo e della regola cautelare da adottare, essendo sufficiente la loro conoscibilità, e rilevando l'ignoranza incolpevole soltanto della prima, in quanto l'errore sulla regola cautelare non integra errore sul fatto''. (Per un'ampia analisi delle posizioni di garanzia a tutela della sicurezza delle persone e dei veicoli che si trovino a transitare lungo la strada v. Cass. 10 marzo 2023 n. 10105. Circa la responsabilità del dirigente del settore opere pubbliche di un comune ``con potere di svolgere, in via autonoma, lavori di manutenzione ordinaria, ma anche straordinaria in via di urgenza'' Cass. 17 giugno 2022 n. 23661).

    Per la morte di un minore intento a percorrere in bicicletta una strada in discesa e proiettato in un sottostante precipizio in seguito allo scontro con un muretto perimetrale alto 25 cm, furono condannati ``i contitolari del diritto di superficie su un'area rientrante nel perimetro di un Comune, sulla quale sono stati edificati fabbricati da una cooperativa edilizia di cui gli imputati sono soci'', area sulla quale ``esiste una strada privata in forte pendenza, prospiciente ad un burrone che conduce agli immobili della cooperativa''. Addebito: ``avere omesso di predisporre rimedi necessari a rendere sicura la circolazione, erigendo una barriera atta a prevenire efficacemente il pericolo, poi concretizzatosi, che un utente della strada potesse precipitare nel contiguo strapiombo''; ``la fonte dell'obbligo, gravante sugli imputati, di manutenere la strada e renderla sicura deriva sia dalla contitolarità del diritto di superficie sulla strada, promanante dalla convenzione stipulata con il Comune, sia dalla previsione di cui all'art. 14 c.s., il quale prevede, per le strade in concessione, che i poteri e i compiti dell'ente proprietario siano esercitati dal concessionario''.

    Il conducente di un'autovettura, mentre percorreva una strada provinciale, perdeva il controllo del mezzo e fuoriusciva dalla sede stradale, terminando la corsa in un canale di bonifica e decedendo al pari di un passeggero. Per omicidio colposo furono condannati in primo grado, ma assolti in appello, il direttore dei lavori della provincia, il titolare di una ditta appaltatrice di lavori e l'ingegnere dirigente della provincia, accusati di ``aver rimosso e comunque consentito la rimozione della segnaletica di divieto di accesso di cui a un'ordinanza del presidente della provincia, sostituendola con quella `in caso di allagamento chiusa al traffico' e avendo omesso di predisporre il guard-rail nel punto in cui la strada intersecava un canale di bonifica''. Nell'annullare con rinvio l'assoluzione, la Sez. IV, in particolare, insegna: ``La corte di appello ha escluso che la collocazione del guardrail nel tratto di strada in considerazione fosse obbligatoria, alla stregua delle previsioni dell'art. 3 D.M. 223/1992. Orbene, la norma evocata prevede quali contenuti debba avere la progettazione delle strade pubbliche, in modo che essa contempli i tipi di barriera di sicurezza da adottare. È quindi errato richiamare una simile previsione come fonte dell'obbligo dell'ente proprietario di mantenere in efficienza le strade; obbligo che deriva dall'art. 14 c.s., a mente del quale `gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze'. L'esistenza di una fonte di pericolo impone di per sé l'intervento volto a eliminare quest'ultimo o, ove non possibile una soluzione radicale, almeno a ridurlo, senza alcun rilievo del carattere occulto o meno di tale pericolo, ferma restando l'ipotizzabilità di un concorso dell'utente della strada ove tenga una condotta colposa causalmente efficiente''.

    La conducente di un'autovettura, nel percorrere una via ad una velocità superiore al limite stabilito (50 Km/h) e in stato di alterazione psicofisica dovuta all'assunzione di sostanza stupefacente e metadone, in un tratto curvilineo usciva di strada e si ribaltava. La Sez. IV conferma la condanna per omicidio colposo del dirigente responsabile della manutenzione stradale del comune, ``per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza dell'art. 14 c.s. (che prevede l'obbligo per il gestore stradale di garantire la sicurezza della circolazione)'', e, in ispecie, per ``avere omesso di apporre idonea ed efficiente barriera di protezione sul margine destro della carreggiata di una via, nel tratto di strada con andamento curvilineo volgente a sinistra in prossimità del ponticello di attraversamento di un fosso'', tanto che ``la curva in cui era avvenuta la fuoriuscita della vettura presentava, al momento del fatto, un guardrail abbattuto e riverso sul terreno da epoca risalente, e tale situazione di pericolosità era già stata segnalata dal comune, tanto che era stato sollecitato un intervento di adeguamento urgente per la messa in sicurezza e predisposto un progetto''. La Sez. IV conferma la condanna: ``l'incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte conseguita al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto, ferma restando la concorrente responsabilità dell'utente della strada, ove tenga una condotta colposa causalmente efficiente''.

    ``In tema di lesioni personali stradali gravi o gravissime, commesse in data anteriore all'entrata in vigore dell'art. 590-bis c.p., introdotto dalla L. 24 marzo 2016 n. 41, non trova applicazione il nuovo regime di procedibilità d'ufficio, ma quello più favorevole della procedibilità a querela, vigente al momento del fatto''.

    La Sez. IV conferma l'assoluzione del responsabile lavori pubblici di un comune imputato di omicidio colposo in danno di un pedone, addebitato ``per colpa consistita nell'omettere di effettuare lavori di manutenzione e sorveglianza delle strade di proprietà dell'ente locale, non provvedendo all'eliminazione dei rischi causati dal cattivo stato del manto stradale'', e così generando ``una situazione di pericolo concreto per i pedoni'': ``In materia di responsabilità penale l'esistenza di una fonte di pericolo prescinde dalla natura insidiosa e occulta perché impone di per sé l'intervento volto a eliminarlo o a ridurlo e la responsabilità va valutata secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto. Tuttavia, l'applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsiasi automatico addebito di responsabilità a carico di chi ricopre la posizione di garanzia imponendo la verifica del contenuto ed ampiezza della regola cautelare (generica o specifica), della concreta violazione della stessa e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. `concretizzazione' del rischio). Nella specie, manca un quadro probatorio idoneo per pervenire a una pronuncia di condanna. Ciò sia per l'incertezza del determinismo causale, sia per l'assenza di una situazione di rischio per la generalità degli utenti e comunque tale da essere prevedibile e tale da essere facilmente evitabile, così da giustificare una condotta appropriata alternativa e virtuosa, escludendo la violazione della regola cautelare a cui era preposto l'imputato e, in ogni caso, ravvisando una condotta altamente imprudente della vittima idonea a recidere qualsiasi collegamento con altre concause. Trattandosi, infatti, di una posizione di garanzia, quella dell'imputato, derivata dalla gestione della cosa pubblica, con i limiti legati alle disponibilità di spesa, il rischio quale quello concretizzatosi, annullabile solo con un continuo intervento di manutenzione ordinaria che eviti qualsiasi anomalia della strada, appare esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare''.

    Un'autovettura precipita in un torrente che costeggia la strada. Il conducente e due trasportati annegano. Il piano stradale e un muro di contenimento erano franati in occasione di piogge alluvionali. Due gli imputati di omicidio colposo: il capo area dell'ufficio tecnico comunale responsabile del servizio manutenzione delle strade; il comandante della polizia municipale per non aver curato che la chiusura al transito della via avvenisse con transennature fisse e idonei cartelli di segnalazione luminosa, anche notturna. Nel confermare la condanna, la Cassazione si basa su due principi ispiratori della giurisprudenza in tema di obblighi e responsabilità penali nel settore della sicurezza stradale. Primo principio: ``il rispetto delle norme cautelari che regolano la sicurezza stradale non è esigibile esclusivamente dagli utenti della strada alla guida di veicoli, dunque in fase di circolazione, ma anche da coloro che svolgano attività diverse, come la manutenzione stradale, o l'organizzazione della circolazione e della segnaletica stradale in linea con i principi dettati dagli artt. 35-45 c.s.''. Un principio da osservare anche con riguardo alle fattispecie di omicidio e di lesioni personali stradali attualmente previste nei rispettivi commi 1 dagli artt. 589-bis e 590-bis c.p. Secondo principio: ``il verificarsi di peculiari condizioni di pericolo impone l'adozione (al Comune, ove si tratti di rete stradale urbana: cfr. art. 37 c.s.) di apposite misure, ad esempio segnaletiche, anche in caso di eventi atmosferici (si veda ad esempio quanto prescritto dall'art. 77, comma 4, Reg. al c.s. in ordine all'adozione di segnali verticali ``al fine di preavvisare i conducenti delle reali condizioni della strada per quanto concerne situazioni della circolazione, meteorologiche o altre indicazioni di interesse dell'utente''). Dunque -come dice Cass. 29 febbraio 2018 n. 9161- ``necessità di una tutela rafforzata del bene della sicurezza della circolazione stradale in occasione di eventi naturali idonei a comprometterlo''. (V., altresì, Cass. 20 aprile 2020, n. 12442).

    b) La colpa dei preposti alla sicurezza stradale.

    Per quel che concerne la colpa dei preposti alla sicurezza stradale, la Suprema Corte sottolinea, anzitutto, che può rilevare non solo la colpa specifica, ma anche la sola colpa generica:

    La Sez. IV conferma la condanna del dirigente dell'ufficio tecnico lavori pubblici del comune, perché un automobilista si immetteva in un sottopasso mentre era in corso una forte precipitazione atmosferica e veniva sommerso dall'acqua. Colpa: ``negligenza, imprudenza, imperizia, non la violazione di una disposizione specifica'': ``è certamente ipotizzabile la sussistenza di profili di colpa generica anche in relazione a condotte omissive per violazione di regole cautelari non scritte: la relativa valutazione deve discendere da un processo ricognitivo che individui i tratti tipici dell'evento, per poi procedere formulando l'interrogativo se questo fosse prevedibile ed evitabile ex ante, con il rispetto della regola cautelare in oggetto, alla luce delle conoscenze tecnico - scientifiche e delle massime di esperienza''.

    Non meno basilare è un ulteriore insegnamento, altamente innovativo rispetto al passato:

    ``L'incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte conseguita al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto, ferma restando la concorrente responsabilità dell'utente della strada, ove tenga una condotta colposa causalmente efficiente''.

    ``Il Collegio è consapevole di un orientamento che opina nel senso per cui, qualora una situazione di pericolo sia conoscibile e superabile adottando una normale diligenza, la causazione di un eventuale infortunio non può che far capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza imposta. Secondo tale orientamento l'obbligo di eliminare la fonte di pericolo su una pubblica via o di apprestare adeguate protezioni, ripari, cautele ed opportune segnalazioni sorge nel momento in cui la strada presenti situazioni tali da costituire un'insidia o un trabocchetto per gli utenti, sicché venga a costituire una fonte di pericolo inevitabile con l'uso della normale diligenza. Il sancito principio tuttavia mira ad armonizzare l'esigenza della garanzia di sicurezza, con la impossibilità di esigere sempre e comunque l'adempimento di oneri per la P.A. difficili da realizzare in ragione dell'ampiezza della cura del territorio affidatole, limitando pertanto l'adempimento ai soli casi in cui la fonte di pericolo non sia percepibile con la normale diligenza. Se si va a guardare, dunque la ratio di tali affermazioni, ci si rende conto che situazioni come quella che ci occupa, in cui vi è uno specifico e circoscritto obbligo sancito per un determinato tratto viario e fatto oggetto di una convenzione tra P.A. e privato, portano ad una diversa conclusione. Il Collegio, pertanto, tenendo conto della specificità del caso concreto, ritiene di aderire a quel diverso filone giurisprudenziale, che ha affermato che, nel caso in cui un incidente stradale sia stato causato dalla insufficiente od omessa manutenzione della sede viaria da parte dell'ente pubblico a ciò preposto, il soggetto incaricato del relativo servizio risponde penalmente delle lesioni colpose conseguite al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto. Successivamente, nel solco di tali pronunce si è ribadito che l'incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte conseguita al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto. E, ancora di recente, si è condivisibilmente affermato che l'incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte conseguita al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa e non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto, ferma restando la concorrente responsabilità dell'utente della strada, ove tenga una condotta colposa causalmente efficiente (così questa Sez. IV, 22 gennaio 2017 n. 3290, nel giudicare una fattispecie relativa ad ipotesi di omicidio colposo contestato al dirigente comunale responsabile della manutenzione del tratto di strada in cui era avvenuto l'incidente, per non aver provveduto al ripristino del guardrail divelto da tempo, la Corte ha annullato la sentenza di assoluzione che - senza accertare la pericolosità del tratto di strada, né l'idoneità della barriera di protezione a fronteggiare la situazione di pericolo eventualmente riscontrata - si era limitata ad affermare il carattere non obbligatorio del ripristino del guardrail e, comunque, la possibilità che l'omissione fosse dipesa da valutazioni discrezionali). Del resto, secondo numerose pronunzie delle Sezioni Civili di questa Corte che si riconoscono in tale orientamento, la tutela aquiliana deve trovare piena attuazione secondo i criteri applicabili ordinariamente''.

    Né la condotta colposa dell'utente vale ad escludere la responsabilità del preposto alla sicurezza stradale, ove non si tratti di condotta atipica, non prevista né prevedibile, assolutamente anomala ed eccezionale (così, per tutte, Cass, 26 giugno 2018 n. 29302). Significativa:

    Un motociclista percorre una strada urbana e cade dentro una buca. Imputati di omicidio colposo il dirigente del settore manutenzione e ambiente e il responsabile del procedimento per l'istruttoria dei tagli stradali del comune, per ``non avere adottato i provvedimenti opportuni idonei sia a segnalare il pericolo sia ad impedire il transito nel tratto di strada sul quale insisteva la buca fino alla rimozione del pericolo, nonostante la situazione fosse stata più volte segnalata per iscritto all'amministrazione comunale anche da parte della stessa polizia municipale''. ``Le condizioni alterate della vittima, che si era posto alla guida dopo avere assunto alcool in eccesso (è stata, infatti, rilevata concentrazione serica di etanolo pari a 168 mg /dl), sicché risultava ridotto il livello di coscienza e di vigilanza, e la velocità tenuta dal mezzo, risultata superiore di 30 km al consentito, hanno comportato il riconoscimento di una percentuale di concorso del deceduto nella misura del 50 %''. (Sul punto v. anche Cass. 7 marzo 2018 n. 10370. Nel senso che “anche la insufficienza visiva degli utenti della strada deve ritenersi fatto prevedibile e fattore di rischio al quale è necessario sopperire attraverso l'apposizione di apposita segnaletica” Cass. 13 gennaio 2022 n. 842).

    Illuminante in ogni caso è l'analisi svolta da:

    La Sez. Fer. conferma la condanna del dirigente dell'area gestione del territorio nel quale è compreso il settore ``verde pubblico e arredo urbano'' di un comune, perché, ``omettendo di prevenire il pericolo di caduta manifestato, nel periodo anteriore e prossimo all'evento, dalla forte inclinazione, dal palese degrado e dalla presenza di evidenti segni di instabilità, omettendo di predisporre attività di prevenzione, quali l'abbattimento, il contenimento, l'equilibratura o il risanamento di un albero di pioppo bianco, situato su un'aiuola di esigue dimensioni a ridosso della pista ciclabile ove transitava il conducente di una bicicletta, non prevedendone e non impedendo lo schianto, così venendo travolto dall'albero'': ``un controllo, in capo all'ente sulla stabilità delle potature, per prassi, veniva espletato solo attraverso interventi sollecitati da singole segnalazioni di pericolo, dunque, senza una più ampia e lungimirante programmazione di interventi preventivi, con efficacia impeditiva di eventi dannosi''.

    Il caso riguarda un presunto sistematico difetto di manutenzione dei sostegni di pubblica illuminazione in più aree di una grande città. Con la conseguenza, in particolare, che la conducente di un ciclomotore fu mortalmente colpita da un impianto abbattutosi sulla sede stradale. Imputati il dirigente del servizio stradale e pubblica illuminazione del comune, nonché i responsabili della società appaltatrice del servizio di gestione e manutenzione degli IPI. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna: ``Non può certo ritenersi incolpevole o frutto di caso fortuito che una giovane donna perda la vita mentre rientra a casa a bordo del proprio ciclomotore, percorrendo il lungomare della propria città, perché un palo della pubblica illuminazione, logorato dall'usura, la colpisce mortalmente, prima di schiantarsi al suolo. Non può certo essere `colpa' del palo, nell'immaginario e nelle cronache descritto come il `palo killer'. Tuttavia perché la colpa di una cattiva manutenzione della cosa pubblica si trasformi in responsabilità penale del singolo occorre passare attraverso delle valutazioni che questa Corte di legittimità, da svariati decenni, ha sempre più cercato di puntualizzare. E quella di partenza vuole che si individui in maniera chiara, trasfondendola con altrettanta chiarezza in un'imputazione che consenta all'interessato di dispiegare appieno il proprio diritto di difendersi, chi rivestisse la posizione di garanzia che, in tema di reati omissivi colposi, può essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, ma che deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro. Tale posizione di garanzia opera purché l'agente assuma in concreto la gestione dei rischi connessi all'attività assunta, non estendendosi oltre la sua sfera di governo degli stessi. E al riguardo, soprattutto in tema di manutenzione delle strade, tra le fonti dell'obbligo di garanzia, tali da potere fondare la responsabilità omissiva ex art. 40, comma 2, c.p., rientrano - oltre che le norme di legge - anche le fonti convenzionali, tra le quali è certamente da ricomprendere un contratto tipico, come quello di appalto''.

    c) Le responsabilità delle società autostradali

    Nel confermare la condanna per il delitto di cui all'art. 449 c.p. in rapporto a una frana che aveva interessato un tratto autostradale, la Sez. IV insegna: ``In riferimento al delitto di `frana colposa', il giudizio di prevedibilità dell'evento deve essere svolto in relazione ai fattori che rendono possibile la verificazione della frana, cioè un evento di danno alle cose che presenti contenuti tali da porre in pericolo l'incolumità pubblica, e non con riferimento ai danni che dalla frana possono conseguire''. ``Sotto l'aspetto dell'elemento soggettivo, il delitto ex art. 449 c.p. si caratterizza per la non volontarietà e per la sua prevedibilità, giudizio quest'ultimo richiesto per la configurazione della colpa, per cui va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dalla sua condotta, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad adottare più sicure regole di prevenzione; in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale sì è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione. Occorre poi l'evitabilità dell'evento e l'elemento soggettivo segue le regole generali della colpa, per cui occorre un comportamento contrario alle norme di perizia, prudenza e diligenza cui debbono conformarsi le azioni umane, o dalla violazione di specifiche prescrizioni di leggi, regolamenti, ordini e discipline''. Quanto alle specifiche posizioni di garanzia, la Sez. IV osserva: ``Tutti, nelle rispettive qualità, avevano il dovere di monitorare lo stato di conservazione della rete autostradale e di intervenire per mantenerla nella massima efficienza. Captando i numerosi segnali che provenivano dagli addetti alla viabilità e alla manutenzione e tenendo nella debita considerazione l'anomala frequenza degli interventi di ripristino operati in quel sito, di cui restava traccia negli archivi della società e di facile accesso ai suoi massimi dirigenti''. (Per un'ipotesi di frana autostradale con una lucida analisi delle posizioni di garanzia v. Cass. 18 marzo 2022 n. 9252).

    Il direttore tecnico e di esercizio e il responsabile del settore tecnico di un consorzio autostrade furono assolti dall'omicidio colposo in danno di una automobilista precipitata in un burrone lungo un tratto autostradale. L'addebito di colpa era quello di ``avere omesso di eseguire le necessarie verifiche in ordine alla presenza e alle caratteristiche delle barriere di protezione laterale in corrispondenza di uno svincolo sul tratto dell'autostrada ove si verificava l'incidente''. La Sez. IV annulla con rinvio l'assoluzione: ``Risulta apodittica l'asserzione in base alla quale i due imputati, nelle rispettive qualità, non fossero tenuti a eseguire le opportune verifiche circa l'idoneità delle protezioni presenti in corrispondenza dello svincolo ove avvenne il sinistro: benché infatti non trovasse applicazione il D.M. n. 223/1992, nondimeno le circolari e direttive ministeriali invitavano gli enti proprietari a procedere a un adeguamento alle prescrizioni ivi contenute. Ed inoltre, se è vero che sulla rampa dello svincolo vigeva il limite di velocità di 40 kmh, non era certo imprevedibile che le vetture in transito - ivi comprese quelle impegnate nella fase di imbocco dello svincolo - tenessero una velocità sensibilmente più elevata, considerato che nel tratto autostradale di provenienza vigeva il limite dei 130 kmh. La normativa e le circolari richiamate rendevano del resto evidente che, proprio in corrispondenza degli svincoli autostradali, si ponessero già all'epoca dei fatti particolari esigenze di sicurezza e di protezione degli automezzi in transito, proprio in ragione delle particolari condizioni di guida in velocità che caratterizzano le autostrade: il che tra l'altro rende ancor più evidenti l'inidoneità, l'apoditticità e l'insufficienza del richiamo statistico all'assenza di incidenti nel decennio per ricavarne la non pericolosità del tratto autostradale ove avvenne il sinistro''.

    d) Lavori stradali appaltati

    Su una strada statale, un'autovettura tampona un autocarro fermo sulla corsia di emergenza per lo svolgimento da parte dei cantonieri di un'operazione di manutenzione della segnaletica stradale verticale. La Sez. IV conferma l'assoluzione perché il fatto non sussiste dal reato di cui all'art. 589, comma 2, c.p. del capo squadra e del titolare della ditta esecutrice dei lavori: ``Tutte le circostanze del caso concreto portavano a ritenere che la vittima avesse deviato dalla sua traiettoria di marcia perché non aveva tenuto lo sguardo rivolto alla strada, ovvero perché avere accusato un malore o un colpo di sonno: la corretta segnalazione dei lavori di apposizione della striscia orizzontale che delimitava la corsia di emergenza; la visibilità del mezzo alla distanza di 150 metri per chi avesse proceduto ad andatura normale; la presenza sul mezzo di dispositivi luminosi accesi ed evidenti; l'assenza di tracce di frenata sull'asfalto; la circostanza per cui il conducente dell'autovettura era un guidatore esperto e tutti i giorni per recarsi al lavoro e rientrare a casa percorreva quel tratto di strada''.

    Condanna di un appaltatore di lavori stradali affidati dal comune ``per avere colposamente cagionato il decesso del conducente di un veicolo, avendo l'imputato lasciato sul margine della carreggiata - dopo avere effettuato lavori di ripristino del fondo stradale - un cumulo di ghiaia, contro il quale era andato ad urtare il veicolo condotto dal deceduto, il quale aveva così perso il controllo del mezzo, invadendo la corsia opposta e andando a collidere con una trattrice agricola''. La Sez. IV osserva: ``La corte territoriale, nell'addebito di responsabilità, ha essenzialmente considerato il pericolo rappresentato dalla presenza di un ostacolo appena oltre il margine della carreggiata, e ciò indipendentemente dal concetto di `insidia', termine nel caso evidentemente utilizzato in senso atecnico, per indicare una situazione di pericolo che ha, di fatto, causalmente contribuito a determinare l'evento mortale. Il cumulo era sicuramente ben visibile, ma non avrebbe dovuto trovarsi a margine della strada, in una posizione potenzialmente pericolosa per i veicoli in transito (in caso di perdita di controllo del mezzo da parte del conducente, come avvenuto nel caso di specie)''. A sua volta, Cass. 19 gennaio 2022 n. 2150 osserva che “la velocità serbata dalla vittima, la quale confidava nella normale percorribilità della strada, non poteva ritenersi atipica o abnorme”, e conferma la condanna del responsabile di un cantiere nel corso di lavori di rimozione e rifacimento del manto stradale.

    Gli amministratori e direttori tecnici di una s.r.l. appaltatrice di lavori di manutenzione ordinaria di asfaltatura ``omettevano di effettuare, in relazione a un cantiere stradale temporaneo e mobile, una idonea e completa valutazione del rischio, al fine di individuare le misure di recinzione e di segnalazione del cantiere a tutela del pedoni e le procedure di dettaglio per eseguire le lavorazioni in massima sicurezza'', e ``consentivano a un lavoratore di operare alla guida di un autocarro all'interno di un cantiere privo di recinzione e di adeguata segnalazione ai fini della tutela dei pedoni e di effettuare tali manovre in assenza di assistenza diretta da terra da parte di altro operatore, cagionando così la morte di un pedone, il quale, transitando sul lato destro della carreggiata, veniva investito dall'autocarro durante una imprudente manovra di retromarcia, con conseguente decesso''. La Sez. IV conferma la condanna: ``Il cantiere non era recintato in modo da impedire l'accesso a terzi estranei, poiché a delimitare l'area rispetto alla sede stradale transitabile vi erano esclusivamente dei coni di 15 cm di altezza, posizionati a terra, nonché dei segnali di divieto di sosta collegati tra loro con dei nastri di plastica. Questo tipo di delimitazione non era dunque idoneo ad impedire l'accesso al cantiere agli estranei ai lavori, ben prevedibile ove si consideri che il cantiere era collocato a ridosso dei cassonetti delle immondizie, che erano stati lasciati accessibili alla normale fruizione dei cittadini. Ciò significa che il rischio di accesso pedonale non era stato valutato e che i pedoni non erano stati considerati quali soggetti esposti ai rischi connessi alle lavorazioni. Ove, infatti, il cantiere fosse stato recintato o comunque ove l'accesso ai cassonetti fosse stato tutelato tramite un presidio di sicurezza, l'investimento non si sarebbe verificato. Il titolare della posizione di garanzia ha l'obbligo di garantire la sicurezza del luogo di lavoro non solo per i lavoratori subordinati o per i soggetti equiparati a questi ultimi ma altresì per tutti coloro che possano comunque trovarsi nell'area del cantiere. Soggetto beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all'organizzazione dei lavori sicché dell'infortunio che sia occorso a quest'ultimo risponde il garante della sicurezza, sempre che l'infortunio rientri nell'area di rischio definita dalla regola cautelare violata. Pertanto è irrilevante che il delitto si sia consumato in danno di un soggetto non dipendente dell'azienda operante nel cantiere o comunque in rapporti di lavoro con quest'ultima''.

    Un'esercente commerciale incarica una ditta di effettuare lavori lungo il marciapiede. Un pedone cade dentro una bocca di lupo privata della grata di protezione per l'esecuzione dei lavori. La Sez. IV conferma la condanna del titolare della ditta per violazione dell'art. 21 c.s., ove al comma 2 si prevede che: ``chiunque esegue lavori o deposita materiali sulle aree destinate alla circolazione o alla sosta di veicoli e di pedoni deve adottare gli accorgimenti necessari per la sicurezza e la fluidità della circolazione e mantenerli in perfetta efficienza sia di giorno che di notte'', e ``deve provvedere a rendere visibile, sia di giorno che di notte, il personale addetto ai lavori esposto al traffico dei veicoli'': ``Significativo al riguardo risulta quanto previsto dall'art. 40 reg.esec. c.s. salvaguardare la sicurezza dei pedoni nei cantieri stradali. In particolare, mentre il comma 4 stabilisce che, laddove il marciapiede sia occupato da un cantiere, occorre delimitare e proteggere un corridoio di transito pedonale, lungo il lato o i lati prospicienti il traffico veicolare della larghezza di almeno un metro, il comma 5 recita `tombini e ogni tipo di portello aperti, anche per un tempo brevissimo, situati sulla carreggiata o in banchine o su marciapiedi, devono essere completamente recintati'. Un eventuale culpa in vigilando in cui sarebbe incorsa la committente, per contro assolta, non avrebbe certo mandato esente da responsabilità il diretto esecutore del lavoro che, una volta aperta la buca, non si è premurato di apprestare alcun presidio perché i pedoni non ci finissero dentro''.

    e) Manutenzione dei mezzi e responsabilità dell'officina aziendale

    Un autotrasportatore è condannato per omicidio colposo stradale per aver provocato, alla guida di un autoarticolato, un incidente nel quale persero la vita tre persone. Stando ai magistrati di merito, ``si sarebbe verificato lo sganciamento progressivo della coppia di ruote dell'assale posteriore destro del trattore stradale condotto dall'imputato, il quale avrebbe proseguito la marcia a una velocità comunque superiore a quella prescritta (81 km/h a fronte di un limite di 70 km/h) nonostante le vibrazioni che necessariamente si verificavano sull'autoarticolato, fino a che, una volta verificatasi l'avulsione della coppia di ruote, perdeva il controllo del veicolo che invadeva la corsia opposta di marcia e impattava violentemente contro l'autovettura a bordo della quale viaggiavano cinque persone, tre delle quali rimanevano uccise sul colpo''. A sua discolpa, l'imputato lamenta, in particolare, che del tutto trascurata è stata la posizione del responsabile dell'officina aziendale. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna. Prende atto che, ``poco tempo prima del sinistro, l'imputato aveva notato un `malfunzionamento di ammortizzatore anteriore' (cui seguì la riparazione del guasto)'', e che, ``quanto alle gomme, queste erano state sostituite dall'officina aziendale, il cui responsabile (inopinatamente sentito in qualità di testimone, laddove la sua qualità di soggetto responsabile della manutenzione del veicolo avrebbe reso necessario che costui fosse udito con le garanzie di cui all'art. 63 c.p.p.) ha riferito di avere provveduto a montare pneumatici `da sbarre 70' che assicurassero una migliore stabilità''. Rileva che, ``a fronte delle preoccupazioni manifestate dall'imputato prima dell'incidente, la corte di merito non si è in alcun modo posta il problema di come l'intervento riparatore dell'officina aziendale, eseguito poche settimane prima del sinistro, potesse avere rassicurato l'imputato anche di fronte al manifestarsi dei segnali di instabilità mostrati dal veicolo poco prima che il guidatore ne perdesse il controllo''. Nota che ``non risulta chiarito, ad esempio, se il malfunzionamento precedentemente registrato dall'imputato avesse o meno caratteristiche similari a quelle che dovevano essere state necessariamente percepite dall'imputato negli istanti immediatamente antecedenti il sinistro'', e che, ``se così fosse, occorrerebbe anche approfondire l'aspetto relativo alle rassicurazioni fornite dall'officina meccanica aziendale dopo gli interventi che presso di essa furono eseguiti sull'autoarticolato e, conseguentemente, all'incidenza di tali rassicurazioni sulla condotta alla guida dell'imputato prima dell'incidente''. Ritiene ``chiaro che, se le anomalie (ossia le vibrazioni e i rumori) che l'imputato avrebbe avvertito poco prima di perdere il controllo del veicolo fossero state analoghe a quelle precedentemente riscontrate, ciò potrebbe costituire una chiave di oggettiva spiegazione della minore attenzione riservata dall'imputato a tali anomalie''. Non condivide ``la considerazione che, essendo l'imputato in grado di percepire il malfunzionamento che lo indusse a rivolgersi all'officina aziendale, egli, da esperto guidatore, avrebbe potuto e dovuto assumere immediatamente un atteggiamento di cautela anche in relazione alle vibrazioni e ai rumori sviluppatisi negli istanti antecedenti il sinistro''. Spiega al riguardo che ``tale ragionamento prova troppo e non tiene conto che, a seguito degli interventi eseguiti poco tempo prima sull'autoarticolato, egli ben poteva sentirsi rassicurato sulle condizioni del mezzo e dare quindi minor peso alle anomalie manifestatesi in occasione dell'incidente''. Reputa, pertanto, ``necessario che venga approfondito, in sede di merito, se i malfunzionamenti segnalati dall'imputato all'officina aziendale presentassero analogie sintomatiche con le anomalie emerse in occasione dell'incidente, e se, quindi, avuto particolare riguardo agli interventi precedentemente eseguiti sull'autoarticolato e alle rassicurazioni ricevute, vi fossero realmente motivi di allarme tali da dover indurre l'imputato, nel breve arco di tempo indicato dal consulente tecnico, a modificare il proprio assetto di guida o a fermarsi per verificare cosa stesse accadendo''. Infine, indica la necessità di ``un ulteriore approfondimento, relativo alla rilevanza causale della velocità elevata tenuta nell'occorso dall'autoarticolato condotto dall'imputato'', al fine di ``verificare, operando un adeguato ragionamento controfattuale, se la velocità eccessiva abbia giocato un ruolo nella dinamica dell'incidente, in termini assoluti ed autonomi, oppure in associazione all'avulsione della coppia di ruote e alla conseguente destabilizzazione del veicolo''.

    (Per un'ipotesi in cui il conducente di un autocarro condannato per omicidio colposo in danno di altro utente della strada tenta di spostare la responsabilità sul datore di lavoro che gli avrebbe affidato un mezzo insicuro per carenza di sufficiente manutenzione v. Cass. 6 aprile 2021, n. 12982 ove si replica che ``l'eventuale colpa concorrente del datore di lavoro e - deve ritenersi - proprietario del mezzo non è tale da escludere la concorrente colpa dell'imputato'').

    f) Assicurazione della responsabilità civile

    ``L'art. 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972 - relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in tema di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell'obbligo di assicurare tale responsabilità - deve essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di `circolazione dei veicoli' qualunque uso di un veicolo che sia conforme alla funzione abituale dello stesso''.

    Un datore di lavoro - condannato per più violazioni di norme attinenti alla tutela della sicurezza e salute di un minore di età adolescente - deduce a sua discolpa che siffatte norme «implicano che sussista un rapporto di lavoro subordinato», là dove «nella specie, nessuna prova era emersa della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato», trattandosi «di un'occasionale collaborazione che il giovane rendeva, quando poteva e se voleva». La Sez. III replica che nella specie fu ritenuta «la natura di lavoro subordinato anche se a chiamata». E osserva che «la fattispecie del lavoro a chiamata o occasionale o intermittente è espressamente prevista dal D.Lgs. n. 276/2003 agli artt. 33 ss. [v. poi artt. 13-18, D.Lgs. n. 81/2015] e pertanto rappresenta una delle tipologie di lavoro subordinato al quale trova applicazione non di meno la disciplina riguardante la tutela del lavoro minorile».

    Infortunio mortale ``per l'inosservanza delle norme antinfortunistiche afferenti alla raccolta degli agrumi che veniva eseguita con l'utilizzo di scale semplici, prive di ganci di trattenuta, appoggi antisdrucciolevoli e livellamento del piano di pendenza''. L'infortunato, ``giunto presso il fondo gestito e curato dall'imputato, incaricato da quest'ultimo di procedere alla raccolta dei limoni operazione che eseguiva senza casco protettivo e mediante l'utilizzo di una scala comune inadeguata ad effettuare lavori a 7 mt di altezza su piano di calpestio in pendenza, con inclinazione di circa 25%, con uno strapiombo di 5,50 mt sulla destra, improvvisamente, durante l'esecuzione del lavoro, cadeva con tutta la scala, precipitando sulla piazzola sottostante''. La Sez. IV conferma la condanna: ``L'imputato gestiva il limoneto, per conto del proprietario dello stesso, realizzando, durante tutto l'arco dell'anno, lavori di potatura, spruzzando antiparassitari e simili, sistemando i telai di copertura e provvedendo alla raccolta finale del prodotto. Egli operava in piena autonomia quanto alla programmazione e all'esecuzione dell'attività (comprese le spese di acquisto dei materiali utilizzati per la coltura dei limoni), venendo retribuito annualmente dalla moglie del proprietario, comodataria del fondo per conto del predetto, comodante (la cui posizione giuridica è stata stralciata). A norma dell'art. 21 D.Lgs. n. 81/2008, i coltivatori diretti del fondo devono utilizzare attrezzature da lavoro conformi alle disposizioni di cui al Titolo III, e, quindi, quanto alle scale, secondo la specifica normativa antinfortunistica dettata dal successivo art. 113. L'imputato era titolare di un vero e proprio obbligo di garanzia a tutela dell'incolumità del lavoratore, e, essendosi verificato l'infortunio sul luogo di lavoro, e quindi entro l'area di rischio, competeva al medesimo, in quanto gestore del fondo, l'obbligo giuridico dell'esatta osservanza delle misure antinfortunistiche, quindi, nel caso di specie, di dotare l'occasionale collaboratore di una scala conforme alla previsione del citato art. 113 D.Lgs. n. 81/2008, proprio in quanto titolare della specifica posizione di garanzia''.

    Il legale rappresentante di una s.r.l. esercente attività di allevamento di bovini, fu condannato per l'infortunio mortale subito da un dipendente ``addetto a un carro miscelatore del mangime sprovvisto di idonea protezione delle lame rotanti e del dispositivo presenza uomo tale da arrestare il movimento delle lame quando l'operatore si allontanava dai comandi e si avvicinava agli organi lavoratori, scivolato all'interno della vasca di miscelazione e dilaniato dalle lame in movimento''. (La sentenza è riportata anche sub art. 28, paragrafo 7).

    Il componente del consiglio di amministrazione di una società con delega in materia di sicurezza del lavoro viene condannato per lesioni personali colpose in danno di un settantasettenne che con la società aveva stipulato un contratto di compartecipazione agraria stagionale per la raccolta di olive e che nel salire su una scala fornitagli dall'azienda cadeva a terra da circa 3 metri. Addebito di colpa: ``aver adibito il lavoratore a mansioni non adeguate alla sua età senza sottoporlo a previa visita medica e averlo dotato di una scala sprovvista di sistemi di trattenuta o altri sistemi idonei che ne assicurassero la stabilità''. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna. (La sentenza è più ampiamente riportata sub art. 26, Premessa).

    L'amministratore unico di una s.r.l. proprietaria della stalla di una corte agricola e committente dei lavori di sostituzione di quattro lastre di fibrocemento della copertura di detta stalla e il socio amministratore di una società semplice subaffittuaria della stalla sono condannati per omicidio colposo, perché avevano affidato i predetti lavori a due pensionati non iscritti ad alcun albo di categoria e del tutto inidonei a provvedervi, sul piano tecnico-professionale, anche in ragione dell'indisponibilità delle necessarie attrezzature, senza verificare i rischi specifici esistenti in loco e le misure di prevenzione e di emergenza da adottare in relazione agli stessi; con la conseguenza che uno dei pensionati, salito sul tetto per compiere l'attività di sostituzione delle lastre, precipitava all'interno della stalla a seguito del cedimento del manto di copertura, perdendo la vita».

    Un datore di lavoro fu dichiarato colpevole di omicidio colposo, per «avere cagionato la morte di un lavoratore per colpa consistita in imprudenza, negligenza e nella violazione delle norme contestate, omettendo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica del prestatore di lavoro, non adeguando il trattore agricolo cingolato di cui era proprietario, munito di aratro, messo a disposizione per effettuare lavori di aratura del proprio fondo, ai requisiti di legge e astenendosi dall'aggiornare tutte le misure di protezione e di prevenzione dal rischio da ribaltamento e schiacciamento, in particolare non provvedendo a dotare il suddetto trattore di sistemi antiribaltamento e di sistemi di ritenzione del conducente». «Il lavoratore stava eseguendo con il suddetto trattore lavori di aratura per conto dell'imputato sul terreno di proprietà di quest'ultimo, andava a finire con il mezzo, dal quale veniva schiacciato, in una scarpata. I giudici del merito, ritenuta provata l'esistenza di un rapporto di lavoro tra il datore e la vittima, prestatore, posto in essere quanto meno per facta concludentia, ritenevano che sull'imputato gravasse l'obbligo di vigilanza sull'attuazione delle misure di sicurezza atte a salvaguardare l'integrità fisica del lavoratore, nonché di verifica della rispondenza dei macchinari utilizzati alle prescrizioni di legge, anche in relazione alle condizioni atmosferiche e di quelle del suolo, si da prevenire eventi tali da compromettere l'incolumità del lavoratore. È da rilevare, infine, che anche ad accedere alla versione dei fatti offerta dall'imputato (assenza della qualità di datore di lavoro), non ne conseguirebbe l'esenzione di responsabilità dello stesso, ravvisandosi la posizione di garanzia rispetto al verificarsi di infortuni in chi affida a terzi un mezzo di per sé atto a determinare situazioni di pericolo senza sorvegliare adeguatamente circa il suo corretto utilizzo».

    Il titolare di una ditta esercente l'attività agricola fu condannato per la violazione degli artt. 71, comma 1, ed 87, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 «per aver omesso di mettere a disposizione dei dipendenti attrezzature idonee ai fini della salute e della sicurezza», e, in particolare, perché «al momento del sopralluogo i presenti spiantavano e raccoglievano patate utilizzando una motozappa priva del sistema di sicurezza che permette alla stessa di arrestarsi immediatamente interrompendo la corrente elettrica non appena il conduttore molla volontariamente o incidentalmente il manubrio».

    Il datore di lavoro e un preposto responsabile del servizio manutenzione furono condannati per il reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente impegnato nella pulizia di un macchinario «linea di semina» in movimento: il primo «per avere omesso di predisporre un'idonea segnaletica di sicurezza nei pressi del macchinario ove si è verificato l'incidente, nonché di informare il lavoratore sui rischi cui lo stesso era esposto durante le operazioni di pulizia dello stesso macchinario, ed ancora, di istruire adeguatamente il preposto circa le regole di prudenza da seguire durante tali operazioni»; e il secondo, «per avere ordinato al lavoratore di eseguire le operazioni di pulitura del macchinario a motore acceso, e quindi in violazione delle precise prescrizioni imposte nel libretto di istruzione della macchina e delle ordinarie regole di prudenza». La Sez. IV respinge il ricorso degli imputati, e, in particolare, sottolinea che «la segnalata, nei ricorsi, consapevolezza, da parte del lavoratore, dei pericoli insiti nell'utilizzo del macchinario, per avere lo stesso proceduto, pochi giorni prima, alla pulizia dello stesso, ove realmente sussistente, non varrebbe alcun rilievo in termini difensivi, posto che tale presunta generica consapevolezza è cosa ben diversa dalla precisa conoscenza delle modalità di intervento sulla macchina in sicurezza, dei rischi che tale intervento comportava, delle norme prevenzionali da rispettare; conoscenza che, sola, avrebbe potuto porre in discussione una partecipazione causale del lavoratore nell'evento di cui è rimasto vittima».

    «La vittima di un infortunio si è ferita mentre tentava di ripulire da una zolla di terra la barra falciante ed il rullo della mietitrebbia e il ferimento è stato determinato dall'incongrua attivazione, in quella delicata fase, dell'apparato motore. Quale che sia la causa per cui il motore è stato attivato, resta il fatto che si tratta di condotta palesemente incongrua ed altamente pericolosa, atteso che le più elementari istruzioni operative impongono che attività del genere avvengano con organi fermi ed a motore spento. Si esclude pure che la manovra sia frutto di una iniziativa unilaterale ed autolesionistica della vittima, che si trovava sul terreno di proprietà del suocero in cui avveniva la mietitura. Al contrario l'unico che aveva il governo del mezzo era in quel momento l'imputato, che avrebbe dovuto prestare ben maggiore attenzione nel governo della macchina».

    Un operaio dipendente dell'impresa esecutrice, «stante la necessità di espletare un urgente bisogno fisiologico e la mancanza di servizi igienici per i lavoratori nelle vicinanze del posto di lavoro, si era portato all'interno del canale di raccolta liquami frapposto fra due fabbricati, ed era deceduto per asfissia acuta anossica da carenza ambientale di ossigeno conseguente alle esalazioni di gas (metano, acido solforico ed altri) derivanti dallo scarico dei liquami». Il legale rappresentante dell'azienda agricola esercente attività di allevamento suinicolo con porcilaia committente dei lavori, il responsabile dei lavori e i legali rappresentanti della impresa edile esecutrice, il progettista e direttore dei lavori e il coordinatore per la progettazione e per l'esecuzione dei lavori, vennero imputati di omicidio colposo, vuoi per il mancato rispetto dei propri obblighi in riferimento al piano operativo di sicurezza (POS) e al piano di sicurezza e coordinamento (PSC), riguardo in particolare alla mancata previsione progettuale e mancato allestimento del bagno di servizio per le necessità degli operai nelle vicinanze del fabbricato dove erano in corso i lavori, vuoi per la difformità della realizzazione del canale di raccordo al collettore principale rispetto al progetto, difformità che aveva determinato il riflusso e/o la propagazione, ad un livello certamente più elevato, di gas tossici letali, al collettore inerente allo speco fognario del fabbricato».

    (V., altresì, Cass. 25 marzo 2019, n. 12861 su infortunio per ribaltamento di macchina agricola semovente su fondo in pendenza; Cass. 18 gennaio 2019, n. 2316 su infortunio mortale verificatosi presso una cantina vinicola a un lavoratore intento a travasare vino da un silo in acciaio di maggiore capienza ad uno dì minore capacità; sub art. 20, al paragrafo 9, Cass. 16 gennaio 2015, n. 2176; Cass. 7 settembre 2015, n. 36067; Cass. 28 agosto 2014, n. 36348 e Cass. 28 agosto 2014, n. 36339. Per ipotesi d’infortunio accaduto nell’ambito di una malga Cass. 5 giugno 2019, n. 24908 e Cass. 22 marzo 2018, n. 13315. Per un caso d'infortunio mortale occorso al lavoratore dipendente di una distilleria, Cass. 5 maggio 2014, n. 18454. Su un'ipotesi di lesioni colpose ai danni di soggetti, i quali, intenti a lavorare in un campo contiguo a quello dell'imputato, avevano patito congiuntivite e dermatite, essendo rimasti interessati dall'anticrittogamico vaporizzato con un atomizzatore, Cass. 2 febbraio 2016, n. 4339. Da leggere pure Cass. 30 marzo 2017, n. 16123; Cass. 27 marzo 2017, n. 15164; sub art. 2, paragrafo 20, Cass. 24 marzo 2017, n. 14607; sub art. 18, paragrafo 2, Cass. 9 marzo 2017, n. 11441).

    Circa le soprintendenze v. Cass. 14 gennaio 2013, n. 1715; Cass. 11 agosto 2009, n. 32683.

    ``L'art. 6 della legge che disciplina le attività minerarie, oggetto di particolare regolamentazione nell'ambito del D.P.R. n. 128/1959, è stato modificato dall'art. 20 D.Lgs n. 624/1996, che ha riprodotto il contenuto della previgente norma. Tali articoli stabiliscono che il titolare della cava debba nominare un direttore responsabile in possesso delle capacità e delle competenze necessarie all'esercizio di tale incarico, trattandosi di attività nelle quali il rischio di esposizione a pericolo è elevato. Spetta al direttore responsabile l'obbligo di osservare e far osservare le disposizioni normative e regolamentari in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Il direttore ha dunque un precipuo compito di sorveglianza per prevenire criticità che possono essere scongiurate mediante l'adozione di particolari tecniche. Nel caso che occupa, l'imputato ha abdicato ai compiti che gli competevano, omettendo di informare il sorvegliante dei rischi esistenti e di fornire specifiche indicazioni in merito alle tecniche estrattive più idonee ed alle precauzioni da adottare in relazione alla situazione esistente''. (Nella fattispecie, ``un operaio, intento ad eseguire le operazioni funzionali al sezionamento di una porzione rocciosa, veniva investito e schiacciato da un masso del peso di tre tonnellate che rovinava sulla sua persona e ne determinava l'immediato decesso''; ``il collega di lavoro, presente ai fatti, fu colto da malattia guarita in giorni 61, essendo stato assalito da grave stress psicofisico'').

    Condanna del datore di lavoro committente di fatto per infortunio mortale occorso a dipendente dell'impresa appaltatrice folgorato in un'industria estrattiva. La Sez. IV prende in esame le norme degli artt. 9 D.Lgs. n. 624/1996 e 26 D.Lgs. n. 81/2008: ``La disciplina di entrambe le fattispecie regola gli obblighi di coordinamento e di interlocuzione sussistenti tra committente ed appaltatore nel caso di affidamento di lavori ad imprese appaltatrici nel medesimo luogo di lavoro. Correttamente è stata ritenuta la specialità, e perciò la prevalenza applicativa, della disposizione dell'art. 9 D.Lgs. n. 624/1996 rispetto alla disciplina generale prevista dal D.Lgs. n. 81/2008, in quanto norma dedicata in modo espresso alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nelle industrie estrattive. La sostanziale identità contenutistica degli specifici obblighi di comunicazione, cooperazione e collaborazione imposti al committente rispetto alla ditta appaltatrice fanno, tuttavia, ritenere le due norme poste in perfetta correlazione tra loro, oltre che in regime di assoluta continuità, così escludendo che l'applicazione della più vecchia normativa possa essere effettuata in danno dell'imputato, in virtù di una non consentita analogia `in malam partem', di cui dell'art. 2 c.p. - considerato che la disciplina del n. 624/1996 è antecedente rispetto ai fatti per cui è giudizio. Sul committente, pertanto, gravava un obbligo di interlocuzione e di comunicazione con la ditta appaltatrice, alla stregua di quanto formulato ai sensi dell'art. 9 n. 624/1996, e dunque un obbligo che va interpretato nel senso di non imporre solo (al datore di lavoro) un mero richiamo alle norme applicabili, bensì di richiedere una fattiva interlocuzione volta a verificare la concreta consapevolezza della ditta appaltatrice dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro e della doverosa adozione delle necessarie misure di prevenzione. Il committente, cioè, non potrebbe mai essere esonerato dalle responsabilità derivantigli dalla ricoperta posizione di garanzia solo evidenziando che l'appaltatore stava lavorando già da tre mesi nello stesso ambiente in cui si è verificato l'incidente, così come dimostrando che il suddetto avesse piena contezza del contenuto del documento di sicurezza e salute coordinato (D.S.C.C.), recante l'espresso divieto di usare utensili superiori a 50 volt. Il Saitta, d'altro canto, è stato condannato proprio perché, pur avendo conoscenza di tale divieto, per essere contenuto nel D.S.S.C. da lui sottoscritto, non aveva impedito al suo dipendente di usare il ben più potente martello demolitore. Il committente è stato, invece, ritenuto penalmente responsabile per non aver adempiuto proprio a quell'obbligo di fattiva interlocuzione impostogli dall'art. 9 n. 624/1996, costituendo suo precipuo compito quello di supervisionare le attività svolte dall'appaltatore, interloquendo in modo costante con lui al fine di verificare ogni aspetto relativo alla sicurezza, ed in particolare - per quanto qui di interesse - se l'appaltatore si fosse realmente reso conto dello specifico rischio connesso alla peculiare tipologia di impianto elettrico presente nello stabilimento. Anche se l'appaltatore era stato informato del divieto di usare utensili con potenza superiore a 50 volt, occorreva, comunque, controllare che costui avesse ben compreso le ragioni del divieto ed il correlato il rischio inerente all'ambiente di lavoro. Prova della mancanza di tale fattiva interlocuzione è desumibile, d'altro canto, anche dal fatto che il committente non avesse richiesto l'acquisizione del documento valutazione rischi. Trattasi, infatti, di omissione di particolare rilievo, perché ove tale richiesta vi fosse stata, il committente avrebbe appreso che il D.V.R. non era stato redatto, e che di conseguenza la ditta appaltatrice non era consapevole del concreto rischio elettrico esistente nell'area di lavoro, e di conseguenza nemmeno aveva programmato alcuna delle soluzioni tecniche tali da permettere l'esecuzione del lavoro in sicurezza''.

    Per un duplice infortunio accaduto durante la costruzione di un'armatura metallica in un tratto di galleria, fu condannato il direttore della miniera di una s.p.a. Nel confermare la condanna, la Sez. IV insegna che ``nel settore minerario si applica la generale disciplina antinfortunistica, ma la stessa è accompagnata dalle norme specifiche, tuttora vigenti, previste dal D.P.R. n. 128/1959 che prevede un rafforzamento degli obblighi e dei poteri del direttore della miniera''. Osserva, inoltre, che, ``anche ad ammettere che l'art. 17, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, in punto non delegabilità da parte del datore di lavoro dell'obbligo di valutazione del rischio, non possa essere derogato dalla disciplina speciale concernente il settore minerario (art. 6 D.P.R. n. 128/1959), resta il fatto che nella specie ciò che si contesta più specificamente all'imputato, nella sua veste di direttore della miniera, è di non aver approntato, con riguardo alle operazione di posa in opera dei rocprop in gallerie sprovviste di tavolato alle pareti, appropriate e dettagliate istruzioni operative volte a prescrivere la necessità di ancoraggio, anche in tale situazione, dei puntelli alle pareti laterali''. E pertanto conclude che, ``indipendentemente dall'individuazione di chi avesse dovuto cautelare il rischio, lo stesso non era stato governato in concreto'', ``e tale compito è espressamente assegnato al direttore della miniera non solo dall'art. 6, comma 1, D.P.R. cit. (secondo cui i luoghi di lavoro ricadono costantemente sotto la responsabilità di tale figura apicale aziendale), ma anche dallo stesso documento di valutazione del rischio della s.p.a. che stabilisce espressamente che `le armature per il sostegno delle gallerie, dei cantieri e di ogni altro scavo, devono essere realizzate in conformità a specifiche istruzioni del direttore responsabile'''.

    ``Principio di fondo che si ricava dagli artt. 130 e 131 cod. miniere è quello per cui l'operazione di taglio e riquadratura dei massi o blocchi di marmo deve essere eseguita in condizioni di massima sicurezza per gli operai addetti a tali lavorazioni, per loro natura estremamente pericolose, essendo in particolare necessario assicurarsi anzitutto dell'esistenza di un piano d'appoggio stabile (art. 130) ed essendo consentito agli operai di `introdursi negli spazi angusti adiacenti o approssimarsi alle parti per separare' solo in presenza di `puntellatura o altra misura' idonea a `garantire da pericolosi movimenti del masso o di parti di esso', altrimenti valendo la regola generale che vieta agli operai di stazionare in prossimità delle parti da separare (art. 131). La costruzione logico-sintattica di tale ultima norma, in particolare, rende evidente il rapporto di regola ed eccezione tra quest'ultimo divieto e la prevista possibilità di derogarvi in presenza di presidi che garantiscano dai pericoli della lavorazione medesima, tale per cui quest'ultima - anche in relazione ai primari e inviolabili diritti che essa è diretta a tutelare - deve essere restrittivamente interpretata e non può in particolare correlarsi a soggettive valutazioni circa l'apparente stabilità o non pericolosità del masso''.

    Il direttore responsabile di una cava fu dichiarato colpevole del reato di lesioni colpose per l'infortunio occorso a un dipendente ``intento a lavorare, alla guida di un escavatore, al distacco di una bancata di marmo nella cava, con il mezzo collocato a valle della bancata e la benna che tirava verso il basso il blocco agganciato'': ``il blocco si rompeva improvvisamente a metà, cadendo sulla cabina di guida del mezzo e provocando lesioni al conducente''. Addebito di colpa: ``aver disposto che le operazioni di ribaltamento della bancata avvenissero con l'escavatore posizionato sotto il bancale da ribaltare, piuttosto che con la tecnica della trazione a fune, operazione evidentemente pericolosa, non assentita dal regolamento di sicurezza della ditta, e non aver redatto specifico incarico scritto da consegnare al lavoratore chiamato a svolgere la propria attività in una situazione pericolosa''. Osserva la Sez. IV: ``L'assunto secondo cui l'art. 23, D.Lgs. 25 novembre 1996, n. 624 - che impone al direttore responsabile o al sorvegliante nell'ambito di industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee di rilasciare ai lavoratori, `per l'esecuzione di attività in situazioni pericolose ... specifico incarico scritto che deve precisare le condizioni da rispettare e le precauzioni da adottare prima, durante e dopo i lavori' - non sarebbe operante o comunque non avrebbe ragione di essere osservata nel caso in cui le operazioni siano dirette in prima persona dal responsabile, presente sul luogo, non trova alcun fondamento né nel riferito dato testuale (che non accenna affatto, né autorizza, una siffatta ragione di deroga), né sul piano logico (trattandosi di prescrizione evidentemente dettata proprio al fine di sottrarre il lavoratore ai rischi di arbitrarie, generiche, indeterminate e soprattutto difficilmente accertabili a posteriori prescrizioni del soggetto a lui preposto nell'organizzazione aziendale)''.

    (Per la condanna dell'amministratrice di una cava di sabbia e ghiaia e del direttore dei lavori per infortunio mortale a conducente di autocarro ribaltatosi in una scarpata Cass. 12 novembre 2018, n. 51321; sul sequestro preventivo di una cava Cass. 23 agosto 2018, n. 38857; su un infortunio mortale avvenuto all'interno di una cava nel corso di un'attività di movimentazione di massi Cass. 28 febbraio 2018, n. 9137. Per la condanna in ipotesi di coltivazione di una cava omettendo di nominare il direttore responsabile e senza preventivamente denunciare all'autorità di vigilanza le opere di coltivazione eseguite Cass. 28 luglio 2017, n. 37803. A sua volta, Cass. 19 maggio 2017, n. 24914 si occupa della morte di un lavoratore colpito all'interno di una cava da un masso. Su un caso di inondazione addebitata al proprietario di una cava v. Cass. 23 febbraio 2015, n. 7959. A sua volta, Cass. 21 gennaio 2016, n. 2537 considera un'ipotesi in cui ``i comproprietari di una diga avevano fatto sorgere e permanere il pericolo di inondazioni, impedendo il normale flusso delle acque ed omettendo di adeguarsi alle prescrizioni numerose volte loro impartite dalle autorità amministrative preposte'', e ritiene che ``a nulla rileva la circostanza che in quegli anni non si fossero registrati eventi calamitosi, sol perché non si erano verificati fenomeni atmosferici particolarmente intensi, quel che importa è la sussistenza di un oggettivo pericolo, accertato da tutte le autorità amministrative preposte, tanto da essersi resa necessaria la nomina di un commissario, al fine di eliminare il rischio di esondazioni, come quella che in effetti si era verificata nel 1966''. Circa la responsabilità del direttore e del sorvegliante di una miniera per l'infortunio occorso a un socio dipendente v. Cass. 5 ottobre 2017 n. 45821V, altresì, Cass. 5 giugno 2013 n. 24764. Per la giurisprudenza meno recente Guariniello, Sicurezza del lavoro e Cassazione - Il Repertorio, Ipsoa, 1994, 157 s., nonché Cass. 16 aprile 1999 n. 4877, in ISL, 1999, 10, 599).

    La Sez. IV conferma la condanna di un direttore di casa circondariale per il delitto di lesioni personali colpose in danno di un ospite ``per non avere attuato misure idonee a prevenire il rischio di legionellosi'', e, segnatamente, per non aver ``redatto un DVR adeguatamente preciso in ordine ai trattamenti di bonifica periodici, non avendo aggiornato il documento alle linee guida del 7 maggio 2015 (come pure suggerito dall'ASL competente) ed avendo espletato controlli carenti dell'impianto idrico'': ``Non è in discussione l'avvenuta redazione del D.V.R., ma piuttosto l'adeguatezza dello stesso alla situazione venutasi a creare: l'ASL competente aveva invitato il direttore ad uniformare il documento di valutazione dei rischi alle linee guida sulla prevenzione e il controllo della legionellosi, datate 7 maggio 2015. il mancato approfondimento delle condizioni dell'impianto idrico (specie alla luce del pregresso manifestarsi della legionella presso l'istituto di custodia), fece sì che le richieste di intervento alle competenti autorità si rivelassero affatto generiche e inidonee a documentare la gravità della situazione, ciò che giocò un ruolo decisivo - sotto il profilo eziologico - nell'aggravarsi del rischio infettivo, concretizzatosi con la patologia manifestatasi a carico di un ospite''.

    Non è la prima volta che la Corte Suprema ha occasione di occuparsi di un tema delicato quale la legionellosi. Già Cass. 3 dicembre 2004 (in ISL, 205, 3, 169), fece intendere che la legionellosi era ormai entrata nei recinti della giurisprudenza. Nel caso allora esaminato, il GIP aveva disposto il sequestro preventivo di un albergo in relazione ai reati di epidemia colposa e di omicidio colposo ai danni di un cliente deceduto dopo aver soggiornato in detto albergo. L'imputato lamentò, in particolare, l'insussistenza del fumus del reato e del periculum in mora; e a tal riguardo sostenne che ``il decesso del turista aveva rappresentato un caso isolato, non sicuramente riconducibile al soggiorno nell'albergo, e che la ASL aveva ritenuto il caso di legionellosi verificatosi un caso isolato, non in relazione al focolaio epidemico''. Affermò, inoltre, che ``tutte le analisi effettuate successivamente agli interventi di bonifica operati dai gestori dell'albergo dopo (i fatti) sono risultate negative quanto alla presenza di legionella superiore alle linee guida vigenti''. La Sez. III, però, rigettò il ricorso, in quanto ``non tiene conto dell'accertamento effettuato dall'ordinanza impugnata che con specifico riferimento alle linee guida stabilite per il controllo della diffusione della malattia e ai risultati delle analisi effettuate sui campioni prelevati nelle differenti date, ha motivatamente affermato di non poter concludere nel senso che fosse definitivamente trascorso il periodo minimo di verifica di sei mesi, in cui, secondo le anzidette linee guida, non deve risultare la presenza della legionella''. Successivamente, Cass. 18 maggio 2007, P.M. in c. C. e altri, ibid., 2007 8, 467, esaminò un'ipotesi in cui il direttore generale di un'azienda provinciale per i servizi sanitari, il responsabile della direzione e approvvigionamenti servizi generali e tecnici di tale azienda, il responsabile della direzione igiene e sanità della stessa, e il direttore di un ospedale furono chiamati ``a rispondere dei delitti di rifiuto di atti di ufficio (art. 328 c.p.), per non aver approntato negli anni 1998 e 1999 tutti gli strumenti idonei e necessari per evitare il diffondersi del morbo della legionella all'interno dell'ospedale, di aver colposamente cagionato un'epidemia di legionellosi nello stesso ospedale dando luogo a diffusione incontrollata di germi patogeni che proliferavano all'interno dell'impianto idrico della struttura sanitaria (art. 452 in relazione all'art. 438 c.p.), di aver determinato con le omissioni contestate la morte di tre persone, che avevano contratto il morbo c.d. dei legionari nel predetto ospedale (artt. 81 cpv. e 586 c.p.)''. Il GUP del Tribunale, a seguito di giudizio abbreviato, prosciolse tutti gli imputati dai reati loro contestati, tranne il direttore dell'ospedale, ritenuto colpevole del reato di rifiuto di atti d'ufficio. In particolare, escluse la sussistenza del reato di epidemia, ``il più grave tra quelli contestati, alla luce del numero limitato di malati, in base al quale, anche nel periodo di maggiore sviluppo della infezione, cioè nel gennaio marzo 1999, non era consentito di esprimere un giudizio di rapida diffusione della malattia, in un dato territorio o nell'ambito di un gruppo demografico''. Per contro, la Corte d'Appello assolse anche il direttore dell'ospedale dal reato di rifiuto di atti d'ufficio. Nell'accogliere parzialmente il ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, la Sez. IV osservò, anzitutto, che non ricorrevano gli estremi del reato di rifiuto di atti di ufficio. In proposito, precisò che ``il rifiuto, per rilevare penalmente ex art. 328, comma 1, c.p., deve risultare `indebito', cioè contrario ad una norma imperativa, di rango costituzionale o comunque primario, che imponga in via immediata e diretta al pubblico funzionario l'adozione dell'atto, e deve riguardare, quindi, un `atto dovuto''', e che, quindi, ``la `doverosità' dell'atto da compiere esclude dall'ambito di applicazione della norma gli atti rientranti nell'ambito della discrezionalità amministrativa''. Reputò evidente che nel caso di specie ``non può parlarsi di un'attività vincolata che poteva e doveva essere posta in essere, vertendosi piuttosto nell'ambito di interventi intrinsecamente caratterizzati da una evidente discrezionalità tecnica, rispetto al quali le determinazioni in proposito assunte dagli imputati avrebbero semmai potuto e dovuto essere censurate (laddove ritenute in concreto inidonee e laddove fosse stato dimostrato il nesso eziologico con i decessi in contestazione) sotto il profilo della colpa, ma non certo ricorrendo ad una contestazione qualificata dall'atteggiamento doloso quale quella di che trattasi''. Sottolineò che, ``per la sussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p. è ovviamente necessario il dolo'', e, dunque, ``occorre nell'agente non solo la consapevolezza e la volontà di rifiutare un atto del proprio ufficio, ma anche la consapevole volontà di agire in violazione dei doveri impostigli'', e, cioè, ``la consapevolezza delle ragioni (qui, quelle di igiene e sanità) che qualificano l'atto da compiere, della `doverosità' dell'atto e della sussistenza delle ragioni di urgenza che impongono dì agire `senza ritardo'''. Aggiunse che ``l'insussistenza del reato di cui all'art. 328 c.p. rende inutile soffermare l'attenzione sulla residua contestazione di cui all'art. 586 c.p.''. A questo punto, però, la Sez. IV si pose il ``problema della corretta fattispecie criminosa da contestare agli imputati''. Rilevò come ``la ricostruzione effettuata dai giudici di merito porti a concludere che non si tratti (in ipotesi) del delitto di cui all'art. 586 c.p., ma (semmai) di quello di omicidio colposo plurimo previsto dall'art. 589 dello stesso codice''. Prese atto che ``già la stessa Corte di Appello aveva opportunamente rilevato, senza trarne, però, le dovute conseguenze, che l'esito del processo era stato condizionato dalla peculiare decisione iniziale della pubblica accusa di addebitare a tutti gli imputati un reato omissivo di natura dolosa a fronte di condotte che avrebbero forse dovute essere perseguite come colpose e che tale impostazione aveva indotto il P.M. e le parti civili a porre l'accento su di un generico atteggiamento comune di inerzia degli imputati nella gestione dell'impianto di bonifica, senza individuare le singole condotte e gli specifici provvedimenti che ciascuno di essi avrebbe potuto adottare in relazione alla propria posizione di garanzia''. Mise in luce l'esigenza di dare ``rilievo a prove decisive, riguardanti tre casi di legionella, diagnosticati tra aprile e dicembre 1998: in quelle occasioni erano stati rilevati in laboratorio valori di Ufc (unità facenti cultura) di legionella di gran lunga superiori alle 10.000 unità (dato pacifico in cui è necessario intervenire)''. Censurò la sentenza impugnata ``nella parte in cui individuava il comportamento concretamente esigibile dagli imputati esclusivamente in quello rivolto a far funzionare la c.d. `macchina rivoluzionaria' nella disinfezione, giustificando la mancata realizzazione dell'obiettivo con carenze tecniche e culturali, non addebitabili agli imputati''. Affermò, nell'affrontare il problema causale, che ``un corretto giudizio controfattuale avrebbe consentito di rilevare che il buon funzionamento della macchina per il biossido di sodio, con l'azzeramento della legionella, avrebbe consentito di evitare o apprezzabilmente ritardare i tre decessi verificatisi nel marzo del 1999, indiscutibilmente a causa del predetto morbo''. Pose in risalto ``la posizione di garanzia penalmente rilevante (ai fini e per gli effetti dell'addebito ex art. 40, comma 2, c.p.), ricoperta dagli imputati, in funzione del potere giuridico esistente in capo agli stessi, sia pure sotto profili diversi, di tutelare la salute e la vita dei pazienti ricoverati nell'ospedale e di impedire gli eventi letali''. Sotto questo profilo, affermò che il direttore generale dell'azienda provinciale per i servizi sanitari, il responsabile della direzione e approvvigionamenti servizi generali e tecnici di tale azienda, il responsabile della direzione igiene e sanità della stessa, nella qualità di responsabili a vario titolo del servizio sanitario della provincia, proprio in virtù della delega emessa dal primo, erano garanti della vita e della incolumità dei pazienti dell'ospedale e, come tali, avevano l'obbligo giuridico di impedire l'evento'', e che ``lo stesso obbligo, in virtù della carica ricoperta di direttore sanitario, è da individuarsi a carico di costui''. La conclusione fu che l'ipotesi di accusa sia correttamente da qualificare come quella di omicidio colposo plurimo (ex art. 589 c.p.), e che ``la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte di appello, la quale dovrà verificare la riconducibilità della fattispecie concreta alla fattispecie astratta individuata da questo Collegio''.

    Nel caso considerato dalla presente sentenza, il direttore generale di un policlinico, condannato in primo grado per omicidio colposo in danno di due pazienti, fu assolto in appello perché il fatto non costituisce reato. Nel respingere il ricorso proposto dalle parti civili, la Sez. IV ritiene ``incontestata la sussistenza del nesso eziologico tra la legionellosi di origine nosocomiale e l'evento'', e indubbio che ``l'imputato rivestisse una posizione di garanzia (presupposto per la riferibilità al medesimo - per condotta omissiva - del reato contestatogli)''. Affronta, a questo punto, il tema relativo ``alla sussistenza o meno dell'elemento soggettivo costituito dalla colpa in capo all'imputato''. Prende atto che si addebitava ``all'imputato di aver omesso di adottare tutte le misure tecniche per elidere o ridurre al minimo i rischi connessi alla presenza, nel nosocomio e - in particolare - nel reparto in cui era ricoverato un paziente (immunodepresso), del batterio della legionella, oltre a generica imprudenza, imperizia e negligenza''. Rileva come ``fosse identificabile ex ante un pericolo di contagio di legionella, e, conseguentemente, che gravasse (anche) sull'imputato l'obbligo di adottare quelle misure tecniche che sarebbero valse a prevenire (o a ridurre al minimo) tale pericolo'', ``essendo noto pressoché a tutti (e sicuramente a chi, essendo in possesso di una specifica professionalità, sia stato preposto alla guida di un'importante struttura sanitaria) il rischio di contrarre la legionellosi per alcune categorie di malati ricoverati in ospedale''. Reputa, per contro, che ``non altrettanto può dirsi per la prevenibilità (o evitabilità), che costituisce l'altro requisito della colpa'', in quanto ``l'impossibilità di eliminare completamente l'infezione da legionella dagli ospedali, su cui si sono ampiamente soffermati i periti, l'enormità delle dimensioni e le particolari condizioni di vetustà del policlinico non consentono di sostenere che l'imputato avrebbe potuto agevolmente evitare il verificarsi dei casi di legionellosi nosocomiale mediante l'impiego dei metodi indicati nella sentenza impugnata (ín particolare, l'iperclorazione shock e la successiva clorazione continua)''. Peraltro, nel richiamare l'art. 652 c.p.p., avverte che ``l'assoluzione nel giudizio penale non esclude di per sé il diritto del danneggiato ad ottenere il ristoro dei danni subiti'', dal momento che ``l'accertamento contenuto in una sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata perché il fatto non costituisce reato non ha efficacia di giudicato nel processo civile successivo nel quale compete sempre al giudice il potere di accertare autonomamente i fatti dedotti in giudizio e di arrivare a conclusioni anche differenti''.

    Successivamente:

    Sottoposta in una clinica privata a due interventi chirurgici all'intestino e poi ricoverata di urgenza presso un ospedale in ragione del progressivo peggioramento della condizioni di salute, una donna muore. I parenti denunciano che la paziente è deceduta, avendo contratto il batterio della legionella. Il P.M. chiede il rinvio a giudizio del procuratore speciale direttore generale e del procuratore speciale della s.r.l. responsabile del trattamento delle acque sanitarie della casa di cura sia ``per avvelenamento colposo di acque per avere omesso di attuare le misure necessarie a prevenire la contaminazione della rete idrica della struttura privata, essendo risultata l'acqua inquinata dal batterio della legionella e della pseudomonas aeruginosa'', sia ``per omicidio colposo per avere cagionato alla donna, durante il suo ricovero presso la clinica la contrazione dell'infezione del batterio della legionella''. Il GUP proscioglie i due imputati per ``mancanza di prova di un contratto scritto tra la clinica e la società degli imputati che obbligasse la società al compito di svolgere attività di prevenzione in tema di salubrità dell'acqua utilizzata nella clinica privata (altro imputato del reato di avvelenamento colposo di acque e di omissione di atti di ufficio fu rinviato a giudizio). La Sez. IV conferma il proscioglimento.

    Per un caso di infezione da `enterobacter erogens' in una casa di cura Cass. 21 giugno 2016, n. 25689.

    In questa sentenza compare nelle inconsuete vesti di datore di lavoro un parroco condannato per il delitto di lesioni personali colpose in conseguenza di un infortunio accaduto presso la sua chiesa: l'infortunato, unitamente ad altra persona, ``aveva dato la propria disponibilità a eseguire gratuitamente lavori di pitturazione dell'interno della chiesa, utilizzando una scala dell'altezza di tre metri circa e un trabattello'', ma ``durante la pitturazione cadeva dalla scala''. L'addebito mosso al parroco fu quello di ``avere impiegato l'infortunato in mansioni lavorative senza il rispetto delle regole cautelari e delle norme prevenzionistiche (non solo l'art. 2087 c.c., ma anche l'art. 107 D.Lgs. n. 81/2008, che disciplina la sicurezza dei lavori in quota)''. A sua discolpa, il parroco sostiene che ad incaricare l'infortunato fu altra persona (una signora), e che la caduta non era avvenuta da un'altezza di tre metri, poiché il fatto che la porzione di muro già pitturata al momento del fatto fosse posizionata a mt. 2,50-3,00 non significa che l'infortunato si trovasse a un'altezza superiore ai due metri, atteso che egli era sicuramente ad altezza inferiore a quella ove vi erano le tracce di pittura (chi dipinge una parete si trova al di sotto del pennello che utilizza), La Sez. IV non è d'accordo. ``Quanto all'esecuzione della pitturazione ad altezza superiore ai due metri (desunta dal fatto che la porzione di muro pitturata era a circa tre metri di quota e che l'infortunato era sicuramente caduto dalla scala, alta a sua volta tre metri)'', ribatte che, ``in base alla normativa prevenzionistica, l'altezza superiore a metri due dal suolo va calcolata in riferimento all'altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore''. E ``quanto al fatto che l'incarico di procedere alla pitturazione sarebbe stato conferito non dal parroco, ma da altra persona'', osserva che ``i due soggetti che stavano eseguendo la pitturazione avevano bensì raccolto il suggerimento dato in tal senso dalla signora, ma avevano poi preso accordi per l'esecuzione dei lavori con il parroco, il quale, in quanto parroco e quindi soggetto disponente del luogo ove si svolgevano i lavori di pitturazione, era certamente titolare di una posizione di garanzia nei riguardi dei due soggetti impegnati nella pitturazione dell'interno della chiesa''. Spiega che, ``poiché il parroco ha la direzione delle attività della parrocchia, egli assume una posizione di garanzia nei confronti di chi presti, anche occasionalmente e su base volontaria, il proprio lavoro al suo interno, rispondendo pertanto delle eventuali lesioni personali cagionate dall'omessa adozione delle misure necessarie a prevenire gli infortuni sul lavoro''. Aggiunge che ``le componenti essenziali della posizione di garanzia sono costituite, da un lato, da una fonte normativa di diritto privato o pubblico, anche non scritta (o da una situazione di fatto per precedente condotta illegittima, che costituisca il dovere di intervento); dall'altro lato, dall'esistenza di un potere giuridico, ma anche di fatto attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado, attivandosi, di impedire l'evento''. Rileva che, ``nella specie, il parroco, quand'anche non avesse personalmente conferito l'incarico all'infortunato, era al corrente del fatto che presso la chiesa ove egli svolgeva le funzioni di parroco, l'infortunato stesse svolgendo lavori di pitturazione in quota delle pareti interne, con l'impiego tra l'altro di una scala, e che ciò comportava all'evidenza rischi di caduta dello stesso, rischi poi concretizzatisi'', e che il parroco, nella ridetta qualità, aveva quanto meno autorizzato o permesso detti lavori - dei quali, del resto, era beneficiario - ed aveva sicuramente il potere, oltreché il dovere, di fare in modo che gli stessi si svolgessero in sicurezza, assumendo al riguardo, rispetto ai due prestatori d'opera, una posizione di garanzia assimilabile a quella datoriale (in ordine alla quale si vedano le prescrizioni di cui agli artt. 111 e 113 D.Lgs. n. 81/2008).

    ``Un minore, unitamente ad alcuni compagni di giochi, aveva fatto accesso al campo di calcetto della parrocchia, si appendeva alla traversa della porta da calcetto che, non essendo fissata al terreno o in altro modo, si ribaltava finendo sul giovane, che riportava lesioni mortali''. Il parroco, assolto in primo grado, fu condannato in appello per omicidio colposo. La Sez. IV premette che ``la posizione di garanzia derivante dalla relazione di governo intrattenuta con una fonte di pericolo deve essere individuata alla luce delle specifiche circostanze del sinistro che si sia verificato, dovendosi accertare la effettiva titolarità del potere-dovere di gestione nella sequenza di accadimenti alla quale accede l'evento, senza che possa ritenersi sufficiente una valutazione sul piano astratto''. E annulla con rinvio la condanna, per ``l'identificazione del soggetto garante del rischio determinato dalla presenza della porta di calcetto all'interno del campo momentaneamente posto a disposizione del comitato promotore della festa patronale, non trascurando di considerare il tema della accessibilità a tale area, in concreto e per come eventualmente regolata tra le parti, con specifico riferimento al giorno del sinistro'', ``esplicitando le fonti del dovere di vigilanza del quale fa menzione la contestazione'', e ``verificandone i contenuti nella specifica vicenda, alla luce del rapporto instauratosi tra l'imputato ed il comitato e dei compiti affidati al vice parroco''.

    ``Quanto all'argomento che fa leva sulla peculiarità della lavorazione, tale da richiedere accorgimenti di sicurezza che si contemperino con le esigenze di igiene dell'ambiente di lavoro nel comparto alimentare, la stessa è superata dalla dirimente circostanza che il macchinario, solo dopo l'infortunio e a seguito dei rilievi dell'organo di controllo, fu adeguato nel senso richiesto dalla norma di salvaguardia violata, la gestione `alternativa' del rischio facendo riferimento a presidi rimessi al controllo umano (istruzioni operative interne, formazione degli addetti e vigilanza dei superiori gerarchici) in quell'azienda rivelatisi insufficienti (informazione e formazione) o addirittura di segno opposto a quello della salvaguardia della sicurezza (vigilanza degli addetti che non era espletata)''.

    Nell'ambito dell'appalto affidato dal committente Direzione Generale dei Lavori e Demanio del Ministero della Difesa all'Aeronautica Militare e relativo all'esecuzione presso un Arsenale della Marina Militare, di ``sostituzione coperture metalliche officina costruzioni metalliche e officina attrezzatori'', poi subappaltati con la formula del cottimo fiduciario a una s.r.l., un preposto dell'Aeronautica Militare addetto al cantiere fu imputato, in concorso con altri, di omicidio colposo in danno di un dipendente del Ministero della Difesa in servizio presso il suddetto arsenale. In particolare, ``nel corso dell'esecuzione di lavori di scarico di pannelli coibentati per copertura solai all'interno del cantiere di circa 800 mq. sito nell'Arsenale della Marina Militare, era incautamente depositata una catasta da sei balle di pannelli coibentati - come tale sproporzionata sia per peso che per altezza così raggiunta dal carico - su espressa indicazione dell'imputato e di un preposto della s.r.l., che non verificavano l'effettiva messa in sicurezza del carico da parte dell'incaricato, il quale, nel frattempo, a sua volta, non adempiva alle disposizioni ricevute di procedere all'ancoraggio dei pannelli così accatastati'', sicché ``il carico, peraltro posizionato su un terreno non perfettamente piano e privo di un idoneo sostegno, crollava travolgendo l'infortunato che, mentre transitava in quel punto, veniva in tale modo schiacciato''. La Sez. IV annulla con rinvio per nuovo giudizio la condanna dell'imputato. Addebita, infatti, ai magistrati di merito di non aver svolto ``una accurata individuazione delle concrete mansioni e delle competenze attribuite all'imputato, in maniera tale da poterne affermare la responsabilità penale per la condotta omissiva contestatagli''. Spiega che ``non è chiarito su quali basi egli sia stato riconosciuto quale preposto di diritto o di fatto, trattandosi di lavori affidati alla s.r.l.'', e che ``il ruolo di preposto di fatto non poteva essergli riconosciuto solo in quanto, trovatosi occasionalmente nel cantiere, aveva eventualmente impartito ordini'', occorrendo che ``avesse assunto tale posizione in epoca pregressa rispetto al momento di esecuzione della lavorazione''. Ritiene non chiarito ``sulla base di quali elementi specifici si debba ritenere che l'imputato, quale soggetto in servizio presso l'Aeronautica Militare, avrebbe potuto e dovuto ingerirsi nelle attività della s.r.l., fornendo disposizioni cogenti sulla scelta del sito di stoccaggio e sulle modalità di collocazione delle pile'', e che ``tale potere-dovere non poteva scaturire dalla mera esecuzione dei lavori in zona militare''. Aggiunge che, ``non menzionando l'esistenza di deleghe in materia di sicurezza a carico dell'imputato'', si è desunta ``la sua posizione di `garante di fatto' sulla base della presunta continua ingerenza dell'Aeronautica Militare nei lavori, senza fornire elementi per stabilire in cosa si concretizzasse la suddetta intromissione e se essa fosse ascrivibile alla persona dell'imputato, dei cui reali compiti non si ha contezza certa''. Questo l'insegnamento di fondo: ``Nell'ambito dello stesso organismo, può riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Ciò suggerisce che l'individuazione della responsabilità penale presuppone un'accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Rilevano da un lato le categorie giuridiche e i modelli di agente, dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta di una ricognizione essenziale per un'imputazione personalizzata, in conformità ai principi che governano l'ordinamento penale; ciò al fine di evitare l'indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell'illecito a diversi soggetti''.

    Un caposquadra dei vigili del fuoco ``responsabile della manovra'' fu condannato per omicidio colposo in danno di un vigile esperto impegnato in una esercitazione di discesa mediante fune e caduto da un'altezza di circa 11 m da una torre di addestramento (castello di manovra), ``non sovrintendendo e non vigilando sulla osservanza da parte dei lavoratori dei loro obblighi di legge nonché dell'uso dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e addirittura invitando gli stessi lavoratori ad omettere l'adozione della corda di sicura in violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a) ed e), D.Lgs. n. 81/2008''. A sua discolpa, sostiene che ``ai vigili del fuoco che si addestrano in strutture per ciò predisposte non si applica la normativa a tutela della sicurezza di cui D.Lgs, n. 81/2008''. Sulla scorta del combinato disposto degli artt. 1, D.M. 14 giugno 1999, n. 450 e 304, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, la Sez. IV replica: ``La regola generale è che i vigili del fuoco e i corpi ad esso assimilati rischiano solo quando ciò non può essere evitato: non esiste uno status per cui si può prescindere dalla sicurezza anche quando ciò non sia assolutamente indispensabile. I dispositivi di protezione fanno parte delle misure di sicurezza per lavoratori e il richiamo all'applicabilità del D.Lgs. n. 81/2008 rende palese che non vi è distinzione tra il vigile del fuoco e gli altri lavoratori, salvo che per essi possono verificarsi situazioni operative che differenziano la loro posizione, ln correlazione con l'accettazione del rischio tipico della professione. Ma, fatte salve tali peculiarità, il vigile non è un lavoratore sottoposto immotivatamente ad un maggiore rischio solo per l'appartenenza a tale corpo''. Conseguentemente, quindi, non vi è alcuna norma che stabilisca l'esonero dalle misure di prevenzione nel caso in cui si è infortunato il vigile, ove l'addestramento si poteva compiutamente realizzare anche con la corda di sicurezza, che non rendeva più agevole la manovra (nel senso di non compromettere il fine dell'addestramento, che era quello di acquisire la capacità di scendere da un'altezza servendosi solo di una fune), né era incompatibile con la stessa, ma semplicemente impediva danni in caso di errori.

    In un aeroporto, ``era in corso un'esercitazione dell'aviazione militare, nel corso della quale alcuni elicotteri avrebbero dovuto far fermare una colonna di cinque veicoli militari per simulare un controllo. Un elicottero, pilotato da un maggiore, avrebbe dovuto planare sui veicoli ed atterrare davanti al mezzo di testa, per arrestarne la marcia. Nell'effettuare tale manovra l'elicottero, eseguendo anticipatamente e a quota troppo bassa una prevista virata verso destra con inclinazione molto accentuata, urtava con l'estremità delle pale una camionetta con a bordo, seduto accanto al conducente, un caporalmaggiore, che, colpito alla testa, moriva''. Il maggiore venne dichiarato colpevole di omicidio colposo, ``per avere, in buone condizioni ambientali e di visibilità, effettuato una manovra errata, anticipando la virata a destra spazialmente (di 10-15 metri) e temporalmente (di 2-3 decimi di secondo), così effettuando un angolo più stretto e, in conseguenza, scendendo a 1,50 metri da terra anziché, come previsto, a 5 metri, urtando con le pale il veicolo e così provocando la morte del militare''. A propria discolpa, l'imputato rileva che, ``attesa la necessità di simulare una situazione di guerra in maniera il più fedele possibile ad un conflitto vero, vi era un rischio ineliminabile''. La Sez. IV non condivide questa argomentazione difensiva: ``Il vizio di fondo della tesi difensiva, peraltro in larga parte impostata sul valutazioni soggettive di testimoni militari e sull'esito di un'indagine amministrativa interna ordinata dallo stesso ente chiamato a rispondere come responsabile civile, sia nel concentrarsi nell'analisi minuziosa degli ultimi attimi della complessa e pericolosa manovra, quando ormai, in effetti, non c'era più nulla da fare per correggere la rotta, trascurando tuttavia l'errore commesso `a monte', cioè al momento di inizio della manovra discensionale, sicuramente riconducibile a colpa (imperizia) del pilota, che agì in maniera tale da non rispettare la distanza di cinque metri dal suolo e scese con l'elicottero a 150 centimetri da terra, cioè all'altezza del tetto dei veicoli, al cui interno erano gli altri soldati. L'imputato è un pilota assai esperto e che era a conoscenza delle limitate dimensioni dell'aeroporto nel quale i militari svolgevano l'esercitazione. Attesa la scala di valori tutelati dalla Costituzione, una simulazione bellica, per quanto volta a riprodurre il più fedelmente possibile le condizioni di un effettivo conflitto armato, non deve mettere a repentaglio la vita o l'incolumità dei partecipanti. Sarebbe stato legittimo il rifiuto, seppure proveniente da un militare, che `per statuto' è tenuto all'obbedienza ma nell'ambito di un ordinamento che pur sempre deve improntarsi alle regole democratiche, di proseguire nell'attività di volo, ove giustificato dalla comprovata esigenza di non mettere a rischio vite umane''.

    In seguito a ``un incidente avvenuto durante un'esercitazione di tiro in corso presso un reggimento genio guastatori'', un capitano dell'esercito direttore dell'esercitazione con mitragliatrice fu condannato per il reato di lesione personale colposa: ``essendosi l'arma inceppata, l'imputato poneva in essere manovre volte a riattivarla ed in particolare colpiva l'asta di armamento con un piede provocando l'accidentale esplosione di una munizione il cui proiettile attingeva ad una gamba un maresciallo assistente di tiro che, in quel frangente, si era portato davanti all'arma per raccogliere un sasso da utilizzare per sbloccare la mitragliatrice''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva che ``la disposizione cautelare violata discende dalla normativa regolamentare che `prevede il preciso rispetto di aree di sgombero per l'effettuazione dei tiri con arma da fuoco''', e che ``il D.M. 14 giugno 2000, n. 284 regola proprio `la sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro nell'ambito del Ministero della difesa', sicché neppure può essere posta in discussione la contestata aggravante (di cui all'art. 590, comma 3, c.p.)''. Osserva, inoltre, che ``l'imputato, nella veste di responsabile dell'esercitazione, prima di imprimere un colpo sull'arma inceppata per riattivarla, avrebbe dovuto appurare che l'area di tiro fosse sgombra'', che ``l'iniziativa del sottufficiale che si era portato nell'area di tiro per afferrare un sasso da usare per riattivare la mitragliatrice, sebbene improvvida, non costituisce un comportamento tanto esorbitante da interrompere il nesso causale'', e che ``l'imputato era tenuto a controllare in ogni caso l'area antistante l'arma prima di porre in essere la già descritta condotta''. La conclusione è che ``tali argomentati apprezzamenti sono conformi a consolidati principi in tema di disciplina della sicurezza del lavoro, ed attingono all'essenziale regola che il garante della sicurezza deve farsi carico anche delle possibili condotte imprudenti di altri soggetti coinvolti nella prestazione''.

    ``L'art. 3, comma 8, D.Lgs. n. 81/2008 va letto anche alla luce del disposto dell'art. 2, comma 1, lett. a), dello stesso D.Lgs., che definisce il lavoratore come colui che «indipendentemente dalla tipologia contrattuale svolge un attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari»; dovendosi quindi ritenere, alla luce del combinato delle suddette disposizioni, che il personale domestico escluso dall'area di applicazione del D.Lgs. n. 81/2008 si identifichi in quello definito dall'art. 1 della L. 2 aprile 1958, n. 339 ovvero in coloro che `prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare'''.

    Note a piè di pagina
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    Per il differimento del termine di applicazione delle disposizioni di cui al presente periodo, vedi l'art. 8, comma 12, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122; vedi, anche, il comma 15-bis del medesimo art. 8, D.L. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122.
    Per il differimento del termine di applicazione delle disposizioni di cui al presente periodo, vedi l'art. 8, comma 12, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 20...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Testo modificato dal D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito in legge 26 febbraio 2011 n. 10 e, successivamente, così modificato dall'art. 1, comma 1 del D.L. 12 maggio 2012, n. 57, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2012, n. 101.
    Testo modificato dal D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito in legge 26 febbraio 2011 n. 10 e, successivamente, così modificato dall'art. 1, comma 1 del D.L. 12 maggio 2012, n. 57, convertito, con ...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma così modificato dall'art. 32, commi 2-bis e 2-ter, D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14, dall'art. 29, comma 2, L. 18 giugno 2009, n. 69, dall'art. 3, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106, dall'art. 6, comma 9-ter, D.L. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2010, n. 25, dall’art. 2, comma 51, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, dall’art. 1, comma 01, D.L. 12 maggio 2012, n. 57, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2012, n. 101, e, successivamente, dall’art. 2, comma 3, D.Lgs. 24 novembre 2023, n. 192.
    Comma così modificato dall'art. 32, commi 2-bis e 2-ter, D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14, dall'art. 29, comma 2, L. 18 giugno 2009, n. 69...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Nel presente provvedimento le parole «Ministero del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministero della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali», e le parole «Ministro del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministro della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali», ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106. In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.P.C.M. 28 novembre 2011, n. 231, il D.M. 16 febbraio 2012, n. 51, il D.M. 18 novembre 2014, n. 201 e il D.M. 21 agosto 2019, n. 127.
    Nel presente provvedimento le parole «Ministero del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministero della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministero del lavoro, della salute e delle politic...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.P.C.M. 28 novembre 2011, n. 231, il D.M. 16 febbraio 2012, n. 51 e il D.M. 18 novembre 2014, n. 201.
    In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.P.C.M. 28 novembre 2011, n. 231, il D.M. 16 febbraio 2012, n. 51 e il D.M. 18 novembre 2014, n. 201.
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    Comma così modificato dall'art. 1, comma 1, lett. a), b) e b-bis) del D.L. 12 maggio 2012, n. 57, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2012, n. 101.
    Comma così modificato dall'art. 1, comma 1, lett. a), b) e b-bis) del D.L. 12 maggio 2012, n. 57, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2012, n. 101.
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    Per la proroga del presente termine, vedi l'art. 1, comma 1, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10 e, successivamente, l'art. 1, comma 1, D.P.C.M. 25 marzo 2011.
    Per la proroga del presente termine, vedi l'art. 1, comma 1, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10 e, successivamente, l'art. 1, comma 1, D.P.C...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma inserito dall'art. 3, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall’art. 13-quater, comma 4, D.L. 18 ottobre 2023, n. 145, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 dicembre 2023, n. 191. In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il Decreto 13 aprile 2011.
    Comma inserito dall'art. 3, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall’art. 13-quater, comma 4, D.L. 18 ottobre 2023, n. 145, convertito, con modificazion...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma abrogato dall'art. 55, comma 1, lett. e), D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 57, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 81/2015. La somministrazione di lavoro è ora disciplinata dal D.Lgs. n. 81/2015 (v. in particolare l'art. 35, comma 4: ``Il somministratore informa i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell'attività lavorativa per la quale essi vengono assunti, in conformità al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. Il contratto di somministrazione può prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall'utilizzatore. L'utilizzatore osserva nei confronti dei lavoratori somministrati gli obblighi di prevenzione e protezione cui è tenuto, per legge e contratto collettivo, nei confronti dei propri dipendenti.'').
    Comma abrogato dall'art. 55, comma 1, lett. e), D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 57, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 81/2015. La somm...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Vedi, anche, il D.M. 30 maggio 2017.
    Vedi, anche, il D.M. 30 maggio 2017.
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    Si veda ora art. 52, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015: ``Le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2003 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto.''.
    Si veda ora art. 52, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015: ``Le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2003 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente p...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma così sostituito dall'art. 20, comma 1, lett. a), n. 1), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 43, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 151/2015. Peraltro, l'art. 1 D.L. n. 25/2017, convertito nella L. n. 49/2017, stabilisce che “gli articoli 48, 49 a 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, sono abrogati”. A sua volta, il D.L. n. 50/2017, convertito nella legge n. 96/2017, introduce il c.d. lavoro occasionale, e nell'art. 54-bis prevede che “ai fini della tutela della salute e della sicurezza del prestatore, si applica l'articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.
    Comma così sostituito dall'art. 20, comma 1, lett. a), n. 1), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 43, comma 1 del medesimo D.Lgs....Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
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    Comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma così modificato dall'art. 3, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
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    Comma inserito dall'art. 3, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106, sostituito dall'art. 32, comma 1, lett. 0a), D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98 e, successivamente, così modificato dall'art. 20, comma 1, lett. a), n. 2), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 43, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 151/2015.
    Comma inserito dall'art. 3, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106, sostituito dall'art. 32, comma 1, lett. 0a), D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Nel presente provvedimento le parole «Ministero del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministero della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali», e le parole «Ministro del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministro della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali», ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Nel presente provvedimento le parole «Ministero del lavoro e della previdenza sociale» e «Ministero della salute» sono state sostituite dalle parole «Ministero del lavoro, della salute e delle politic...Testo troncato, continua a leggere nel testo
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    Comma aggiunto dall'art. 35, comma 1, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
    Comma aggiunto dall'art. 35, comma 1, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
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    Comma aggiunto dall'art. 35, comma 1, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
    Comma aggiunto dall'art. 35, comma 1, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98.
    Fine capitolo
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