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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.

    2. I lavoratori devono in particolare:

    a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

    b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;

    c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e le miscele pericolose, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza;83

    d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione;

    e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui alle lettere c) e d), nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell'ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l'obbligo di cui alla lettera f) per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;

    f) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo;

    g) non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori;

    h) partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro;

    i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.

    3. I lavoratori di aziende che svolgono attività in regime di appalto o subappalto, devono esporre apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto.

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. L'obbligo di prendersi cura della propria e altrui salute e sicurezza: il passaggio dal modello iperprotettivo al modello collaborativo e la trasformazione del lavoratore da mero creditore a debitore di sicurezza - 2. Utilizzo corretto di mezzi e dispositivi - 3. Astensione dall'attività pericolosa - 4. La condotta colposa del lavoratore - 5. Lavoratore in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti - 6. Favoreggiamento o falsa testimonianza del dipendente in favore del datore di lavoro e causa di non punibilità - 7. La falsa testimonianza del lavoratore - 8. Il silenzio dei lavoratori sulla pericolosità della lavorazione - 9. Morte del datore di lavoro per colpa del lavoratore - 10. Il gesto autolesionista del lavoratore - 11. Obbligo di segnalazione delle deficienze antinfortunistiche - 12. Violazione dei turni di lavoro da parte del lavoratore - 13. Estorsione e minaccia in danno di lavoratore infortunato o non protetto - 14. Falsa attestazione delle modalità di un infortunio - 15. Braccianti extracomunitari adibiti alla raccolta di agrumi o ortaggi e i cinque morti di Prato - 17. Falsa attestazione dell'infortunato .

    ``In materia di prevenzione antinfortunistica, si è passati da un modello `iperprotettivo', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello `collaborativo' in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (cfr. art. 20 D.Lgs. n. 81/2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia. Si è individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore ed è stato abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale, passandosi, a seguito dell'introduzione del D.Lgs n. 626/1994 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio `dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore' al concetto di `area di rischio' che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva. Resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore''. (Così, per prima, già Cass. pen., Sez. IV, Sentenza n. 15172 del 13 aprile 2015, est. D'Isa; successivamente, v. anche, ad es., Cass. n. 12149 del 31 marzo 2021).

    Occorre, dunque, tener conto delle precisazioni svolte da:

    ``Pur dandosi atto che - da tempo - si è individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore e che è stato abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale, passandosi, a seguito dell'introduzione del D.Lgs n. 626/1994 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio `dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore' al concetto di `area di rischio' che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia; oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro''.

    ``Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi''. (Conformi Cass. 7 novembre 2019, n. 50293; Cass. 27 luglio 2018, n. 36024).

    ``Anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, che ha sottolineato, all'art. 20, la necessità che i lavoratori si prendano cura della propria sicurezza, il datore di lavoro rimane comunque titolare di un obbligo di protezione nei loro confronti ove l'infortunio risulti determinato da assenza o da inidoneità delle misure di sicurezza''.

    ``In tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore'. Risulta evidente come tale principio, il quale recepisce le più recenti tendenze giurisprudenziali che si dirigono verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. principio di autoresponsabilità del lavoratore), non possa trovare applicazione nel caso in esame, difettando il necessario presupposto del completo adempimento, da parte del datore di lavoro, di ogni suo obbligo nascente dalla posizione di garanzia nei confronti del lavoratore''.

    ``Il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, abbia fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore; ciò in quanto il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello ``iperprotettivo'', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello `collaborativo', in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Occorre peraltro considerare che, nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva adempiuto alle obbligazioni discendenti dalla posizione assunta. Conseguentemente, il caso di giudizio resta estraneo dall'ambito di operatività della teorica da ultimo citata, per insussistenza delle specifiche condizioni fattuali di riferimento''. (V. pure Cass. 12 giugno 2018, n. 26855; Cass. 10 febbraio 2017, n. 6379).

    ``La risistemazione delle cinghie presentava alcuni rischi, ai quali il datore di lavoro aveva ritenuto di far fronte semplicemente impartendo divieti, mentre avrebbe dovuto adottare misure organizzative tali da neutralizzare anche eventuali negligenze, imperizie, imprudenze del lavoratore, che non possono ritenersi idonee ad interrompere il nesso causale tra la violazione prevenzionistica attribuibile al datore di lavoro e l'evento illecito, in specie quando esse si realizzano nell'esecuzione dei compiti impartiti. Se è vero che sul lavoratore incombe l'obbligo di osservare le prescrizioni cautelari che a lui si indirizzano, va però puntualizzato che il piano della rimproverabilità del lavoratore per la violazione commessa e quello della causalità (tra la condotta trasgressiva del datore di lavoro e le lesioni subite dal quel lavoratore) non coincidono, come dimostra il semplice rilievo che la violazione prevenzionistica del lavoratore, osservata sotto la diversa prospettiva, può risultare esito proprio di quella imprudenza, imperizia o imperizia che il sistema di tutela prevenzionistica incorpora come un `ordinario' fattore di rischio da considerare, valutare e neutralizzare o attenuare. Tanto dimostra che non è sufficiente evocare le norme che `responsabilizzano' lo stesso lavoratore per concludere che il suo comportamento inosservante diviene unica causa del sinistro. In realtà occorre verificare che quella inosservanza non sia da ricondurre ad un `vizio' del sistema aziendale di prevenzione degli infortuni. Nel caso che occupa il vizio è stato identificato nella assenza di protezione delle pulegge, che aveva reso possibile l'intrappolamento del maglione del lavoratore tra la cinghia e la puleggia''.

    Fece scalpore a suo tempo:

    L'amministratore unico e l'RSPP di una s.r.l. erano imputati del delitto di lesione personale colposa in danno di un dipendente inviato presso il capannone di un'altra ditta per il montaggio di faretti e caduto al suolo dal tetto in un tratto ricoperto da sottili lastre di eternit. La Sez. IV assolve gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Prende atto di alcune circostanze: il lavoro avrebbe potuto-dovuto essere eseguito dall'infortunato facendo uso di un elevatore messo a sua disposizione senza salire sul tetto; l'infortunato - esperto elettricista manutentore, dipendente da cinque anni, nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda, adibito a lavori in altezza quasi tutti i giorni - in seguito a un sopralluogo, rappresentò all'RSPP il lavoro da fare, ricevette l'indicazione di prendere in magazzino tutte le necessarie attrezzature di lavoro e di sicurezza, e in effetti le prese prima di recarsi presso il capannone; il datore di lavoro conosceva i luoghi, in quanto si recava spesso (circa una volta a settimana) presso la ditta committente, con la quale aveva un rapporto da anni, e in una di quelle occasioni aveva ricevuto la richiesta di effettuare la posa dei faretti a mezzo dell'elevatore messo a disposizione dalla stessa committente insieme con una persona addetta alla sua manovra, senza che mai s'ipotizzasse la necessità di salire sul tetto. A questo punto, la Sez. IV si domanda: che tipo di rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni? hanno potuto incolpevolmente il datore di lavoro e il responsabile per la sicurezza fare affidamento sul fatto che un soggetto così esperto non ponesse in essere il comportamento che ha cagionato l'incidente? Questa la risposta: ``nessun rimprovero può muoversi ad entrambi gli imputati, in quanto gli stessi si sono legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui avevano affidato il lavoro da compiersi''. La conclusione è che ``il datore di lavoro non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponde dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore''. (Dichiaratamente conforme Cass. 18 aprile 2018 n. 17392).

    Su questa sentenza torna ora per mano del medesimo estensore:

    ``Appare inconferente ai fini dell'odierno decidere il richiamo al precedente arresto giurisprudenziale di cui a Sez. IV, n. 8883 del 3 marzo 2016, in cui condivisibilmente questa Corte di legittimità affermò che il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore e nella cui motivazione si ebbe a precisare che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello `iperprotettivo', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello `collaborativo' in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Il caso che in quell'occasione impegnò questa Corte di legittimità, infatti, era quello di un datore di lavoro che aveva dotato il proprio stabilimento di ogni presidio antinfortunistico e di un elettricista esperto cui era stato affidato un lavoro in quota da svolgersi attraverso un elevatore e con una serie di strumenti di protezione di cui era stato dotato. Quel lavoro - secondo quanto ricostruito da un teste esperto e come aveva ricordato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione della ditta committente - poteva e doveva essere posto in essere in sicurezza dall'elevatore. L'elettricista in questione, che peraltro era un soggetto particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile sicurezza dei lavoratori della sua azienda, decise, estemporaneamente, forse per fare più in fretta, o comunque incautamente, di salire sul tetto per meglio posizionare i fili, percorse il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, che inevitabilmente si sfondarono, e precipitarono al suolo. Ebbene, che tipo di rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza - si domandò in quell'occasione la Corte - che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, rispetto a siffatto comportamento? Avevano potuto incolpevolmente il datore di lavoro e responsabile per la sicurezza fare affidamento sul fatto che un soggetto così esperto non ponesse in essere il comportamento che aveva cagionato l'incidente? Le risposte da dare a simili quesiti, ad avviso del Collegio, furono in quel caso che nessun rimprovero potesse muoversi ad entrambi gli imputati, in quanto gli stessi si erano legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui avevano affidato il lavoro da compiersi. Ebbene, non sfugge, anche ad un lettore distratto, che il caso è ben diverso da quello che ci occupa. Nel caso oggi in esame siamo di fronte ad un soggetto, investito formalmente della posizione di garanzia, che non si pone in condizione di conoscere non un comportamento estemporaneo di un lavoratore imprudente, ma una pericolosa prassi operativa che andava ormai avanti da tempo finalizzata a sopperire al malfunzionamento di un macchinario che la normativa gli imponeva, nella sua qualità, di far sottoporre a manutenzione tecnica''. (Questa sentenza è ampiamente riportata sub art. 2, paragrafo 7, lettera C).

    Come emerge dall'art. 20, comma 2, lettere c) e d), D.Lgs. n. 81/2008:

    Il conducente di un autoarticolato di proprietà dell'azienda sua datrice di lavoro fu condannato per il delitto di incendio boschivo colposo, in quanto omise di tener conto «dello stato degli pneumatici eccessivamente usurati, tanto che uno di essi, durante un tragitto, scoppia prendendo fuoco», e, «per giunta, non arrestò l'automezzo che, durante il viaggio, aveva perso pezzi di gomma in fiamme che avevano appiccato alla campagna circostante un incendio che aveva percorso circa 660 ettari, anche in aree coperte da bosco».

    Nel confermare la condanna dell'imputato, la Sez. IV osserva che «gli obblighi incombenti sul lavoratore ai sensi dell'art. 5, D.Lgs. n. 626/1994 [e ora dell'art. 20, D.Lgs. n. 81/2009] non si esauriscono nel dovere di comunicazione al datore di deficienze e condizioni di pericolo conosciute in relazione ai mezzi, ma richiamano anche quello di `utilizzare correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonché i dispositivi di sicurezza'; sicché la loro violazione non può ritenersi circoscritta all'ambito del rapporto di lavoro e della prevenzione antifortunistica, ma può comportare anche la responsabilità personale del lavoratore verso terzi danneggiati in conseguenza dell'inadempimento». (V. anche Cass. 11 marzo 2016, n. 10183).

    Il lavoratore ha il diritto e/o l'obbligo di astenersi da un'attività pericolosa? L'interrogativo solleva l'interesse della giurisprudenza:

    Una dipendente s'infortuna nell'operare ``su una macchina, su specifica disposizione dell'azienda, in condizioni di assoluta insicurezza, essendo stati rimossi i sistemi di protezione posti a tutela dell'incolumità degli addetti''. La Sez. IV insegna: ``Non è mai configurabile il concorso di colpa del lavoratore quando le disposizioni di sicurezza dettate dal datore di lavoro e non rispettate dal dipendente siano di per sé illegali e contrarie ad ogni regola di prudenza''.

    Un lavoratore contesta la legittimità del licenziamento per giusta causa comminatogli dalla s.p.a. datrice di lavoro a seguito di lettera di contestazione con cui gli era stato addebitato di ``essersi rifiutato di prestare attività lavorativa su di una pressa senza giustificato motivo all'inizio di un turno e di non essersi poi recato dal direttore di stabilimento, benché convocato, per rendere spiegazioni''. La Sez. Lav. ribatte: ``Il lavoratore aveva rifiutato di lavorare sulla pressa nonostante non vi fossero controindicazioni di salute, rientrando i pezzi da lavorare in un peso di due/tre kg, inferiore a quello di 5 kg, limite di cui beneficiava il lavoratore per prescrizione medica''. ``Il rifiuto ingiustificato di lavorare sulla pressa e il non presentarsi in direzione come richiestogli dal superiore, costituiscono una grave insubordinazione, suscettibile di licenziamento in tronco''.

    L'amministratore di fatto di una s.r.l., condannato per l'infortunio occorso a un lavoratore non dipendente da lui chiamato ad effettuare la pulitura del lucernario di un capannone acquistato da un terzo e caduto dal tetto per cedimento di una lastra in amianto, sostiene che ``l'infortunio è avvenuto al di fuori di un luogo di lavoro, al di fuori delle mansioni affidate all'infortunato, e, quindi, in una condizione nella quale la persona offesa doveva disapplicare l'ordine impartitogli dal datore di lavoro (c.d. ius resistentiae)'', e che, quindi, si era verificata ``un'ipotesi di rischio elettivo, tale da far venire meno il nesso causale tra il sinistro e l'adozione delle misure necessarie a fini prevenzionistici''. La Sez. IV ribatte che l'imputato aveva posto il lavoratore nelle condizioni di aderire alla richiesta di aiutarlo in mansioni intrinsecamente pericolose (cfr. art. 148 D.Lgs. n. 81/2008) alle quali egli veniva assegnato senza che l'imputato gli fornisse i necessari dispositivi di protezione, né si sincerasse, come suo dovere normativamente previsto, che la copertura del capannone avesse resistenza sufficiente per sostenere il peso. Né si versava in una condizione di `rischio elettivo' da parte della persona offesa - come tale interruttiva del nesso causale -, atteso che tale condizione sarebbe astrattamente ipotizzabile solo nel caso di accertata abnormità del comportamento del lavoratore; ed è interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Era l'imputato a governare il rischio concretizzatosi - quale soggetto tenuto ad assolvere agli obblighi di cui all'art. 148 D.Lgs. n. 81/2008 -, ed era pienamente prevedibile, da parte sua, il rischio indotto dall'operazione di pulitura del lucernario: operazione che, si badi, non derivava da un'autonoma, spontanea e imprevedibile decisione del lavoratore, ma, appunto, da una richiesta rivolta a quest'ultimo dall'imputato.

    ``In nessun modo poteva integrare la revoca dell'originario incarico di intervento la interlocuzione tra il lavoratore infortunato, che manifestava al datore di lavoro le proprie perplessità sulla pericolosità del lavoro, e le risposte dell'imputato il quale, dopo avere tentato ripetutamente di rassicurarlo affinché l'intervento venisse realizzato, gli rivolgeva un laconico `se non te la senti lascia stare', che aveva ancor più indispettito il lavoratore, provocandone la reazione contraria''.

    Condannato per un infortunio, il preposto in materia antinfortunistica sostiene che l'infortunato ``avrebbe dovuto opporre legittimo rifiuto a fronte della richiesta del preposto, il quale gli aveva ordinato di avvalersi di un precario strumento per operare dall'alto''. Replica della Sez. IV: ``La vittima, ben lungi dal trovarsi in attività pericolose per inopinata decisione, fu ruvidamente invitata a dar corso alla lavorazione, nella totale violazione della normativa antinfortunistica proprio dall'imputato, il quale gli aveva intimato di non tergiversare e che `se non gli andava bene, poteva starsene a casa'.''.

    Per l'infortunio subito dalla dipendente di un'impresa di pulizie investita da un carrello elevatore all'interno dello stabilimento della s.p.a. committente, la Sez. IV conferma la condanna del conducente del carrello (oltre che del dirigente con delega antinfortunistica della s.p.a.): ``Deve ritenersi concorrente nel delitto, per la violazione delle norme di prudenza, diligenza e di prevenzione degli infortuni, il lavoratore dipendente che - alla guida di un mezzo privo di idoneo posto di manovra e senza la presenza di incaricati alle segnalazioni, in condizioni di precaria visibilità e, quindi, di estrema pericolosità - investe una persona causandogli lesioni. Il lavoratore dipendente, infatti, pur non potendo ingerirsi nell'organizzazione aziendale, ha l'obbligo di rifiutarsi di operare in simili condizioni di estremo rischio per la sicurezza collettiva, con la conseguenza che l'accettazione del rischio connesso all'esecuzione, in tali condizioni, della propria prestazione comporta l'inevitabile associazione dello stesso lavoratore alla responsabilità per gli eventi lesivi in concreto provocati''.

    Il caso esaminato da questa sentenza merita una particolare attenzione: il conducente di un muletto adibito al trasporto di bombole di gas in un viale di collegamento tra i vari reparti dello stabilimento di una s.p.a. investe altro lavoratore, avendo la vista ostruita dalle bombole trasportate sul muletto. La sua colpa fu ravvisata «nel non aver utilizzato una gru, nell'aver condotto il muletto non in retromarcia ma con la visuale ostruita e nel non essersi fatto aiutare da altra persona per evitare il rischio di investimento di coloro che si trovavano all'interno dello stabilimento». A propria discolpa, l'imputato deduce che si era «omesso di verificare, nell'indicare le condotte che avrebbero potuto evitare l'incidente (uso di gru, persona che lo aiutasse) se le medesime fossero disponibili», e non si era tenuto «conto della circostanza che il muletto da lui utilizzato non era adatto ad essere guidato in retromarcia». La Sez. IV replica che, «nello svolgimento di attività potenzialmente rischiose, è obbligo dell'agente adottare le modalità che si appalesino, in concreto, le meno pericolose». Sostiene che, «se non è possibile individuare o non è possibile attuare tali modalità, la conseguenza non è quella di rendere legittimo l'uso delle modalità pericolose e di esonerare l'agente da responsabilità per i fatti dannosi cagionati ma quella dell'insorgere dell'obbligo di astensione dallo svolgimento di quella attività». E spiega: «Può anche ammettersi che non fosse disponibile la gru, che non vi fossero persone che potevano operare le opportune segnalazioni, che le caratteristiche del muletto non consentissero la guida in retromarcia. Da ciò può forse derivare una liceità della condotta, malgrado l'elevato rischio di investimento delle persone che frequentavano lo stabilimento oppure queste circostanze facevano sorgere nell'imputato l'obbligo di astenersi dal porre in essere l'attività in esame certamente non indifferibile? Non sembra che la risposta possa essere dubbia o che sia necessario svolgere ulteriori argomentazioni trattandosi di condotta gravemente colposa che nella causazione dell'evento ha avuto efficacia determinante».

    Nel senso che ``nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. (adempimento di un dovere), perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge'' v., nel settore alimentare, Cass. 24 gennaio 2017 n. 3394. Circa l’obbligo previsto dall’art. 20, comma 2, lett. g), D.Lgs. n. 81/2008 che impone al lavoratore di “non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori” Cass. 13 dicembre 2023 n. 49496.

    ``Pur dandosi atto che a seguito dell'introduzione del D.Lgs n. 626/94 e, poi, del T.U. n. 81/2008 si è passati dal principio «dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore» al concetto di «area di rischio» che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (, oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro. In ogni caso, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un `rischio eccentrico', con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio del comportamento imprudente''. (V. anche Cass. 7 dicembre 2023 n. 48771).

    ``Il concorso di colpa del lavoratore può incidere solamente sulla commisurazione del quantum di pena in capo al datore di lavoro, senza poterne in nessun caso escludere la responsabilità, con l'unica eccezione rappresentata dall'abnormità di tale condotta, ricorrente solamente ove essa sia esorbitante dal procedimento di lavoro ed incompatibile con il sistema di lavorazione. Inoltre, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile scelta del lavoratore, e dunque è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia''. (V. anche, tra le tante, Cass. 27 luglio 2023 n. 32661; Cass. 9 agosto 2022 n. 30795).

    ``Si è individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore ed è stato abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale, passandosi, a seguito dell'introduzione del D.Lgs n. 626/1994 e, poi, del T.U. n. 81/2008, dal principio `dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore' al concetto di `area di rischio' che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva. Resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia; oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro''. (V. anche Cass. 23 luglio 2021, n. 28721; Cass. 25 giugno 2021, n. 24830, ove si afferma che ``Il mancato adempimento da parte del dipendente agli obblighi previsti dall'art. 20 D.Lgs. n. 81/2008, e più in generale al dovere di collaborazione, non costituisce mai un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare, ma proprio uno di quei rischi, mentre è chiaro che la condotta tenuta dal lavoratore può sempre, in quanto connotata da un atteggiamento imprudente, imperito o negligente, o ancora posta in essere in violazione di specifiche disposizioni e direttive, concorrere nella causazione dell'evento, e come tale essere valutata in termini di colpa concorrente a quella del datore di lavoro''; Cass. 11 giugno 2021, n. 23138; Cass. 8 giugno 2021, n. 22254).

    Per casi di ipotizzata colpa del lavoratore infortunato:

    Il dipendente di una s.p.a. appaltatrice di lavori su un viadotto autostradale - intento allo smontaggio di un parapetto lungo 4 metri e pesante circa 240 kg non preventivamente imbragato - viene mortalmente schiacciato dal parapetto ribatatosi. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna del direttore tecnico di cantiere e del preposto: ``La vittima, operaio assai esperto, punto di riferimento per i colleghi ed i dirigenti, prima ha intimato a un operaio di astenersi dal continuare lo smontaggio del pesante parapetto sino all'arrivo della gru per poter procedere all'imbragatura, così dimostrando di ben conoscere la procedura di sicurezza e di avere intenzione di rispettarla, per poi, una volta rimasto solo, riprendere il pericoloso smontaggio dei bulloni, con il tragico esito''. Inoltre, ``l'attività lavorativa avrebbe dovuto cominciare alle ore 07 del mattino, ma l'infortunio è avvenuto tra le 6.40 e le 7, prima ancora dell'orario di inizio'', il che ``potrebbe avere rilievo onde affermare ovvero escludere la responsabilità degli imputati, essendo il fatto accaduto in un orario in cui nessuno dei due era tenuto ad essere presente in cantiere''. Temi di fatto che si suggerisce al giudice del rinvio di approfondire: ``se, in ipotesi, esistesse o meno una prassi di tolleranza verso condotte irregolari o pericolose nel cantiere; se vi fosse una prassi di iniziare le lavorazioni prima dell'orario prefissato, e, nell'eventuale affermativa, la ragione''. (Su un caso di responsabilità del datore di lavoro e del dipendente v. Cass. 8 giugno 2022 n. 22164: In una ditta, alla guida di un carrello elevatore, un dipendente investe da tergo un trasportatore autonomo intento a scaricare materiale dal proprio automezzo su incarico del titolare della ditta. Condannati per lesione personale colposa il titolare e il dipendente).

    Infortunio mortale in un'azienda agricola a un lavoratore adibito a operazioni di trinciatura. ``Incombe sul datore di lavoro il compito di vigilare, anche mediante la nomina di un preposto, sulle modalità di svolgimento del lavoro in modo da garantire la corretta osservanza delle disposizioni atte a prevenire infortuni sul lavoro, in quanto il datore di lavoro deve vigilare per impedire l'instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. Nel caso in esame, però, il datore di lavoro era del tutto impossibilitato a prevedere la pericolosità del macchinario adoperato dal lavoratore, perché aveva condiviso assieme a quest'ultimo la scelta di uno di tipologia del tutto diversa (avente l'effetto di trascinare i residui e non di ruotare, col rischio di espellerli ad elevata velocità). Né il datore di lavoro poteva immaginare che il lavoratore avrebbe adoperato un macchinario (la trinciatrice), senza il suo consenso, di potenza tale da determinare l'espulsione di detriti e di corpi metallici ad elevata velocità. In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, l'obbligo di formazione e informazione gravante sul datore di lavoro riguarda tutti i rischi presenti nel luogo di lavoro, anche non specificamente connessi alle mansioni affidate ai lavoratori, ma non le attività eccentriche rispetto a quelle proprie di quel tipo e luogo di lavoro. Il datore di lavoro aveva svolto un'adeguata analisi ed una corretta valutazione del rischio. In ogni caso, la valutazione del rischio non ha natura direttamente cautelare, sicché dalla sua mancanza o inadeguatezza non può farsi discendere automaticamente l'addebito colposo in relazione ad uno specifico evento lesivo; il rimprovero può essere mosso solo quando l'inadempimento abbia concretamente impedito l'apprestamento di uno strumentario cautelare, che avrebbe evitato l'infortunio. Il datore di lavoro aveva ragionevolmente escluso da ogni valutazione la possibilità di utilizzo di un macchinario imprevisto, più potente, diverso da quello stabilito e non disponibile in azienda. La lavorazione era stata programmata mediante l'uso del RIP e non della trinciatrice, ma la repentina ed inaspettata decisione del lavoratore di modificare le modalità di intervento aveva totalmente stravolto la valutazione del rischio correttamente operata dal datore di lavoro. Inoltre, non risulta accertato che, per la tipologia di lavorazione in questione, fosse prevista inderogabilmente l'adozione di meccanismi di protezione al volto e ad altre parti del corpo (impiego di trattore con vetri laterali, utilizzo di visiere, ecc.). Il giorno del fatto, l'utilizzazione di un macchinario pericoloso per il tipo di terreno su cui operare, diverso da quello concordato, acquisito solo pochissimo tempo prima della lavorazione e all'insaputa del datore di lavoro, da parte di un dipendente di notevole esperienza, costituivano fattori - complessivamente considerati - di natura eccezionale ed imprevedibile, frutto di un'iniziativa autonoma, che si svolgeva in un ambito del tutto eccentrico rispetto alle mansioni affidate e che introduceva un rischio nuovo non preventivabile ed evitabile. La natura abnorme della condotta del lavoratore, pertanto, interrompeva il rapporto di causalità tra le omissioni contestate nell'imputazione e l'evento mortale, per cui la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste''.

    Gli itinerari giurisprudenziali in materia sono ripercorsi da:

    La Sez. IV tenta di ripercorrere gli itinerari giurisprudenziali in materia. Parte dall'insegnamento dato dalle Sezioni Unite nel caso ThyssenKrupp (Cass. 18 settembre 2014 n. 38343, ma v. già, del medesimo estensore, Cass. 21 dicembre 2012 n. 49821, in ISL, 2013, 2, 106): ``va considerata interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore che si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso'', e, quindi, ``tale comportamento è `interruttivo' non perché `eccezionale' ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare''. Rammenta poi che, ``in passato, la condotta colposa del lavoratore era stata ritenuta idonea ad escludere la responsabilità dell'imprenditore, dei dirigenti e dei preposti in quanto esorbitante dal procedimento di lavoro al quale egli era addetto oppure concretantesi nella inosservanza di precise norme antinfortunistiche''. Rileva che, ``in alcune sentenze'', ``siffatto principio è stato ribadito, e si è altresì sottolineato che la condotta esorbitante deve essere incompatibile con il sistema di lavorazione o, pur rientrandovi, deve consistere in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, tali non essendo i comportamenti tipici del lavoratore abituato al lavoro di routine'', mentre, ``in altre sentenze, si è sostenuto che l'inopinabilità può essere desunta o dalla estraneità al processo produttivo o dall'estraneità alle mansioni attribuite, o dal carattere del tutto anomalo della condotta del lavoratore''. Osserva che, ``se, quindi, da un lato, è stato posto l'accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l'inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l'infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro''. Precisa che, ``in sintesi, si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell'area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro'', e che, ``cionondimeno, quest'ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio ed aver adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro''. Spiega che ``la giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l'infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità'', e che ``le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l'area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare I'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli''.

    Anche un lavoratore può essere ritenuto responsabile dell'infortunio occorso ad altro lavoratore:

    Un lavoratore intento a maneggiare il braccio della betonpompa utilizzato per immettere cemento rimaneva folgorato, in quanto la betoniera era stata collocata dall'autista a circa dieci centimetri dalla linea elettrica sovrastante non disattivata. Nel confermare la condanna anche dell'autista, la Sez. IV osserva: ``Al di là degli obblighi gravanti sul datore di lavoro, al lavoratore sono imposti una serie di obblighi che lo costituiscono parte attiva del sistema, di cui l'art. 20 D.Lgs. n. 81/2008 reca una analitica indicazione. Oltre ad un obbligo di autotutela per il quale il lavoratore é innanzitutto garante di se stesso, egli deve altresì farsi carico dell'integrità delle altre persone presenti sul luogo di lavoro su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni emergendo pertanto un ruolo attivo e partecipativo nella gestione della sicurezza. Nella specie, indipendentemente dalla responsabilità del datore di lavoro, incombeva sull'autista l'obbligo di segnalare il pericolo provocato dal posizionamento della betonpompa di cui secondo norme di normale prudenza si sarebbe dovuto rendere conto''.

    Nello stabilimento di una s.p.a., due operai - incaricati di portare un motore, tramite un paranco, all'officina del piano sottostante secondo dettagliate modalità che garantivano la sicurezza dell'operazione - ``decidono di non seguire le puntuali istruzioni date dal loro superiore, in quanto ritenute gravose, e insieme si adoperano per rimuovere una porzione della griglia che faceva parte del pavimento di quel piano per calare la macchina da tale apertura utilizzando un paranco mobile che avevano attaccato ad una capretta metallica posta sopra la botola stessa''. L'operazione riesce, e uno dei due scende al piano di sotto per togliere il cavo del paranco dal macchinario. Peraltro, i due non concordano le azioni successive, e così il lavoratore sceso al piano di sotto risale subito al piano soprastante per vedere se l'altro avesse bisogno di aiuto. Quest'ultimo, nel frattempo, si accinge a riposizionare la griglia sulla apertura al fine di ripristinare il pavimento e quindi sposta la capretta metallica. La persona offesa mette il piede nella botola non ancora richiusa e precipita al piano inferiore, da un'altezza di 4,5 metri. A sua discolpa, il lavoratore imputato sostiene che, ``nella qualità di semplice operaio, non era gravato da alcun obbligo di natura antinfortunistica, non rivestendo la qualifica né di datore di lavoro né quella di altra figura equiparabile''. La Sez. IV non è d'accordo. Osserva che ``il giudizio di responsabilità si fonda sulla ritenuta posizione di garanzia ricoperta dall'imputato ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. n. 81/2008, che, al comma 1, recita `ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro'''. Ne desume che, ``in materia di infortuni sul lavoro, il lavoratore, in base al citato disposto normativo, è garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri colleghi di lavoro o di altre persone presenti, quando si trova nella condizione di intervenire per rimuovere le possibili cause di pericolo, in ragione della maggiore esperienza lavorativa''. Rileva come, nel caso di specie, l'imputato, ``quale operaio addetto alla manutenzione, avesse un'anzianità ed una formazione tali da potere apprezzare e cogliere il pericolo creato dalla procedura seguita per calare il macchinario al piano sottostante, in violazione delle disposizioni appena ricevute dal superiore''.

    Per l'incendio scoppiato nello stabilimento di una s.r.l. ``nel corso delle operazioni di carico di una cisterna contenente residui di gas propano e propilene sollevata a mezzo di una gru per essere caricata su un autotreno di proprietà di una ditta di trasporti'', fu condannato un operaio della s.r.l. per colpa individuata nell'``avere consentito l'ingresso nello stabilimento dell'autotreno privo del necessario dispositivo di sicurezza antincendio'' e nell'``avere provveduto a fare caricare la cisterna sull'autocarro senza essere sicuro che non contenesse residui di gas''. La Sez. IV rileva che l'imputato, ``essendo stato investito del compito di sovrintendere alle operazioni di carico, avrebbe dovuto assumere, prima e durante il loro svolgimento, tutte le precauzioni necessarie al fine di scongiurare eventuali incidenti''.

    Un caso particolare in:

    Un dipendente in servizio presso la fermata di una metropolitana ``interviene d'iniziativa per liberare gli occupanti di un ascensore bloccato, una donna e il figlio minore, ``intraprendendo una rischiosa manovra di apertura di emergenza delle porte dell'ascensore bloccato in corrispondenza del vano di un ascensore affiancato, senza avvertire gli occupanti del varco di 40 cm venutosi a creare tra le due cabine e senza avvalersi di apposito dispositivo di collegamento'', e ``causa la morte del minore, il quale precipitava nel varco creatosi tra i vani degli ascensori affiancati, cadendo da un'altezza di oltre venti metri''. La Sez. IV conferma la condanna per omicidio colposo commesso con violazione della normativa antinfortunistica, e segnatamente dell'art. 20 D.Lgs. n. 81/2008''. E in particolare prende atto che i magistrati di merito hanno in modo puntuale ritenuto insussistente la scriminante dello stato di necessità.

    Circa la responsabilità - a volte esclusiva, a volte concorrente - del gruista o del conducente di mezzi come un furgone o un locomotore o un muletto o un carrello elevatore o una betoniera o una pala meccanica o una beton pompa o un semirimorchio v., ad es., Cass. 17 novembre 2020 n. 32194; Cass. 19 ottobre 2018, n. 47802; Cass. 26 giugno 2018, n. 29303; Cass. 17 luglio 2015, n. 31234; Cass. 12 novembre 2013, n. 45538, Marchi; Cass. 3 aprile 2008, 13936, Cavicchioli e altri, inedita; Cass. 15 aprile 2008, n. 15557, Vizzari, inedita. Su un caso di esclusione della responsabilità di un datore di lavoro per ``condotta deviante posta in essere da soggetto estraneo all'impresa, per interesse suo proprio, previo acquisto non autorizzato del bene'', cfr. Cass. 18 maggio 2918, n. 22034, sub art. 37, paragrafo 11.

    Lo stato di ebbrezza del lavoratore infortunato vale a escludere o a limitare le responsabilità dei garanti della sicurezza?

    Infortunio mortale in danno di un lavoratore caduto da un'altezza di oltre otto metri in quanto intento a sostituire le onduline di copertura di un capannone con lastre in fibrocemento calpestabili e sganciatosi dalla linea vita a causa della rottura di una ondulina. Condannati sia il l'amministratore della s.r.l. proprietaria del capannone e committente dei lavori, sia il titolare della s.r.l. appaltatrice datore di lavoro dell'infortunato. Con addebito al secondo di ``aver omesso di predisporre un documento di valutazione dei rischi connessi all'attività da realizzare così come di accertare l'adeguatezza del POS il quale manca di ogni valutazione circa il rischio di caduta dall'alto'', e di aver fornito dispositivi di sicurezza e formazione-informazione inadeguati. A propria discolpa, il datore di lavoro sottolinea ``l'abnormità della condotta del lavoratore come tale idonea ad interrompere il nesso causale tra l'asserita violazione delle norme cautelari e l'evento morte''. Ma la Sez. IV ne conferma la condanna (così come del committente). Afferma che, ``benché non si conosca la ragione precisa per cui il lavoratore aveva sganciato la propria cintura di sicurezza dalla linea guida (presumibilmente per prendere uno strumento), è certo che ciò si spiega con l'esigenza di compiere un'attività che non si poteva svolgere rimanendo agganciati tenuto conto della lunghezza della corda che era rigida e non retrattile''. Rileva con i magistrati di merito come ``in tale contesto da cui emerge la completa inadeguatezza del sistema di sicurezza approntato, la condotta dell'infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento in quanto la stessa è riconducibile all'area di rischio inerente all'attività dal medesimo svolta e ne costituisce anzi la concretizzazione''. Precisa, inoltre, che ``lo stato di ebbrezza, anche ove provato, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro trattandosi comunque di evento riconducibile all'area di rischio governata dal datore di lavoro''. Insegna che, ``in tema di infortuni sul lavoro, la circostanza che il lavoratore possa trovarsi, in via contingente, in condizioni psico-fisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnati è evenienza prevedibile, che come tale non elide il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l'infortunio occorso''. (V. anche Cass. 30 agosto 2022 n. 31879).

    Condannato per l'infortunio occorso a un operatore pulitore addetto a una moto-spazzatrice, il dirigente dell'area cokeria di una s.p.a. fu condannato per non aver fornito alla persona offesa una idonea e specifica formazione e informazione circa il metodo d'uso della motospazzatrice. A sua discolpa, l'imputato sottolinea lo ``stato di intossicazione della persona offesa, dovuto all'uso di sostanze stupefacenti e di cui era stato trovato in possesso, e che ``tale circostanza lungi dall'essere una concausa era la causa esclusiva dell'incidente''. Replica della Sez. IV: ``La positività alla droga dell'infortunato non documentava l'uso della sostanza al momento dell'incidente, anzi le deposizioni raccolte escludevano tale circostanza; la positività era compatibile con il fatto che i metaboliti rimangono presenti nell'organismo anche a distanza di tempo dall'assunzione. La circostanza che la vittima fosse al momento del fatto in stato di alterazione per l'assunzione di droga è stata esclusa alla luce delle deposizioni raccolte e la presenza della `positività' alla droga è stata ritenuta in modo convincente compatibile con le richiamante deposizioni, considerato che le tracce della droga permangono nell'organismo anche a distanza di tempo dall'assunzione''.

    Il caso riguarda l'infortunio mortale subito da un lavoratore edile impegnato nella sigillatura del vano finestra di un locale sito al primo piano di un edificio e precipitato al suolo da cinque metri di altezza. Si accertò che «non erano state apprestate opere provvisionali all'esterno del vano, sul lato prospiciente il vuoto», e che il lavoratore «presentava un tasso alcolemico pari a 2,40 grammi al litro, quindi un valore implicante una marcata alterazione delle performance psicofisiche con disturbi di equilibrio, atassia, sensazione di instabilità ed ebbrezza».

    Nel confermare la condanna del datore di lavoro dell'infortunato, la Sez. IV osserva che, «una volta stabilito che il vano finestra entro il quale doveva operare l'infortunato doveva essere provvisto di protezioni sul vuoto, l'essersi posto all'opera in stato di ebbrezza rappresenta una condotta colposa del lavoratore avente valore di concausa dell'evento prodottosi; come tale non idoneo ad escludere l'efficienza causale dell'inosservanza ascritta all'imputato». Spiega che «la condotta maldestra, inavvertita, scoordinata, confusionale per effetto dell'ebbrezza alcolica, null'altro è che un comportamento imprudente, anche a fronteggiare il quale è posto l'obbligo prevenzionistico facente capo al datore di lavoro».

    Un datore di lavoro fu condannato per omicidio colposo in danno di un lavoratore per colpa consistita «nella inosservanza delle norme prevenzionali che impongono di adottare, nei lavori che sono eseguiti ad una altezza superiore ai due metri, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone o di cose, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi e di far utilizzare agli operai idonea cintura di sicurezza con bretelle collegata a fune di trattenuta nei lavori presso gronde o cornicioni, sui tetti, sui ponti sviluppabili a forbice sui muri di demolizione e nei lavori analoghi che comunque espongano a rischi di caduta dall'alto o entro cavità, quando non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti»: «il lavoratore operava in mancanza delle predette condizioni, e, mentre procedeva camminando all'indietro facendo un giro di controllo del lavoro eseguito, perdeva l'equilibrio e precipitava al suolo». In questo quadro, «è stato escluso che la caduta sia imputabile allo stato di ebbrezza della vittima pur in presenza di un tasso alcolemico riscontrato nella misura di 0,9 g/l».

    Un lavoratore era precipitato da un impalcato privo di protezioni nel corso di lavori di allestimento del cantiere per la ristrutturazione di una torre piezometrica affidati in appalto da un comune.

    Nel confermare la condanna dell'appaltatore subappaltante e del coordinatore per la progettazione e per la esecuzione dei lavori, la Sez. IV esamina, in particolare, la tesi difensiva che sottolinea «la incidenza della assunzione di alcolici, ritenuta non significativa dai giudici di merito nonostante il riscontrato valore di alcolemia superiore ai limiti consentiti per la guida e tale da scemare in modo significativo la lucidità del soggetto, tanto più che l'infortunato pesava appena 45 kg.»: costui «aveva bevuto quasi un litro di vino in violazione della normativa in materia di sicurezza che impone al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e quindi di non consumare alcool durante il lavoro». Spiega in proposito che l'infortunato «aveva bevuto vino durante il pranzo (comportamento abituale di molti lavoratori dell'edilizia) e aveva un tasso alcolemico al momento dell'evento di 1,1 - 1,2 gr./l, valori che potevano implicare una attenuazione della vigilanza e dei tempi di reazione». E tuttavia esclude che «tale stato potesse valere come causa interruttiva del nesso causale e ha fondato tale conclusione sulla considerazione che il tasso alcolemico, anche perché l'assunzione di vino era avvenuta durante il pranzo, non era tale da comportare un grave stato di ubriachezza, e dunque il mancato controllo delle proprie azioni, e che la caduta dal ponteggio non sarebbe stata possibile ove questo avesse avuto le protezioni regolamentari».

    Per ulteriori ipotesi di infortuni occorsi a lavoratori in stato di ebbrezza o tossicodipendenti v. Cass. 27 febbraio 2009, n. 9030; Cass. 20 febbraio 2008, n. 7709; Cass. 20 luglio 2007 n. 29172. Illuminante in argomento Cass. 17 settembre 2013, n. 38129, ampiamente riportata sub art. 28, al paragrafo 24.

    Tre lavoratori furono condannati per falsa testimonianza resa nell'ambito di un procedimento penale a carico del loro datore di lavoro (imputato del reato di cui all'art. 22, D.Lgs. n. 286/1998 per aver occupato nella sua azienda un cittadino extracomunitario sprovvisto del permesso di soggiorno), avendo dichiarato di non aver mai visto extracomunitari lavorare in tale azienda. A propria discolpa, gli imputati sostengono di essersi tutelati ``dal rischio della perdita del posto di lavoro''. La Sez. VI conferma la condanna. Per cominciare, aderisce all'orientamento secondo il quale ``la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un'accusa penale nei suoi confronti, ovvero per il timore di essere licenziato e perdere il proprio posto di lavoro, tutelando in tal modo l'esercizio sia del diritto di difesa che del diritto al lavoro, quali manifestazioni della libertà personale di ciascun individuo''. Precisa, peraltro, che, ``in tema di reati contro l'amministrazione della giustizia, l'esimente prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. non può essere invocata sulla base del mero timore, anche solo presunto o ipotetico, di un danno alla libertà o all'onore, in quanto essa implica un rapporto di derivazione del fatto commesso dalla esigenza di tutela di detti beni che va rilevato sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione''. Ritiene necessario che, nel caso di specie, ``sia emersa la effettiva situazione degli imputati rispetto all'addotto temuto pericolo di perdere il posto di lavoro nella officina del soggetto beneficiato dalle loro false dichiarazioni testimoniali, attraverso indicazioni relative alla natura del loro rapporto di lavoro, alle eventuali condotte poste in essere dal datore di lavoro nei loro confronti a seguito dei primi accertamenti, alle condizioni personali e familiari degli stessi imputati''. E prende atto che ``alcunchè è stato nemmeno dedotto nel giudizio di merito, risolvendosi il motivo di ricorso solo oggi proposto in una mera evocazione di principio sfornita di qualsiasi fondamento obiettivo''.

    Due lavoratori di un'impresa edile furono dichiarati colpevoli del delitto di favoreggiamento personale «per avere aiutato il loro datore di lavoro ad eludere le investigazioni dell'autorità per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche connesso all'incidente sul lavoro patito da un operaio straniero presso il cantiere edificatorio di una scuola» («reato di cui comunque il datore di lavoro è stato dichiarato colpevole per mancato allestimento in cantiere di idonee misure per la prevenzione dell'infortunio occorso»). In particolare, la condotta favoreggiatrice fu ravvisata nelle «mendaci informazioni da entrambi rese agli ufficiali di p.g. della ASL procedenti ad inchiesta infortunistica, ai quali dichiaravano di non aver mai visto il lavoratore infortunato presso il cantiere ed in ogni caso che nessun infortunio era mai avvenuto presso detto cantiere».

    Nell'annullare la sentenza di condanna (senza rinvio per un imputato mosso dal timore di incriminazione per omissione di soccorso e con rinvio per l'altro indotto dal timore di perdere il posto di lavoro), la Sez. VI impartisce due insegnamenti.

    Il primo insegnamento è che «il diritto di difesa costituisce il paradigma di apprezzamento del bene della libertà individuale che il favoreggiatore salvaguarda con la propria condotta antigiuridica», e che «diventa indifferente o non rilevante l'evenienza per cui la situazione di pericolo in libertate o - se si preferisce - lo stato di necessità, dotati di efficacia scriminante ex art. 384 c.p., possano trovare causa in un fatto accidentale, in un fatto altrui o anche nel fatto proprio e volontario del soggetto agente che realizzi una condotta di favoreggiamento personale».

    Il secondo insegnamento è che «sembra arduo ipotizzare che il lavoro, inteso come diritto ad una occupazione e come strumento di crescita della personalità individuale anche nei suoi aspetti di integrazione e interrelazione sociali, non possa reputarsi astrattamente sussumibile nell'ambito di esplicazione della `libertà' personale di ciascun individuo», e che «non sembrano sussistere ragioni ostative alla inclusione del diritto al lavoro e al mantenimento del posto di lavoro nell'ampio perimetro del diritto di libertà individuale dell'imputato ex art. 378 c.p., la scriminante prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. non apparendo limitata al solo rigoroso ambito della libertà giuridica o della libertà da un procedimento penale, in cui considerare confinato l'auto favoreggiamento non punibile dell'imputato coevo e sovrapposto al favoreggiamento di un terzo (ché, quand'anche si ritenga di attuare cosi una interpretazione analogica estensiva, in tal caso si sarebbe in presenza di una analogia in bonam partem)».

    Un lavoratore cade da un'altezza di circa sei metri mentre sta smantellando un tetto in lastre di cemento-amianto di un capannone. Viene condannato per il delitto di lesione personale colposa il datore di lavoro. Ma viene condannato anche un dipendente dello stesso datore di lavoro per il reato di favoreggiamento, «perché, dopo che era stato commesso il reato di lesioni, aiutava il datore di lavoro a mutare lo stato dei luoghi (ripristino della copertura del tetto, eliminazione delle tracce di sangue, posizionamento in loco, all'interno del capannone, di un ponte mobile), in modo da far credere che l'infortunato fosse caduto da detto ponte mobile anziché dal tetto», e, inoltre, «aveva reso dichiarazioni mendaci alla polizia giudiziaria circa il luogo dove lavorava l'infortunato e la presenza del ponte mobile al momento dell'infortunio».

    La Sez. VI prende atto che «tale imputato svolgeva funzioni di operaio anziano da lungo tempo dipendente dell'impresa ed era la persona di maggiore esperienza e anche di autorità al momento dell'incidente occorso nella attività di smontaggio del tetto, tanto che svolgeva le funzioni di caposquadra», e «doveva dunque verificare le condizioni di lavoro e impedire all'infortunato di avventurarsi sul tetto senza mezzi di protezione». Ritiene, quindi, che «la sua posizione lo esponeva al rischio di un'imputazione di concorso nel reato di lesione personale colposa», e che, «nel mutare lo stato dei luoghi dopo l'incidente per far apparire che esso si era verificato in modo diverso e nel rispetto delle misura antinfortunistiche, in realtà non rispettate, egli, oltre a favorire il suo datore di lavoro, finiva per favorire anche se stesso». A questo punto, la Sez. VI si dichiara «consapevole del persistente contrasto giurisprudenziale in punto di volontarietà della causazione del pericolo da parte dello stesso agente ai fini della applicabilità dell'esimente di cui all'art. 384 c.p. nel senso che una parte considerevole della giurisprudenza (come pure della dottrina) ritiene che la causa di esclusione della punibilità di cui alla citata norma sia un'ipotesi speciale della esimente di carattere generale dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., onde si dovrebbe estendere alla causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. il requisito implicito della `non volontarietà' del pericolo causato». Tuttavia, «non reputa di poter aderire a tale impostazione, ritenendo comunque quest'ultima norma specificamente volta a garantire il diritto di difesa». E conclude che «debba essere applicata all'imputato la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p., in quanto egli ha posto in essere le attività addebitategli essendo stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà».

    Non è raro che i lavoratori - ivi compreso l'infortunato - chiamati a deporre nell'ambito di un procedimento penale avente per oggetto un infortunio o una malattia professionale o contravvenzioni antinfortunistiche rendano dichiarazioni contrarie al vero. Utili sono, quindi, le indicazioni date dalla Cassazione in merito (v. pure Cass. 25 maggio 2011, n. 20943, Valentini):

    Un datore di lavoro fu condannato in primo grado dal Tribunale per un infortunio non mortale occorso a un dipendente extracomunitario adibito al taglio di alberi «senza adeguata formazione e senza avere preventivamente individuato, nel documento di valutazione dei rischi, le misure di prevenzione necessarie per il sicuro svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto della natura di tale attività e delle condizioni di lavoro ed ambientali (taglio del bosco, dimensione delle piante, pendenza del terreno)» e investito da un albero di alto fusto. Eppure, l'infortunato, «trasportato, dopo l'incidente, presso il pronto soccorso dell'ospedale, aveva dichiarato di essersi procurato la frattura cadendo da un motorino», mentre i due extracomunitari «testimoni a carico, compagni di lavoro dell'infortunato, che avevano, in sede di indagini preliminari, sostenuto che costui si era infortunato mentre era intento al taglio di un albero, avevano, in sede di esame dibattimentale, cambiato del tutto versione, sostenendo di non conoscere le cause dell'incidente e di non essersi neanche recati al lavoro il giorno del presunto infortunio poiché era la domenica di Pasqua, circostanza confermata dal padre di uno dei testimoni». A dire del tribunale, «le iniziali dichiarazioni della parte offesa erano state dettate dalla paura di perdere il posto di lavoro; i due testimoni, all'epoca dipendenti dell'imputato, avevano reso in dibattimento falsa testimonianza in quanto sottoposti a pressioni o minacce o promesse di denaro o altra utilità, di guisa che le dichiarazioni dagli stessi rese in sede di indagini, i cui verbali sono stati acquisiti al fascicolo del dibattimento a seguito di contestazioni del PM, ex art. 500, comma 4, c.p.p., potevano esser valutate ai fini della decisione». Viceversa, la Corte d'Appello di Firenze pervenne all'assoluzione dell'imputato per insussistenza del fatto: «Non era stato per nulla accertato che il lavoratore fosse rimasto vittima di un infortunio sul lavoro invece che di una caduta dal motorino, come dallo stesso sostenuto nell'immediatezza dei fatti, e non poteva escludersi che ad essere false fossero proprio le dichiarazioni rese dai due testi in sede di indagini, dettate dal desiderio di favorire la parte offesa», «mentre la tesi secondo cui gli stessi testi erano stati raggiunti da pressioni perché rendessero false dichiarazioni, era rimasta nel puro campo delle ipotesi, non suffragata da elementi concreti di riscontro». Su ricorso della parte civile, la Sez. IV annulla la sentenza della corte d'appello con rinvio al giudice civile. Rimprovera alla corte d'appello di non aver «correttamente applicato la disposizione di cui all'art. 500 del codice di rito che, non solo attesta la legittimità, ai fini della credibilità di un teste, del giudizio comparativo tra le dichiarazioni rese in sede di indagini e quelle, divergenti, rese in dibattimento, ma precisa che le prime possono essere acquisite e valutate e possono concorrere a formare il convincimento del giudice se egli ritenga la sussistenza di `elementi concreti' indicativi di pregresse pressioni o intimidazioni subite dal testimone per indurlo a dichiarare il falso», «elementi che siano sicuramente individuati, che ben possono emergere in dibattimento e siano tali da dimostrare che la reticenza del teste e la falsità delle sue dichiarazioni sono state determinate da interventi esterni che ne hanno condizionato ed inquinato le scelte». Spiega che «il principio secondo cui la dichiarazione utilizzata ai fini delle contestazioni non ha, di per sé, rilievo probatorio diretto non impedisce il recupero del precedente difforme, nel caso di inquinamento probatorio, allorché il giudice rilevi che sussistano `concreti elementi' per ritenere che il teste abbia subito un condizionamento esterno». Osserva che «l'individuazione e la valutazione di tali elementi non sono state correttamente eseguite dalla corte territoriale, ovvero lo sono state in maniera del tutto approssimativa»: «Non è, anzitutto, rispondente al vero l'affermazione dei giudici del gravame secondo cui l'unico elemento, nel senso inteso dall'art. 500 del codice di rito, emerso in dibattimento sia costituito dal rapporto di lavoro intercorrente tra i testimoni e l'azienda che fa capo all'imputato, non sufficiente, a giudizio degli stessi, per sostenere la tesi del condizionamento esterno dei testi. In realtà, il primo giudice ha individuato ulteriori e convergenti elementi, ritenuti sintomatici dell'inquinamento della prova, rappresentati: dal contesto sociale e lavorativo dei due testi, dalla linearità e completezza delle dichiarazioni rese in sede di indagini, dalla loro condotta processuale, dalle inverosimili giustificazioni addotte per spiegare le ritrattazioni dibattimentali. Quanto al contesto lavorativo, il primo giudice ha ricordato non solo le difficili condizioni ambientali in cui versavano i due testi, cittadini extracomunitari, ma anche le onerose condizioni di lavoro che, secondo le loro prime dichiarazioni, l'imputato dettava a quanti lavoravano per suo conto e lo scarso interesse dello stesso verso i temi della sicurezza e del rispetto delle norme antinfortunistiche, dichiarazioni poi ritrattate in sede dibattimentale e tuttavia riscontrate dalla testimonianza dell'ufficiale di PG dell'Unità di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro dell'Asl, che ha indicato quanto gravi fossero, al momento del suo intervento, le violazioni, da parte dell'imputato, delle norme antinfortunistiche e quanto frequenti fossero stati in passato gli infortuni occorsi ai lavoratori dipendenti dalla ditta (circa 60 tra il 1997 ed il 1999). Quanto ai contenuti delle dichiarazioni predibattimentali dei due testi, rese a pochissimi giorni dall'incidente, ribadite da uno dei due a distanza di alcuni mesi, ed acquisite (quanto allo stesso) con l'assistenza di un interprete, ne è stata segnalata la linearità e congruità anche in vista della precisione del racconto e dell'abbondanza di particolari riferiti, tutti convergenti nella individuazione nella caduta di un albero la causa delle lesioni riportate dalla vittima mentre era intenta al suo lavoro. Era stato, anzi, lo stesso teste a rivelare per primo che il ferito aveva fornito all'ospedale una diversa versione dei fatti (avendo giustificato le lesioni con una caduta dal motorino) perché temeva di perdere il posto di lavoro. Quanto alle spiegazioni congiuntamente fornite dai due testi per giustificare il completo ribaltamento, in dibattimento, della versione dei fatti in precedenza fornita, indicate nella ignoranza della lingua italiana e nel timore per la presenza della polizia giudiziaria, che li aveva indotti a rispondere in maniera affermativa alle domande postegli, il primo giudice ne ha rilevato la palese inattendibilità ed inconsistenza, avendo il maresciallo, che aveva ricevuto quelle dichiarazioni (ribadite, come già rilevato, dal teste qualche mese dopo), precisato: a) che il teste era stato interrogato con l'assistenza di un interprete, come emergeva dal relativo verbale, b) che l'altro teste comprendeva l'italiano e si esprimeva bene, tanto che non era stato necessario ricorrere all'interprete, c) che ambedue avevano riferito i fatti in maniera chiara e dettagliata, non certo a monosillabi. Anche la condotta processuale, quindi, caratterizzata dalla concomitanza delle ritrattazioni e dalla loro conformità anche quanto alle giustificazioni addotte per spiegarne le ragioni, sono apparse significative di un forte condizionamento esterno dei due testi inquadrabile, secondo il primo giudice, nell'ambito dell'art. 500, comma 4, del codice di rito». A questo punto, la Sez. IV nota che, «di tali argomenti, pur ampiamente trattati dal tribunale, non vi è traccia nella sentenza impugnata, essendosi la corte territoriale limitata a sostenere che le diverse versioni dei fatti proposte dalla parte offesa e dai due testi si ponevano sullo stesso piano e quindi rendevano impossibile accertare chi e quando avesse detto il vero e il falso»: «affermazione di comodo, non preceduta da un'accurata disamina dei diversi contenuti e delle ragioni delle contrastanti versioni, con la quale il giudice del gravame ha inteso giustificare il suo sostanziale disimpegno rispetto al tema affrontato», «in tal guisa avendo, in concreto, messo sullo stesso piano le richiamate divergenze dichiarative senza considerare che mentre quelle provenienti dalla parte offesa, che le ha spiegate in termini del tutto coerenti e credibili, non avevano ricevuto smentita alcuna, quelle dei due testi erano state clamorosamente smentite dal maresciallo e dall'ufficiale di p.g. dell'ASL».

    Addetta a una troncatrice, un'operaia scivola e la sua mano finisce sotto la lama. Per far funzionare la macchina occorreva che fossero premuti due pulsanti contemporaneamente, solo che uno dei pulsanti era stato bloccato con un nastro adesivo. La datrice di lavoro viene condannata per il reato di lesione personale colposa, in quanto «aveva omesso di controllare il corretto utilizzo della troncatrice e la funzionalità del dispositivo di avvio a due mani, che impediva la possibilità di accidentali contatti dell'operatore con la lama».

    La persona offesa, sentita dall'Ispettore e successivamente in dibattimento, ha reso dichiarazioni contrastanti, avendo riferito all'ispettore che l'adesivo veniva applicato per tenere pigiato il pulsante, rendendo libera l'altra mano tutte le volte che utilizzava la macchina, mentre, in sede di esame dibattimentale, aveva affermato che l'iniziativa di neutralizzare il pulsante era stata presa solo il giorno dell'infortunio. I giudici di merito hanno ritenuto meritevole di credito la prima delle due versioni, secondo la quale già da tempo la macchina, dopo la rottura della calotta, veniva usata tenendo costantemente abbassato uno dei pulsanti e premendo l'altro con una sola mano, ed ha disatteso l'altra in quanto inattendibile, essendo stata resa per scagionare la datrice di lavoro.

    La Sez. IV condivide questa impostazione. E spiega: «È principio pacifico in giurisprudenza che, quando il giudice di merito, in presenza di dichiarazioni contrastanti provenienti dalla stessa persona, abbia indicato gli elementi di giudizio in base ai quali ha ritenuto maggiormente attendibile una delle due, la Corte di Cassazione può sindacare la scelta fatta solo sotto il profilo della manifesta illogicità della valutazione desumibile dal testo del provvedimento. Tanto ricordato, risulta evidente che la scelta di privilegiare le originarie dichiarazioni della parte lesa rispetto a quelle successive non è censurabile sulla base dei rilievi difensivi che attengono al merito delle valutazioni probatorie e non possono avere ingresso in sede di legittimità».

    «La corte territoriale ha escluso la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa. In definitiva, quel giudice ha reputato appagante aver constatato che taluni degli operai, sentiti come testi, avevano negato di aver avuto coscienza della nefasta correlazione tra l'insorgenza delle affezioni tumorali in discorso e l'inalazione delle microfibre d'amianto (percepite come polveri) e decisivo che se quella coscienza si fosse avuta, la manovalanza tutta non si sarebbe prestata, senza rimostranze, a lavorare in ambienti si pericolosi. Trattasi di conclusione che difetta di logica comune, scollata dalla realtà e difforme dai principi giuridici consolidati in materia di colpa per garanzia. Escluso che possa darsi significato di sorta al silenzio degli operai, attribuibile a più fattori (ignoranza, posizione d'intrinseca debolezza contrattuale, necessità di mantenere il salario, ecc.), non ha senso neppure misurare l'entità della conoscenza che avrebbe dovuto chiedersi a chi era posto in posizione di garanzia con quella degli operai».

    Un lavoratore è assolto in primo grado, e condannato in appello, per omicidio colposo in danno del datore di lavoro: ``nell'eseguire all'interno di un'azienda agricola lavori di movimentazione di rotoballe in fieno valendosi di un mezzo di sollevamento meccanico, aveva determinato, attraverso lo spostamento delle rotoballe di una fila, la caduta delle rotoballe della fila vicina che erano andate a colpire il titolare della predetta azienda, agendo con colpa per aver eseguito la manovra con imperizia - consistita nell'aver determinato la caduta di alcune rotoballe - e con imprudenza, avendo effettuato l'operazione nonostante la presenza di un'altra persona nell'area delle operazioni, la quale poteva essere interessata dall'eventuale caduta delle balle movimentate''. A dire del giudice di primo grado, ``era stato il deceduto a decidere ed imporre modalità e tempistiche diverse nell'esecuzione solita del lavoro, e, a fronte di un'autonoma scelta organizzativa da parte del datore di lavoro, sicuramente errata e tale da porlo in pericolo stante la sua vicinanza alla zona di movimentazione, l'imputato, tra l'altro lavoratore in prova, non aveva alcun concreto potere di intervento e di sindacato, potendo inoltre fare ragionevole affidamento sull'esperienza e autoresponsabilità del proprio datore di lavoro nell'attuare comunque quelle cautele necessarie per evitare che la pericolosa attività da lui stesso decisa potesse provocargli delle conseguenze dannose''. Nell'aderire, invece, alla tesi accolta dalla corte d'appello, la Sez. IV osserva: ``La decisione dell'imputato di prelevare contemporaneamente due rotoballe, nulla aveva a che vedere con le modalità operative del lavoro quali indicate dal datore di lavoro, trattandosi di una specifica scelta operativa autonomamente attuata dall'imputato stesso, La movimentazione, ad opera dell'imputato, di due rotoballe contemporaneamente, e non di una sola per volta, in presenza di una situazione di evidente e concreta pericolosità -ben percepita dall'imputato - avrebbe richiesto la massima attenzione per assicurare il perdurare delle condizioni di stabilità ed equilibrio delle file di rotoballe nella fase operativa della loro movimentazione''.

    ``Quanto alla tesi di un gesto `autolesionista' della vittima, finalizzato a lucrare un lauto risarcimento, appaiono oltremodo condivisibili le argomentazioni dei giudici di merito sull'assoluta inconsistenza di tale ipotesi ricostruttiva, considerata logicamente tanto più irricevibile quanto si consideri la gravità della lesione e i postumi permanenti all'arto subiti dal lavoratore (straniero), compensati con un risarcimento di circa euro 55.000, che certo non cambia le sorti, né il complessivo tenore di vita dell'infortunato. Né a diversa conclusione poteva portare la considerazione che il medesimo lavoratore fosse già stato vittima di un precedente infortunio in azienda, ritenuto per alcuni aspetti `anomalo'''.

    ``Non è sostenibile che la trasgressione dell'obbligo, da parte del lavoratore, di informare il datore di lavoro ed il preposto di situazioni di rischio, potesse avere l'effetto di esonerare questi ultimi da responsabilità. Anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, che ha sottolineato, all'art. 20, la necessità che i lavoratori si prendano cura della propria sicurezza, indicando i comportamenti da adottare, il datore di lavoro rimane comunque titolare di un obbligo di protezione nei loro confronti, ove l'infortunio risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza''.

    Per l'infortunio a un dipendente investito all'interno del capannone da un carrello elevatore in retromarcia, il datore di lavoro fu condannato, per aver omesso di ``individuare, nel documento di valutazione dei rischi, misure di prevenzione e protezione da attuare per la gestione della viabilità all'interno dei capannoni e di apporre la dovuta segnaletica''. A sua discolpa, deduce che il dipendente, ``all'orario in cui si verificò l'infortunio, non avrebbe neanche dovuto essere presente sul luogo di lavoro, poiché il suo turno non era ancora iniziato''. La Sez. IV ribatte: ``Le regole dettate in tema di ripartizione dei turni di lavoro non sono certamente volte ad evitare gli infortuni su lavoro, non avendo neanche natura cautelare ma semplicemente organizzativa. È dunque giuridicamente infondato qualunque tentativo di istituire una connessione fra un evento lesivo verificatosi e la violazione di una regola di natura non cautelare e preordinata al soddisfacimento di esigenze di carattere operativo, completamente esulanti dall'ottica della prevenzione degli infortuni sul lavoro''.

    Un filone giurisprudenziale in sviluppo concerne le condotte estorsive in danno di operai dipendenti (v., ad es., Cass. 17 maggio 2019, in Dir.prat.lav., 2019, 25, 1628; Cass. 18 febbraio 2019, ibid., 2019, 13, 838; Cass. 22 novembre 2018, ibid., 2019, 1, 57; Cass. 5 luglio 2018, ibid., 2018, 32-33, 2032; Cass. 7 giugno 2018, ibid., 2018, 27, 1708; nonché, Cass. 12 luglio 2022 n. 26870; Cass. 12 luglio 2022 n. 28619; Cass. 21 gennaio 2021 n. 2454, ibid., 2021, 14, 882; Cass. 12 gennaio 2021 n. 779, ibid., 2021, 12, 752).

    L'amministratore di più società riconducibili ad un gruppo. e il preposto all'amministrazione e gestione del personale sono condannati per il reato di estorsione, in quanto ``avevano costretto taluni dipendenti, quale condizione dell'assunzione, a firmare una lettera o un foglio in bianco senza data che costituiva lo strumento di pressione idonea a coartare la volontà del lavoratore durante Io svolgimento del rapporto di lavoro e, dunque, la minaccia di attivare il meccanismo che avrebbe condotto alla cessazione del rapporto di lavoro, così costringendoli ad effettuare ore di lavoro straordinario non retribuiti ed a sostenere turni lavoro più gravosi rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo di categoria conseguendo l'ingiusto profitto corrispondente al risparmio di spesa''. Nel confermare la condanna, la Sez. II detta in argomento alcune utili linee-guida:

    - ``Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi o ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento''.

    - ``Ai fini della configurabilità del reato sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo''.

    ``La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l'ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, una effettiva intimidazione del soggetto passivo''.

    - ``l'oggetto della tutela giuridica del reato di estorsione è duplice, nel senso che da un lato la norma persegue l'interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e da un altro lato essa tutela la libertà di autodeterminazione delle persone offese''.

    - ``L'evento del reato, costituito dalla disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio della persona offesa, proviene proprio da quest'ultima e rappresenta la conseguenza di una situazione di costrizione determinatasi in suo danno dall'azione di violenza o minaccia posta in essere dal soggetto agente''.

    - ``Il potere di autodeterminazione della vittima, in conseguenza della condotta dell'agente, non viene annullato del tutto, venendo, però, fortemente condizionato nel senso che la vittima è posta nell'alternativa di fare conseguire all'agente il vantaggio economico voluto o subire un pregiudizio diretto ed immediato''.

    - ``Anche l'uso strumentale di mezzi leciti può assumere un significato ricattatorio, laddove è volto a coartare la volontà della vittima; in tal senso la minaccia di un male legalmente giustificato assume il carattere dell'ingiustizia quando sia fatta, non già con l'intenzione di esercitare un diritto, ma con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia''.

    - ``La prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione anche quando si persegua un giusto profitto ed il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia, ciò in quanto la specificità del delitto di estorsione sta nella condizione di soggezione o dipendenza in cui è posta la vittima con apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale in conseguenza della condotta di violenza o di minaccia posta in essere dall'agente in suo danno''.

    Un datore di lavoro fu condannato per il delitto di estorsione, ``per avere costretto con minacce un dipendente a dichiarare il falso ai sanitari del pronto soccorso presso il quale si era recato, sulle cause di un infortunio sul lavoro dallo stesso subito, al fine di evitare problemi al cantiere posto che non erano state osservate le norme antiinfortunistiche''. Nel confermare la condanna, la Sez. II prende atto che l'imputato, ``presente al pronto soccorso ove la vittima si era recata dopo l'incidente sul lavoro, l'aveva minacciato di licenziamento se non avesse dichiarato il falso e, cioè, di essersi procurato le lesioni in ambito domestico''. Aggiunge che comunque ``l'estorsione poteva realizzarsi anche laddove siffatta minaccia fosse stata solo implicita e preminenti piuttosto le rassicurazioni che la persona offesa avrebbe comunque avuto quanto gli spettava sul piano retributivo''. E conclude che ``l'esistenza della minaccia attraverso la raffigurazione di un male ingiusto costituito dal licenziamento, configura il reato estorsivo in tutti i suoi elementi costitutivi''.

    ``Il datore di lavoro imputato fu ritenuto responsabile anche del delitto di cui all'art. 612, commi 1 e 2, c.p., perché aveva inviato il seguente sms sul telefono cellulare del lavoratore extracomunitario non regolarizzato dopo l'infortunio: `ti auguro, che il tuo dio ti faccia quello che tu stai facendo a me e domani ti denuncio alla finanza'''.

    La Sez. V conferma la condanna per il reato di cui all'art. 479 c.p. di un agente della polizia stradale in rapporto alla ``attestazione delle modalità di un infortunio, asseritamente avvenuto nei servizi dell'ufficio ed occorso, invece, in altro contesto spazio-temporale''.

    Il socio extracomunitario di un'azienda agricola con delega per gli adempimenti in materia di rapporti di lavoro e tutela antinfortunistica, in concorso con il proprietario extracomunitario del fabbricato rurale e dei terreni, nonché socio di maggioranza di tale azienda, fu condannato, perché ``con violazione degli artt. 63 e 64 D.Lgs. n. 81/2008 in relazione a quanto previsto nell'All. IV al decreto, adibiva a luogo di stoccaggio di ortaggi coltivati presso l'azienda un garage prefabbricato in cattivo stato di manutenzione, costruito senza le necessarie autorizzazioni edilizie e con profondi deficit strutturali, così che, a seguito del crollo del manufatto, riportavano lesioni personali tre lavoratori extracomunitari che svolgevano attività lavorativa senza contratto di lavoro di raccolta, pesatura e stoccaggio degli ortaggi all'interno del suddetto garage''.

    A un datore di lavoro si addebita di ``avere occupato illegalmente cittadini extracomunitari privi dei prescritti titoli legittimanti la loro presenza e permanenza sul territorio italiano, adibendoli in qualità di braccianti alla raccolta degli agrumi, retribuendo le loro prestazioni con la somma giornaliera di euro 20,00, di gran lunga inferiore ai limiti salariali previsti dalla legge, fornendo loro quale alloggio un capannone privo di utenze (gas, luce e acqua), di mobilio e di servizi, costringendoli a vivere in una condizione disumana, e così ritraendo un ingiusto profitto dalla loro condizione di illegalità e dallo sfruttamento della loro manodopera, contestualmente e di tal guisa favorendone la permanenza illegale nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione''.

    La Sez. I ne conferma la condanna inflitta a seguito di giudizio abbreviato per ``i reati, avvinti nella continuazione, di cui al D.Lgs. n. 286/1998, art. 12, comma 5, e art. 22, comma 12, alla pena di anni due di reclusione ed euro 3.000 di multa''. Prende atto delle ``condizioni di sfruttamento cui venivano sottoposti i lavoratori extracomunitari clandestini, condizioni che vengono correttamente poste in relazione con gli orari di lavoro (dalle 8.00 alle 17.00), le assenze di pause e di riposi settimanali, l'assoluta inadeguatezza delle retribuzione giornaliera, e che sono strettamente correlate con lo stato di bisogno in cui versavano i suddetti lavoratori, in relazione alle condizioni alloggiative dai medesimi accettate (in ricovero di emergenza, sprovvisto di acqua, di corrente elettrica, di arredi) e alla loro indigenza'', il che ``li esponeva alla necessità di sottostare a condizioni (lato sensu) contrattuali iugulatorie e affatto inaccettabili per chiunque non si fosse trovato in tale stato di bisogno, con la prospettiva di dover rinunciare, altrimenti, a una pur modestissima fonte di sostentamento''. Ne desume ``la sussistenza di entrambi gli elementi costitutivi del contestato delitto di favoreggiamento: quello materiale dell'avere favorito la permanenza nel territorio dello Stato di immigrati clandestini, adibendoli ad attività lavorativa come braccianti agricoli e mettendo a loro disposizione un fatiscente ricovero; e quello psicologico del dolo specifico, costituito dal fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, realizzato con l'imposizione, approfittando di tale stato, di condizioni lavorative degradanti e palesemente discriminatorie''. Rileva che ``è proprio l'imposizione di condizioni gravose e discriminatorie, esorbitanti dall'equilibrio del rapporto sinallagmatico e accettate solo per effetto della mancanza di ogni forza contrattuale, a concretare il quid pluris che costituisce il dato distintivo della fattispecie delittuosa in esame rispetto al reato di occupazione alle proprie dipendenze di lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, reato che con la prima fattispecie può concorrere, non essendo configurabile tra le due disposizioni alcun rapporto di specialità stante la diversità di ratio che le caratterizza e l'evidente diversità dell'interesse protetto''. Spiega in proposito che ``il reato di cui all'art. 22, comma 12, D.Lgs. n. 286/1998 intende contrastare il fenomeno della immigrazione clandestina, punendo l'assunzione al lavoro di extracomunitari privi di permesso di soggiorno, potendo connotarsi come strumento atto a eludere il divieto di ingresso e di permanenza nel territorio dello Stato al di fuori delle condizioni fissate dalla legge, mentre con il reato di cui all'art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 286/1998 si punisce l'attività di colui che, approfittando della condizione di illegalità degli stranieri, ne favorisca la permanenza nel territorio dello Stato al fine di trarre un ingiusto profitto da tale condizione, fuoriuscendosi dal rapporto sinallagmatico di prestazione d'opera o perché gli stranieri vengono utilizzati in attività illecite o perché si impongono loro condizioni gravose e discriminatorie di lavoro, di orario e/o di retribuzione, diverse e ulteriori rispetto al solo omesso pagamento dei contributi''.

    Presso il capannone di un'impresa sita in Prato, due cittadine cinesi avevano preso in locazione ``un locale adibito non solo a unità produttiva, ma altresì ad alloggio degli operai, essendovi stati realizzati locali dormitorio loro destinati, in assenza di autorizzazioni amministrative e in violazione di quanto disposto dalla normativa in materia prevenzionistica e antincendio; molti di questi operai erano, inoltre, irregolari sul territorio italiano in quanto sprovvisti di permesso di soggiorno, ed erano retribuiti con salari di gran lunga inferiori a quelli minimi previsti dai contratti collettivi di settore, oltreché costretti a sostenere orari e turni di lavoro assolutamente inconciliabili con le disposizioni a tutela dei lavoratori. In dipendenza delle suddette violazioni di norme prevenzionistiche, si venivano a determinare le condizioni per lo sprigionarsi di un incendio, verosimilmente a causa di un malfunzionamento dell'impianto elettrico, in prossimità della scala d'accesso al soppalco-dormitorio''. Le due gestrici dell'impresa (l'una titolare di fatto, l'altra vicaria della sorella) furono condannate anche per favoreggiamento di permanenza illegale di soggetti clandestini a fine di ingiusto profitto. Al riguardo, la Sez. IV precisa: L'approfittamento della condizione di clandestinità di almeno una parte dei dipendenti della ditta, in base al quale venivano imposte condizioni di lavoro ed economiche comunque ben al disotto del normale sinallagma, integra il dolo specifico del fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, situazione questa che si realizza quando l'agente, approfittando di tale stato, imponga condizioni particolarmente onerose; e non è escluso dal fatto che analoghe condizioni sarebbero state praticate anche nei confronti di dipendenti in regola con ii permesso di soggiorno. ``Il fatto che venissero oggettivamente sfruttati anche gli operai regolari sul territorio significa unicamente che vi era un identico, disumano trattamento tra tutti i lavoratori operanti nel capannone e che, tra le ragioni che concorrevano a consentire alle imputate di praticare condizioni retributive e contrattuali estremamente onerose, e che inducevano i lavoratori ad accettare tali condizioni, vi era certamente anche la situazione di clandestinità di molti tra gli operai assunti''.

    Cass. pen. n. 26151 del 9 luglio 2021 (ampiamente riportata sub art. 42, al par. 2) osserva che ``nulla autorizza a diffondere notizie sulla salute del lavoratore affetto da epilessia ai colleghi che operino con il medesimo''. Esclude che ``la `sorveglianza' su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro neppure richiedere una simile prestazione''. Ritiene, dunque, ``del tutto fuorviante l'assunto secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con l'infortunato, affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo''.

    ``Il dipendente di un'impresa edile è condannato per il delitto di falso per induzione in certificazione, per avere, affermando falsamente di essersi infortunato durante il lavoro, indotto in errore il medico di fiducia, il quale redigeva il relativo certificato medico per riapertura d'infortunio, il tutto al fine di commettere il delitto di cui all'art. 640 c.p. ai danni dell'INAIL e del datore di lavoro; nonché per tentata truffa, per avere indotto in errore i funzionari dell'INAIL che gli riconoscevano la relativa indennità, così da percepire un profitto ingiusto pari alla retribuzione per il periodo di assenza dal servizio per circa euro 1.000 e pari danno per il predetto istituto, oltre a quello provocato al datore di lavoro, consistito negli oneri gravanti sul medesimo in conseguenza dello status di infortunato in servizio del dipendente''.

    Vittima di infortunio, un lavoratore in nero si reca al pronto soccorso, e istigato dal marito della datrice di lavoro dichiara al medico di servizio di essere caduto da una scala mentre effettuava lavori di tinteggiatura nella propria abitazione, e così lo induce ad attestare falsamente nel referto che il paziente si era procurato le lesioni a causa di una caduta accidentale in casa, anziché di un infortunio sul posto di lavoro, con la conseguenza non venivano avviate le procedure relative all'infortunio. La Sez. V annulla con rinvio l'assoluzione del lavoratore e dell'istigatore pronunciata dalla corte d'appello. Ammette che ``il medico non ha il dovere di attestare la verità delle dichiarazioni ricevute dal paziente'', ma subito chiarisce che ``non è questa la contestazione''. Rileva che ``Il referto medico è un atto pubblico'', che ``il medico del pronto soccorso è un pubblico ufficiale'', e che ``la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale su tale tipologia di atti è punita dall'art. 479 c.p.''. Spiega, peraltro, che ``nella specie l'art. 479 c.p. è collegato alla previsione dell'art. 48 c.p., a mente del quale quando l'agente sia indotto in errore sul fatto costituente reato `del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo'''. Ne desume che il lavoratore, ``autore mediato, su istigazione del marito della datrice di lavoro, ha rilasciato al medico, pubblico ufficiale, una falsa dichiarazione circa l'origine causale delle lesioni'', e che ``le false dichiarazioni del paziente configurano induzione in errore del sanitario che, ingannato, realizza il falso ideologico in atto pubblico''.

    Note a piè di pagina
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    Lettera così modificata dall'art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 39.
    Lettera così modificata dall'art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 39.
    Fine capitolo
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