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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

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    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. Il medico competente:

    a) collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro. Collabora inoltre alla attuazione e valorizzazione di programmi volontari di «promozione della salute», secondo i principi della responsabilità sociale;

    b) programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati;

    c) istituisce, aggiorna e custodisce, sotto la propria responsabilità, una cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria. Tale cartella è conservata con salvaguardia del segreto professionale e, salvo il tempo strettamente necessario per l'esecuzione della sorveglianza sanitaria e la trascrizione dei relativi risultati, presso il luogo di custodia concordato al momento della nomina del medico competente;86

    d) consegna al datore di lavoro, alla cessazione dell'incarico, la documentazione sanitaria in suo possesso, nel rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo del 30 giugno 2003 n. 196, e con salvaguardia del segreto professionale;

    e) consegna al lavoratore, alla cessazione del rapporto di lavoro, copia della cartella sanitaria e di rischio, e gli fornisce le informazioni necessarie relative alla conservazione della medesima. L'originale della cartella sanitaria e di rischio va conservata, nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, da parte del datore di lavoro, per almeno dieci anni, salvo il diverso termine previsto da altre disposizioni del presente decreto87;

    e-bis) in occasione della visita medica preventiva o della visita medica preventiva in fase preassuntiva di cui all’articolo 41, richiede al lavoratore di esibire copia della cartella sanitaria e di rischio rilasciata alla risoluzione del precedente rapporto di lavoro e ne valuta il contenuto ai fini della formulazione del giudizio di idoneità, salvo che ne sia oggettivamente impossibile il reperimento;88

    f)89

    g) fornisce informazioni ai lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione della attività che comporta l'esposizione a tali agenti. Fornisce altresì, a richiesta, informazioni analoghe ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;

    h) informa ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41 e, a richiesta dello stesso, gli rilascia copia della documentazione sanitaria;

    i) comunica per iscritto, in occasione delle riunioni di cui all'articolo 35, al datore di lavoro, al responsabile del servizio di prevenzione protezione dai rischi, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori;

    l) visita gli ambienti di lavoro almeno una volta all'anno o a cadenza diversa che stabilisce in base alla valutazione dei rischi; la indicazione di una periodicità diversa dall'annuale deve essere comunicata al datore di lavoro ai fini della sua annotazione nel documento di valutazione dei rischi;

    m) partecipa alla programmazione del controllo dell'esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del rischio e della sorveglianza sanitaria;

    n) comunica, mediante autocertificazione, il possesso dei titoli e requisiti di cui all'articolo 38 al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto;

    n-bis) in caso di impedimento per gravi e motivate ragioni, comunica per iscritto al datore di lavoro il nominativo di un sostituto, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 38, per l’adempimento degli obblighi di legge durante il relativo intervallo temporale specificato.90

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Il medico competente come collaboratore del datore di lavoro - 2. Omessa comunicazione del medico competente agli RLS - 3. Lavoratori notturni e accertamenti sanitari - 4. Il medico sportivo - 5. Obbligo di denuncia e obbligo di referto - 6. Comunicazione intempestiva del giudizio sull'idoneità - 7. Reato di pericolo e linee guida o protocolli - 8. Decesso del lavoratore e colpa del medico competente .

    L'art. 25 delinea una figura di medico competente come collaboratore del datore di lavoro e del servizio di prevenzione e protezione dai rischi:

    Presso un ospedale, un infermiere professionale, ``mentre effettuava un prelievo di sangue venoso su una paziente affetta da HVC e HVB, a causa di un improvviso movimento della mano di quest'ultima, era stato accidentalmente punto dall'ago che stava utilizzando nell'arteria radiale del polso sinistro''. A dire dei magistrati di merito, ``ciò era stato possibile perché in uso all'infermiere era un ago cannula 18G Delta2, sprovvisto di dispositivo di sicurezza'', e ``la malattia contratta dal lavoratore era da attribuirsi all'imputato, che in qualità di medico competente dell'ASL aveva omesso di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione del rischio biologico rappresentato, per il personale sanitario addetto all'UO di P.S. del presidio ospedaliero, anche dalla possibile contrazione di patologie infettive per via ematica a causa di punture e ferite con aghi e taglienti contaminati da sangue infetto''. Di qui la condanna del medico competente, e per contro l'assoluzione del datore di lavoro e del suo delegato. Nel confermare la condanna del medico competente, la Sez. IV, quanto ``al tema dei doveri del medico competente'', esclude che ``l'assoluzione del datore di lavoro e del suo delegato deve riflettersi sulla posizione del medico competente''. Spiega che ``il medico competente è titolare di una propria sfera di competenza'', che ``si tratta di un garante a titolo originario e non derivato'', che ``il medico competente è titolare di una propria sfera di competenza'', e che ``l'obbligo di collaborazione con il datore di lavoro da parte del medico competente, il cui inadempimento integra il reato di cui agli artt. 25, comma 1, lett. a) e 58, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008, comporta un'effettiva integrazione nel contesto aziendale del sanitario, il quale non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un'attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale''.

    Nel confermare la condanna del medico competente di una s.p.a. per il reato di cui agli artt. 25, comma 1, lett. a), e 41, comma 2, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, la Sez. III, per cominciare, afferma che ``l'obbligo di collaborazione col datore di lavoro cui è tenuto il medico competente e il cui inadempimento integra il reato di cui agli artt. 25, comma 1 lett. a) e 58, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 81/2008, non presuppone necessariamente una sollecitazione da parte del datore di lavoro, ma comprende anche un'attività propositiva e di informazione da svolgere con riferimento al proprio ambito professionale''. Spiega al riguardo che ``le finalità del D.Lgs. n. 81/2008 sono quelle di assicurare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro'' e che ``la valutazione dei rischi - definita dall'art. 2, comma 1, lett. q) del D.Lgs. n. 81/2008 come la `valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza' - è attribuita dall'art. 29 del medesimo D.Lgs. al datore di lavoro, per il quale costituisce, ai sensi dell'art. 17, un obbligo non derogabile''. Precisa che, ``avuto riguardo all'oggetto della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve essere necessariamente coadiuvato da soggetti quali, appunto, il medico competente, portatori di specifiche conoscenze professionali tali da consentire un corretto espletamento dell'obbligo mediante l'apporto di qualificate cognizioni tecniche'', e che ``l'espletamento di tali compiti da parte del medico competente comporta una effettiva integrazione nel contesto aziendale e non può essere limitato ad un ruolo meramente passivo in assenza di opportuna sollecitazione da parte del datore di lavoro, anche se il contributo propulsivo richiesto resta limitato alla specifica qualificazione professionale''. Rileva che ``l'importanza del ruolo sembra essere stata riconosciuta dallo stesso legislatore il quale, nel modificare l'originario contenuto dell'art. 58, ha introdotto la sanzione penale solo con riferimento alla valutazione dei rischi'', e che ``l'ambito della responsabilità penale resta confinato nella violazione dell'obbligo di collaborazione, che comprende anche un'attività propositiva e di informazione che il medico deve svolgere con riferimento al proprio ambito professionale ed il cui adempimento può essere opportunamente documentato o comunque accertato dal giudice del merito caso per caso''. Aggiunge che, ``in tema di valutazione dei rischi, il medico competente assume elementi di valutazione non soltanto dalle informazioni che devono essere fornite dal datore di lavoro, ma anche da quelle che può e deve direttamente acquisire di sua iniziativa, ad esempio in occasione delle visite agli ambienti di lavoro di cui all'art. 25, lettera I) o perché fornitegli direttamente dai lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria o da altri soggetti''. Con riguardo al caso di specie, prende atto che ``alcuna prova è stata somministrata circa l'attività concretamente svolta dal medico competente della s.p.a., laddove da un lato non risulta sottoscritto il documento di valutazione dei rischi, e dall'altro il teste assunto su istanza della stessa difesa aveva ricordato un'attività del tutto episodica di sorveglianza sanitaria''. Conclude sul punto che ``l'adempimento di un obbligo di collaborazione non poteva tradursi in una mera inerte attesa delle iniziative del datore di lavoro''. Inoltre, ``avuto riguardo alle finalità della normativa quanto alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro'', osserva che ``le omissioni hanno natura di reato permanente e di pericolo astratto, per cui - ai fini della configurazione - non era necessario che dalla violazione delle prescrizioni derivasse un danno alla salute o alla incolumità del lavoratore''.

    Il Tribunale di Pisa condanna un medico competente per il reato di cui all'art. 25, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, «perché non collaborava con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione della sorveglianza sanitaria, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori per la parte di competenza e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro». La Sez. III conferma la condanna: «Il `medico competente', secondo la definizione fornita dall'art. 2, lettera h), D.Lgs. n. 81/2008, è il medico che, in possesso di uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all'articolo 38, collabora, secondo quanto previsto all'art. 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti di cui al D.Lgs. n. 81/2008. L'attività di collaborazione del `medico competente', già prevista dall'ormai abrogato art. 17, D.Lgs. n. 626/1994, ma limitata alla predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori sulla base della specifica conoscenza dell'organizzazione dell'azienda, ovvero dell'unità produttiva e delle situazioni di rischio, è stata ampliata dal D.Lgs. n. 81/2008 che, nell'art. 25, la estende anche alla programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza e alla organizzazione del servizio di primo soccorso, considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro. Originariamente, per la violazione degli obblighi di collaborazione non era prevista alcuna sanzione penale, introdotta successivamente con l'art. 35, comma 1, del D.Lgs. n. 106/2009 che ha modificato l'art. 58 del D.Lgs. n. 81/2008. La introduzione della sanzione penale ad opera del D.Lgs. n. 106/2009 riguarda, peraltro, il solo `medico competente', mentre resta sottratto alla sanzione penale per mancata collaborazione il responsabile del servizio di prevenzione e protezione cui pure è demandato un ruolo ausiliario. La prospettazione della difesa, secondo la quale, in considerazione del fatto che l'obbligo di redigere il documento di valutazione dei rischi ricade esclusivamente sul datore di lavoro ed il `medico competente' non potrebbe ad esso surrogarsi nell'adempimento, cosi che la responsabilità della mancata predisposizione del documento non potrebbe in nessun caso essere fatta ricadere sul `medico competente', non è condivisibile, in quanto allo stesso non è affatto richiesto l'adempimento di un obbligo altrui quanto, piuttosto, lo svolgimento del proprio obbligo di collaborazione, espletabile anche mediante l'esauriente sottoposizione al datore di lavoro dei rilievi e delle proposte in materia di valutazione dei rischi che coinvolgono le sue competenze professionali in materia sanitaria. Viene cosi delimitato l'ambito degli obblighi imposti dalla norma al `medico competente', adempiuti i quali, l'eventuale ulteriore inerzia del datore di lavoro resterebbe imputata a sua esclusiva responsabilità penale a mente dell'art. 55, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008. Tale assunto non viene condiviso dalla ricorrente, la quale propone una interpretazione più restrittiva della disposizione in esame, limitando l'obbligo di collaborazione a quelle attività nelle quali il `medico competente' viene direttamente coinvolto dal datore di lavoro, accedendo cosi alla tesi prospettata da autorevole dottrina ma non condivisa dal Tribunale. La questione implica, in primo luogo, una adeguata individuazione del ruolo assegnato al `medico competente' nell'ambito dell'organizzazione aziendale, ruolo che la dottrina citata qualifica di mera consulenza, evidenziando l'anomalia della sottoposizione alla sanzione penale (che non colpisce l'altra figura professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione cui pure è attribuito il ruolo di consulente del datore di lavoro), nonostante il fatto che il `medico competente' non possa obbligare il datore di lavoro a consultarlo né disponga di alcuna possibilità di iniziativa nella gestione del processo di valutazione del rischio. Deve osservarsi, a tale proposito, che l'ambito di attribuzione di compiti consultivi al `medico competente' è stato già oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla normativa previgente, considerando la figura professionale in esame - introdotta, per la prima volta, dall'art. 33, D.P.R. n. 303/1956 - ed osservando che la competenza cui si riferiva la richiamata disposizione riguardava sia la valutazione delle condizioni di salute, avuto riguardo alle sostanze cui il lavoratore è esposto, sia la coadiuvazione del datore di lavoro/dirigente, tenendo conto dell'esito delle visite effettuate, nella individuazione dei rimedi, anche di quelli dettati dal progresso della tecnica, da adottare contro le sostanze tossiche o infettanti o comunque nocive, escludendo, cosi, una posizione meramente esecutiva ed attribuendo al `medico competente' un ruolo propulsivo che determinava, quale conseguenza, l'assunzione di una autonoma posizione di garanzia in materia sanitaria (Sez. IV, n. 5037, 6 febbraio 2001). A conclusioni analoghe si è pervenuti anche successivamente, osservando che il medico aziendale è un collaboratore necessario del datore di lavoro, dotato di professionalità qualificata per coadiuvarlo nell'esercizio della sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro dove essa è obbligatoria, aggiungendo che la sorveglianza sanitaria, pur costituendo un obbligo per il datore di lavoro per la tutela dell'integrità psicofisica dei lavoratori, deve essere svolta attraverso la collaborazione professionale del medico aziendale (Sez. III, n. 1728, 21 gennaio 2005). Del resto, il ruolo di consulente del datore di lavoro è stato attribuito anche al responsabile del servizio di prevenzione e protezione in tale specifica materia, osservando che lo stesso, sebbene privo di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, svolge il compito di prestare `ausilio' al datore di lavoro nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza, nonché di informazione e formazione dei lavoratori come disposto dall'art. 33 del D.Lgs. n. 81/2008. Da ciò consegue che, pur restando il datore di lavoro il titolare della posizione di garanzia nella specifica materia, facendo a lui capo l'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, non può escludersi una concorrente responsabilità per il verificarsi di un infortunio possa profilarsi anche nei confronti di detto responsabile il quale, ancorché privo di poteri decisionali e di spesa tali da consentire un diretto intervento per rimuovere le situazioni di rischio, può rispondere del fatto quando sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione. Deve dunque ritenersi corretta la funzione consultiva attribuita al `medico competente' nell'ambito del rapporto di collaborazione che la legge gli attribuisce ma una eccessiva delimitazione di tale ruolo nei termini indicati in ricorso non può ritenersi corretta. Occorre innanzitutto non dimenticare che le finalità del D.Lgs. n. 81/2008 sono quelle di assicurare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro e che la valutazione dei rischi - definita dall'art. 2, comma 1, lettera q) del D.Lgs. n. 81/2008 come la `valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza' - è attribuita dall'art. 29 del medesimo D.Lgs. al datore di lavoro, per il quale costituisce, ai sensi dell'art. 17, un obbligo non derogabile. È evidente, avuto riguardo all'oggetto della valutazione dei rischi, che il datore di lavoro deve essere necessariamente coadiuvato da soggetti quali, appunto, il `medico competente', portatori di specifiche conoscenze professionali tali da consentire un corretto espletamento dell'obbligo mediante l'apporto di qualificate cognizioni tecniche. L'espletamento di tali compiti da parte del `medico competente' comporta una effettiva integrazione nel contesto aziendale e non può essere limitato ad un ruolo meramente passivo in assenza di opportuna sollecitazione da parte del datore di lavoro, anche se il contributo propulsivo richiesto resta limitato alla specifica qualificazione professionale. Del resto, l'importanza del ruolo sembra essere stata riconosciuta dallo stesso legislatore il quale, nel modificare l'originario contenuto dell'art. 58, ha introdotto la sanzione penale solo con riferimento alla valutazione dei rischi. Tale scelta interpretativa, contrariamente a quanto affermato in ricorso, non presenta difficoltà insormontabili nella individuazione del modello di condotta sanzionabile perché l'ambito della responsabilità penale resta confinato nella violazione dell'obbligo di collaborazione che, come si è detto, comprende anche un'attività propositiva e di informazione che il medico deve svolgere con riferimento al proprio ambito professionale ed il cui adempimento può essere opportunamente documentato o comunque accertato dal giudice del merito caso per caso. In tema di valutazione dei rischi, il `medico competente' assume elementi di valutazione non soltanto dalle informazioni che devono essere fornite dal datore di lavoro, quali quelle di cui all'art. 18, comma 2, ma anche da quelle che può e deve direttamente acquisire di sua iniziativa, ad esempio in occasione delle visite agli ambienti di lavoro di cui all'art. 25, lettera I) o perché fornitegli direttamente dai lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria o da altri soggetti. Tale approccio interpretativo appare pienamente condivisibile e perfettamente in linea con le finalità del decreto legislativo in esame. Altrettanto correttamente il provvedimento impugnato fornisce adeguata risposta alle obiezioni, pure sollevate in ricorso, riguardo alla circostanza che la condotta del `medico competente', proprio per il ruolo assegnatogli, non potrebbe assumere rilevanza penale in caso di totale inerzia del datore di lavoro che non provvede all'avvio della procedura di valutazione dei rischi di cui all'art. 29, D.Lgs. n. 81/2008. La violazione dell'obbligo sanzionata penalmente dall'art. 58, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 riguarda ogni inosservanza e non anche la totale violazione dell'obbligo medesimo».

    «Il legislatore, richiedendo che la figura del medico competente sia individuata sulla base di specifici parametri e nel richiedere contestualmente anche una comprovata esperienza professionale del medico designato, ha inteso evidentemente individuare la figura di un medico di qualificata professionalità, in grado di diventare il collaboratore del datore di lavoro e del responsabile del Servizio di prevenzione e protezione aziendale».

    Il medico competente di una azienda fu condannato per il reato di cui all'art. 17, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 626/1994, perché aveva omesso in occasione delle riunioni periodiche «di comunicare ai rappresentanti per la sicurezza i risultati anonimi degli accertamenti clinici e strumentali eseguiti e di fornire indicazioni sul significato dei risultati e, in particolare, pur avendo i rappresentanti evidenziato formalmente obiezioni sui contenuti delle relazioni predette e richiesti ulteriori informazioni e chiarimenti utili alla comprensione delle problematiche attinenti lo stato di salute delle maestranze, non aveva fornito tali informazioni». La Sez. III rileva che «il D.Lgs. n. 626/1994 è stato abrogato dall'art. 304 del D.Lgs. n. 81/2008», che «il fatto posto a base dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 17, comma 1, lettera g), del decreto abrogato, è stato sostanzialmente riprodotto nell'art. 25, lettera i), del nuovo decreto», e che «l'originaria fattispecie è stata trasformata in illecito amministrativo [art. 58, comma 1, lettera c)]. Ne desume che, «per effetto di tale modifica la sentenza impugnata deve essere annullata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato». E afferma che, «per il principio d'irretroattività, di cui all'art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, non si dispone la trasmissione degli atti all'autorità competente per l'irrogazione della sanzione amministrativa, mancando la previsione di retroattività della norma abrogativa del reato».

    Un datore di lavoro adibisce al lavoro notturno due dipendenti senza sottoporli ai prescritti accertamenti sanitari in violazione degli artt. 14 e 18-bis D.Lgs. n. 66/2003: ``In base all'art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 66/2003, la valutazione dello stato di salute dei lavoratori addetti al lavoro notturno deve avvenire attraverso controlli preventivi e periodici adeguati al rischio cui il lavoratore è esposto, secondo le disposizioni previste dalla legge e dai contratti collettivi''. (Questa sentenza è riportata più estesamente sub art. 55, al paragrafo 2).

    Il D.Lgs. n. 66/2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, come modificato dal D.Lgs. n. 213/2004, prevede, all'art. 14, comma 1, che «la valutazione dello stato di salute dei lavoratori notturni deve avvenire a cura e a spese del datore di lavoro, o per il tramite delle competenti strutture sanitarie pubbliche di cui all'articolo 11 o per il tramite del medico competente di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, attraverso controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno a cui sono adibiti i lavoratori stessi», e, all'art. 18-bis, che «la violazione delle disposizioni di cui all'articolo 14, comma 1, è punita con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da 1.549 euro a 4.131 euro». (Sul lavoro notturno v., per aspetti attinenti all'individuazione del «lavoro notturno», Cass. 20 giugno 2008, Puccia, in Dir. prat. lav., 2008, 29, 1690; Cass. 10 maggio 2006, Mauro, ibid., 2006, 21, 1194; Cass. 18 luglio 2005, Strambi, ibid., 2005, 37, 2056; Cass. 31 maggio 2002, Ricetti, in ibid., 2002, 25, 1713).

    Nel caso esaminato dalla sentenza annotata, i datori di lavoro furono condannati per il reato di cui agli artt. 14, comma 1, e 18-bis, D.Lgs. n. 66/2003, per avere adibito al lavoro notturno due lavoratrici, «senza aver effettuato i prescritti accertamenti preventivi e periodici volti a constatare l'assenza in capo alle stesse di controindicazioni al lavoro notturno».

    Nell'annullare con rinvio la sentenza di condanna, la Sez. III ritiene, anzitutto, «la configurabilità del lavoro notturno svolto dalle dipendenti», in quanto tali dipendenti «svolgevano parte della loro attività lavorativa nella fascia oraria comprendente l'intervallo fra la mezzanotte e le 5 del mattino». Nega, peraltro, che «le due dipendenti abbiano prestato lavoro notturno per almeno 80 giorni lavorativi all'anno». Premette al riguardo che «l'art. 2, comma 1, lettera b), n. 2), D.Lgs. n. 532/1999 prevede che, `in difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all'anno'». Prende atto che la sentenza impugnata si fonda «sull'implicito assunto per cui l'anno cui riferirsi per calcolare se il limite di 80 giorni sia stato superato può essere individuato in qualsiasi intervallo temporale di 365 giorni». Afferma che «si tratta di un'interpretazione che si pone in conflitto con la lettera e con la ratio della disposizione, perché trascura del tutto la durata complessiva del rapporto di lavoro, non consentendo, ad esempio, la concentrazione delle giornate di lavoro notturno alla fine dell'anno lavorativo e all'inizio dell'anno lavorativo successivo». Esclude che «la disposizione censurata (possa) essere intesa nel senso che l'anno cui fa riferimento sia l'anno solare, perché tale interpretazione - non tenendo conto dell'effettiva durata del rapporto di lavoro - avrebbe l'inconveniente di consentire, per rapporti di lavoro iniziati in prossimità della fine dell'anno solare, un cumulo di giornate di lavoro notturno nella fase finale dell'anno e nella fase iniziale dell'anno successivo: sarebbe, in altri termini, possibile svolgere 160 giorni sostanzialmente consecutivi di lavoro notturno, a condizione di ripartirli fra i mesi finali dell'anno in cui il rapporto di lavoro è sorto e i mesi iniziali dell'anno successivo». Rileva che «la ragione per cui il limite in questione è stato fissato è quella di tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore in relazione all'attività da questo effettivamente svolta», e che «una tale tutela si realizza solo interpretando la disposizione in questione nel senso che il riferimento all'anno deve calcolarsi dall'inizio del rapporto di lavoro, in modo tale che per ogni effettivo anno di rapporto di lavoro, e non in relazione a periodi di tempo convenzionalmente considerati, il lavoratore abbia la garanzia di non dover prestare più di 80 giorni di lavoro notturno». Ne ricava, «nel caso in esame, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio, in mancanza di elementi certi desumibili dalla sentenza stessa circa l'effettivo inizio dei rapporti di lavoro delle due dipendenti».

    «L'eventuale impossibilità del lavoratore in malattia di accedere in azienda non impediva comunque che la visita medica avrebbe potuto essere svolta in forma domiciliare», e «laddove ci sia un responsabile della sicurezza, è quest'ultimo che deve attivarsi per il rispetto delle norme antinfortunistiche», salvo l'obbligo del datore di lavoro di «vigilare in ordine al corretto espletamento da parte del responsabile della sicurezza delle attività a lui delegate».

    Un medico sportivo è imputato del delitto di omicidio colposo in danno di un minore, ``avendogli rilasciato in più occasioni il certificato di idoneità sportiva valido un anno e non avendone disposto la sospensione in via prudenziale dopo essere stato messo al corrente del fatto che il giovane, che esercitava attività sportiva calcistica, aveva avuto una sincope da sforzo nel corso di un allenamento''. Peraltro, la Sez. IV ne conferma l'assoluzione, non potendo ravvisarsi ``il nesso causale tra la condotta contestata al medico e l'evento letale, atteso che la patologia dalla quale era affetto il minore, non univocamente accertata neppure in sede di autopsia, presentava caratteristiche tali da non poter essere diagnosticata in vita''.

    Con riguardo al decesso di un calciatore professionista accasciatosi al suolo nel corso di una partita di calcio, la Sez. IV annulla con rinvio la condanna dei medici sociali delle due squadre in campo, oltre che del medico responsabile dell'unità mobile di pronto soccorso presente presso lo stadio. E delinea comunque la posizione di garanzia del medico sociale: ``Entrambi i medici sociali assunsero una posizione di garanzia nei confronti del calciatore, derivante dalla intervenuta instaurazione della relazione terapeutica tra i predetti medici ed il calciatore. L'immediatezza dell'intervento dei due medici sociali, a fronte della perdita di conoscenza del calciatore, induce a rilevare che essi posero in essere una istintiva, pratica attuazione dei doveri deontologici consacrati nel giuramento professionale, comprendenti il `dovere di prestare soccorso nei casi di urgenza'. Peraltro, tale dovere deontologico si coniuga con gli obblighi gravanti sul medico sociale della squadra, ove militava il calciatore. Egli, cioè, agì in esecuzione anche dei doveri protettivi assunti, quale medico sportivo, verso i calciatori della propria squadra. La materiale instaurazione della relazione terapeutica con il calciatore privo di conoscenza, da parte di entrambi i medici sociali che si trovavano a bordo campo, oltre a collocarsi nell'ambito dei doveri sanciti dalla richiamata norma interna dell'ordinamento professionale, discende dalle competenze proprie dei medici sportivi e si coniuga con la funzione fondante la teorica della posizione di garanzia, data dall'esigenza, di natura solidaristica, di offrire tutela a determinati beni giuridici, attraverso l'individuazione di soggetti che hanno la possibilità, mediante la propria condotta, di influenzare il decorso degli eventi. I predetti medici sportivi, avvicinandosi doverosamente al calciatore che si trovava esamine sul campo di gioco e ponendo in essere le manovre di primo soccorso, instaurarono la relazione terapeutica con il calciatore ed assunsero una posizione di garanzia giuridicamente rilevante, ai sensi della clausola di equivalenza di cui all'art. 40, cpv., c.p., nei confronti dell'atleta colpito da malore''. La posizione di garanzia assunta dai medici sociali, mediante l'instaurazione della relazione terapeutica con il calciatore, non venne meno nel momento in cui sopraggiunsero sul posto altri soggetti che prestarono assistenza medica al calciatore.

    Un medico specialista in medicina dello sport fu condannato per il delitto di omicidio colposo in danno di un ragazzo di anni quattordici che nel corso di un incontro di calcio si accasciava al suolo decedendo subito dopo. All'esame autoptico, la vittima era risultata affetta da cardiomiopatia ipertrofica e la causa del decesso, riconducibile a tale patologia, individuata in un'aritmia ventricolare ipercinetica. Al medico sportivo era stato addebitato di aver rilasciato - a seguito di una visita specialistica - il certificato di idoneità sportiva agonistica al giovane malgrado questi avesse già in passato manifestato patologie di origine cardiaca che erano emerse anche nel corso della visita cardiologia eseguita nella medesima occasione. La Sez. IV conferma la condanna: «I segnali avrebbero dovuto porre in allarme il medico sportivo e indurlo ad ulteriori e più approfonditi accertamenti: in particolare l'episodio verificatosi all'età di cinque anni risultava da una dichiarazione sottoscritta dalla madre del ragazzo che risulta allegata alla scheda di valutazione redatta dall'imputato e nella quale si segnala che all'età di cinque anni la vittima aveva presentato una tachicardia parossistica poi regredita. A fronte di questi segnali era obbligo preciso del medico disporre per ulteriori e più approfonditi esami che avrebbero consentito di verificare l'esistenza della patologia ritenuta di agevole accertamento. Iniziative che competevano all'imputato in quanto la responsabilità del rilascio del certificato era a lui attribuita anche perché il cardiologo aveva segnalato le anomalie rilevate peraltro documentate e dallo stesso imputato accertate. Se l'imputato avesse disposto l'accertamento più approfondito sarebbe emersa la grave patologia e si sarebbero potute adottare iniziative terapeutiche atte a contenere o a ritardare il rischio di decesso improvviso. Si osserva che anche sotto il profilo eziologico la sentenza impugnata si sottrae alle censure proposte. Se è vero che la patologia accertata aumenta il rischio di morte improvvisa nel soggetto che ne è affetto, è altrettanto vero che tale rischio sale in maniera esponenziale quando il malato sia sottoposto ad uno sforzo fisico o ad un'intensa emozione. Seppure il rischio di morte improvvisa è da ritenere sempre presente in una persona che soffre della patologia di cui trattasi, la morte nel caso in esame era riconducibile allo sforzo compiuto nel corso della partita. Se fosse stata negata l'idoneità allo svolgimento di attività sportiva agonistica quel pomeriggio il ragazzo non sarebbe deceduto».

    Di grande interesse è a proposito dell'obbligo di denuncia delle patologie asbesto-correlate:

    Il dirigente medico e ufficiale di p.g., direttore responsabile di una struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro fu imputato del reato di cui all'art. 361 c.p., ``per aver omesso o ritardato di provvedere ad almeno 253 segnalazioni di malattia professionale - soprattutto mesotelioma pleurico -, oltre quelle giacenti In archivio e altre per le quali vi era delega da parte della procura della repubblica, con conseguente grave ritardo per le indagini). Assolto in primo grado perché il fatto non costituisce reato, venne condannato in appello''.

    La Sez. VI annulla la condanna perché il fatto non sussiste. Ammette che ``le manifestazioni d'inerzia della direzione, tenute nonostante i ripetuti solleciti e richiami dell'autorità giudiziaria a procedere alle indagini e alle segnalazioni di competenza, abbiano costituito violazione delle linee guida dettate'' dal procuratore generale presso la corte d'appello. Rileva che tali linee guida, ``a fronte di casi di mesotelioma o asbesto correlati, prescrivevano al servizio di prevenzione e sicurezza sul lavoro l'obbligo di attivarsi immediatamente e prioritariamente per lo svolgimento della relativa attività ispettiva e per la raccolta di ogni informazione utile, coordinandosi ove opportuno con gli uffici della procura della repubblica''. Tuttavia, osserva che ``l'inerzia della struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro diretta dall'imputato (di possibile rilevanza nella competente sede amministrativa o disciplinare), rispetto al prescritto obbligo di procedere all'inchiesta e all'analisi dei diffusi casi di malattia professionale da mesotelioma pleurico o asbesto correlati - come richiesto per motivi di giustizia dalla competente autorità giudiziaria non consente affatto di ritenere perfezionata, insieme con l'inadempimento di quel dovere per la mancata risposta alle prescrizioni e sollecitazioni dell'a.g., altresì la violazione dell'obbligo di denunzia da parte del pubblico ufficiale di un reato di cui abbia avuto notizia nell'esercizio delle sue funzioni e del quale debba riferire all'autorità giudiziaria''. Spiega che ``tale obbligo, la cui inosservanza è penalmente sanzionata dall'art. 361 c.p., sorge, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, solo quando il pubblico ufficiale è posto in grado di individuare gli elementi del reato ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della relativa denuncia'' (in merito v. i precedenti richiamati in Alibrandi, Codice penale commentato con la giurisprudenza, Piacenza, 2018, 1071 s.). Precisa che siffatta ``fattispecie astratta'' è ``diversa a ben vedere da quella descritta nell'imputazione contestata, nella quale l'omissione concretamente addebitata all'imputato ha per oggetto non la denunzia di un reato, bensì l'avvio di una pur doverosa attività ispettiva, mirata all'esame dei singoli casi di malattia professionale, sia per finalità epidemiologiche sia per selezionare fra essi quelli di rilevanza penale, laddove fossero effettivamente emersi elementi qualificati di reato a carico dei datori di lavoro, sì da determinarne - ma solo a questo punto l'obbligo di denuncia alla competente autorità giudiziaria''.

    In passato, a proposito dell'obbligo di referto per le lesioni personali colpose da lavoro, era insorto in giurisprudenza un contrasto fra due indirizzi.

    Stando ad un primo indirizzo, «non è consentito al sanitario, allorché risulti pacifico che l'ambiente in cui hanno avuto genesi le lesioni personali sia quello ove venga prestata da parte del soggetto infortunato la propria attività lavorativa subordinata, valutare se il fatto lesivo sia o non da mettere in relazione alla violazione da parte del datore di lavoro di norme antinfortunistiche, posto che il luogo e i dati tempo-modali dell'infortunio, la qualità dell'infortunato, la natura e durata della lesione patita nel corso dell'attività lavorativa, rendono possibilisticamente ragionevole la configurabilità del delitto di cui all'art. 590 u.c. c.p. in concorso con le condizioni di cui ai commi 3 e 4 di tale norma».

    Ad avviso, invece, di un altro orientamento, «per il dolo del reato di cui all'art. 365 c.p. occorre, oltre alla coscienza e volontà di omettere o ritardare il referto da parte dell'esercente la professione sanitaria, che questi si renda conto che ci si trovi in presenza di fatti i quali possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio, sicché il dolo medesimo non sussiste qualora erroneamente l'agente abbia la certezza dell'inesistenza di un delitto di quella specie» e «l'elemento soggettivo deve essere escluso quando la prospettazione dell'accadimento sia tale da far ragionevolmente ritenere che questo si sia verificato per cause del tutto accidentali». In questo quadro, si ritiene «non sussistente la prova dell'elemento soggettivo del reato di omissione di referto sulla base della descrizione dei fatti offerta dall'infortunato».

    Nel corso del 1999, sembrò prevalere il primo di questi due indirizzi (v., infatti, quanto riferito in ISL, 1999, 4, 233). Successivamente, con due sentenze pronunciate nel corso del 2000, la Sez. VI apparve mossa dall'intento di ricercare una mediazione tra siffatti indirizzi (per un tentativo di mediazione v. già, in particolare, Cass. 11 giugno 1998, Ligabò, e Cass. 11 giugno 1998, Arioli, ibid.,1998, 11, 587). Prese le mosse da questo rilievo: «la valutazione, che l'esercente di una professione sanitaria deve compiere per stabilire se il caso in cui presta la propria assistenza `possa presentare i caratteri di un delitto pel quale si debba procedere d'ufficio', non può che essere fatta in concreto, avuto riguardo alla specifica e peculiare ricostruzione del fatto operata in base agli elementi osservati e alle notizie acquisite al momento della prestazione professionale». Diede atto che, nel caso di specie, «poiché il medico imputato visitando il paziente e interpellandolo sulla meccanica dell'infortunio, si è formato l'idea che le lesioni de quibus non potevano derivare da un fatto delittuoso, egli ha legittimamente omesso di presentare referto». Segnalò che, ad avviso del pubblico ministero ricorrente, «in ogni evento lesivo dipendente da infortunio sul lavoro vi sarebbe la possibilità di configurare la commissione di un delitto procedibile d'ufficio, per cui sorgerebbe sempre a carico del medico, chiamato a prestare assistenza, il dovere di presentare referto», ma sostenne che una tale tesi «è nella sua assoluta categoricità inaccettabile». Ammise che, «all'origine del gran numero di incidenti sul lavoro, v'è quasi sempre l'inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni», ma non escluse che «possano anche verificarsi eventi lesivi senza il concorso della responsabilità del datore di lavoro o dei suoi preposti». E pertanto non negò «all'esercente la professione sanitaria, che presti assistenza a un lavoratore dipendente infortunato, un margine di autonomia nella valutazione della possibilità che l'evento lesivo derivi o no da un delitto procedibile d'ufficio» (Cass. 6 aprile 2000, P.M. in c. Martelli, e Cass. 6 aprile 2000, P.M. in c. Leoni, ibid., 2000, 6, 329).

    Un medico di servizio presso il pronto soccorso di un ospedale, fu condannato per il reato di cui all'art. 365 c.p., «perché, avendo prestato la propria assistenza in un caso che presentava i caratteri del delitto perseguibile d'ufficio, trattandosi di lesioni da infortunio sul lavoro con prognosi superiore a 40 giorni, ometteva di riferirne all'autorità competente (polizia giudiziaria e Spresal)». Ad avviso dei magistrati di merito, «la normativa antinfortunistica trovava applicazione pure nei confronti di lavoratori autonomi e liberi professionisti (richiamando in proposito l'art. 1.2 lettera c, della legge n. 123/2007), e nel caso concreto il referto non trasmesso attestava quale motivo del `passaggio' al pronto soccorso `infortunio sul lavoro' con prognosi di `60 giorni s.c.'», e «sussisteva la colpevolezza in ragione del consapevole accertamento di un infortunio in ambito di lavoro e della durata delle lesioni e quindi dell'obbligo di referto (attesa anche la natura di reato di pericolo della fattispecie incriminatrice), sicché l'omissione doveva attribuirsi quantomeno a dolo eventuale». Dal suo canto, l'imputato sosteneva la «insussistenza del reato quantomeno in relazione all'elemento psicologico, atteso che l'infortunato aveva costantemente dichiarato, durante i diversi momenti dell'intervento sanitario complessivo, di essere libero professionista». E poneva una questione di diritto: «incontestata la sussistenza di obblighi prevenzionali anche per lavoratori autonomi e professionisti, in questo caso il punto era non la responsabilità del libero professionista nei confronti di se stesso o di altri, bensì l'eventuale sussistenza della responsabilità di un terzo per il suo infortunio»; «nella prospettazione del fatto che si era concretamente presentato al clinico sarebbe mancato all'evidenza ogni carattere di delitto idoneo ad attivare l'obbligo di referto».

    Nell'affrontare «la questione della buona fede del medico, cui era stata prospettata una situazione (l'infortunio sul lavoro del libero professionista) che, per sé, era priva dei caratteri dell'evidenza di una possibile rilevanza penale di terzi per fatto procedibile d'ufficio», la Sez. VI prende atto che «la corte d'appello non contraddice in fatto la qualità di libero professionista dichiarata, né ipotizza la falsità di tale rappresentazione (tantomeno, in tale evenienza, spiegando sulla base di quali elementi in fatto il medico avrebbe dovuto nel caso accorgersene)», e «sembra poggiare la condanna sulla mera qualificazione di infortunio sul lavoro, tuttavia non consentendo di comprendere il rilievo in proposito dato al richiamo all'estensione degli obblighi di prevenzione anche a lavoratori autonomi e, afferma, a liberi professionisti». Osserva che «l'estensione degli obblighi prevenzionali a tali categorie di soggetti [prescindendo dalla correttezza dell'affermazione quanto ai liberi professionisti perché l'approfondimento del punto non rileva in concreto nella fattispecie] prevede forme tassative di loro responsabilità individuale sanzionate in via amministrativa (artt. 21 e 60, D.Lgs. n. 81/2008)». Ritiene che, «a fronte invece di lesioni riportate `sul lavoro' dal libero professionista, da un lato quell'estensione non rileva, dall'altro la giurisprudenza penale relativa al rapporto di lavoro subordinato non può essere richiamata, senza `mediazioni interpretative' specifiche che diano conto di peculiarità in fatto della vicenda contingente». Spiega che, «mentre per ogni lavoratore subordinato vi è un datore di lavoro destinatario di obblighi dedicati specifici, altrettanto e notoriamente non può dirsi per il libero professionista che sia effettivamente tale (ancorché possa sussistere in astratto la responsabilità di un datore di lavoro nei confronti di terzi, e quindi anche del libero professionista, quando l'eventuale infortunio del terzo avvenga in ambiente di lavoro del quale un determinato datore sia responsabile e a causa di inosservanza di norme prevenzionali)». Nota come non si possa «ignorare (perché il cenno contribuisce ad evidenziare la necessità di un percorso logico diverso da quello possibile per il lavoratore subordinato) che la denuncia di infortunio sul lavoro da parte del libero professionista potrebbe esser fatta anche a meri fine assicurativi personali in contesti nei quali nessuna responsabilità di altri sia ipotizzabile, procedibile o meno che sia d'ufficio». Rimprovera ai magistrati di merito il fatto che «la risposta alla censura dell'impugnazione sull'elemento psicologico viene data eludendo sostanzialmente il problema della peculiarità dello status di libero professionista, e non di lavoratore subordinato, allo stato non contraddetta, dando rilievo ad un'estensione di obblighi che nella specie non rileva (essendo infortunato lo stesso libero professionista in ipotesi lui destinatario dell'adempimento degli obblighi `estesi'), e poi mutuando principi della giurisprudenza relativa alla relazione peculiare datore di lavoro/lavoratore subordinato senza spiegare la possibile pertinenza al caso, data per scontata». E nel ribadire «l'insegnamento di questa Corte sulla rigorosa prova del dolo di omissione del referto», annulla la sentenza di condanna del medico con rinvio per nuovo giudizio.

    Un medico competente addetto alla sorveglianza sanitaria sui lavoratori di una società cooperativa fu imputato del reato di lesioni colpose in danno di un dipendente della cooperativa: ``L'operaio, avendo accusato dei forti dolori alla schiena, si era fatto visitare dal medico competente. Otto giorni dopo, mentre era intento a sollevare uno scatolo del peso di circa 30 kg, colpito da un lancinante dolore alla schiena, era caduto al suolo, procurandosi la frattura dell'apofisi trasversa di una vertebra. Per contro il medico dell'azienda solo circa tre mesi dopo aveva inviato alla società un certificato medico che esprimeva il giudizio di `idoneità con prescrizioni' del lavoratore, sulla base della visita medica di cui s'è detto; prescrizioni consistenti nel divieto di movimentare manualmente pesi superiori ai 10 kg. Si addebita, fra l'altro, all'imputato di essere incorso in colpa generica, omettendo quello che avrebbe dovuto essere il comportamento doveroso (avvertire immediatamente il datore di lavoro che le condizioni fisiche del lavoratore, già sulla base di una prima, sia pure provvisoria, diagnosi, erano tali da sconsigliarne impiego in attività che implicassero sollevamento di pesi di una certa consistenza), che era stata causa delle lesioni patite da lavoratore. Se il professionista avesse segnalato la condizione di sofferenza del lavoratore con le relative prescrizioni, il datore di lavoro non lo avrebbe adibito a quelle mansioni pesanti che ne avevano causato la caduta. L'ipotesi prospettata dall'imputato secondo la quale la lesione avrebbe potuto essere messa in diretta correlazione con il sollevamento del peso, piuttosto che con la caduta, seguita alla fitta lancinante di dolore, è priva di senso: in un caso o nell'altro, infatti, la colpa del medico resta ferma. Infine, costituisce un mero sospetto congetturale l'affermazione secondo la quale era dubbia la fonte del dolore che affliggeva il lavoratore. Costui, da tempo, lamentando dolore alla schiena, chiedeva di essere addetto ad attività lavorativa compatibile con il suo stato di salute e proprio per questo si era recato a visita presso il medico dello stabilimento, il quale, dopo un esame piuttosto superficiale (a suo stesso dire), in attesa di ricevere il referto dell'immagine della risonanza magnetica prodotta dal lavoratore, aveva assai tardivamente, e ad incidente oramai verificatosi, impartito la prescrizione di cui s'è detto. Prescrizione che ben avrebbe dovuto impartire immediatamente, non avendo nel tempo trascorso acquisito alcun implemento diagnostico. Infine, la movimentazione manuale di un peso di trenta chilogrammi, specie in condizioni di bassa temperatura (trattavasi di scatole conservate in ambiente refrigerato), costituiva specifico rischio di lesioni dorso-lombari''.

    Sorprende invece la vicenda esaminata da:

    Il legale rappresentante di una s.r.l., esercente l'attività di rivendita di prodotti farmaceutici - imputato del reato di lesioni personali in danno di un dipendente incaricato di sistemare pacchi sugli scaffali per circa 3-4 ore al giorno e affetto da una spondilolistesi congenita aggravatasi a causa dell'attività di movimentazione dei carichi - viene assolto: ``manca la prova che il datore di lavoro conoscesse la pregressa patologia da cui era affetto il dipendente, non avendo mai comunicato nulla il dipendente alla società e non essendo stata immediata la comunicazione del medico competente all'azienda circa l'esito di una visita''. Non risulta, per contro, imputato il medico competente.

    ``I reati commessi dal medico competente in violazione degli obblighi posti a suo carico sono reati di pericolo astratto per la cui configurabilità non è necessario che dalla violazione dell'obbligo derivi un danno alla salute o alla incolumità del lavoratore, anzi la funzione stessa del sanitario è preordinata ad evitare tali evenienze perché il legislatore, richiedendo che la figura del medico competente sia individuata sulla base di specifici parametri e nel richiedere contestualmente anche una comprovata esperienza professionale del medico designato, ha inteso evidentemente individuare la figura di un medico di qualificata professionalità, in grado di diventare il collaboratore del datore di lavoro e del responsabile del Servizio di prevenzione e protezione aziendale''. Quanto poi all'asserita ``non precettività delle linee guida e dei protocolli in considerazione dell'autonomia professionale del medico e delle scelte di natura tecnica e discrezionale che senza dubbio gli competono'', la Sez. III pone in luce che lo stesso imputato ``si mostra avvertito del fatto che, sulla base della normativa di cui al D.Lgs. n. 81/2008, il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41 attraverso protocolli sanitari definiti in ragione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati, sicché i protocolli sanitari, in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, non escludono che il medico aziendale possa prescrivere accertamenti più approfonditi di quelli necessari che, in quanto prescritti dalla buona arte medica, sono perciò contemplati in linee guida o protocolli accreditati dalla comunità scientifica; ma proprio per questo motivo il medico competente non può esimersi dal prescrivere e quindi deve prescrivere quelli minimi richiesti per un'efficace prevenzione''. Ultima notazione: la contravvenzione di cui all'art. 25, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 non si consuma al momento della visita medica, perché l'incriminazione ha natura di reato permanente, atteso che la condotta illecita si protrae sino al momento di ottemperanza all'obbligo di legge che, nel caso in esame, è stato osservato successivamente alla data di accertamento del reato con l'adempimento delle prescrizioni imposte''.

    Inedita è, anzitutto, l'imputazione: non già l'omicidio colposo o la lesione personale colposa di cui rispettivamente agli artt. 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., bensì il reato previsto dall'art. 590-sexies c.p., e, dunque, l'omicidio colposo commesso nell'esercizio della professione sanitaria ``per inosservanza delle regole che presiedono l'arte medica''. Questi gli addebiti di colpa: ``avere omesso, nel redigere i certificati di idoneità lavorativa, di effettuare un'adeguata valutazione dei risultati degli esami ematochimici con specifico riferimento alle alterazioni della crasi ematica che presentava evidente leucopenia, lieve anemia, piastrinopenia, pancitopenia, linfocitosi con segnali di evidente peggioramento rispetto agli esami precedenti''; ``aver omesso qualunque informazione e comunicazione dell'esito degli esami sopraindicati al diretto interessato e al medico curante, determinando così un ritardo diagnostico della patologia (mielodisplasia) della quale il lavoratore era affetto da almeno due anni compromettendo così le possibilità di intervento terapeutico che avrebbero potuto allungarne la durata della sopravvivenza e migliorare la qualità della vita''. Nell'annullare con rinvio la condanna, la Sez. IV premette che l'imputato ``aveva provveduto a consegnare i risultati delle analisi cliniche e in particolare degli esami ematologici al lavoratore, consigliandogli di recarsi dal medico curante per ulteriori approfondimenti diagnostici mentre quest'ultimo non aveva dato alcun seguito a tali indicazioni''. Osserva che ``non è prevista, al riguardo, alcuna interlocuzione diretta da parte del medico competente nei confronti del medico curante del lavoratore, cosicché nessun rimprovero a tale titolo può essergli addebitato''. Sostiene che ``non risulta adeguatamente sviluppato il tema volto a verificare se, nello svolgimento delle visite periodiche eseguite dall'imputato nei confronti del lavoratore, sulla base delle effettive conoscenze, sia cliniche che di lavoro, o, comunque, di quelle conoscibili, e nella correlata formulazione dei relativi giudizi di idoneità alle mansioni specifiche, sia ravvisabile, a suo carico, la sussistenza di una condotta colposa tenuto conto dei doveri cautelari attribuitigli dall'ordinamento giuridico in ragione della sua specifica posizione di garanzia rivestita''. Sottolinea che ``il presupposto della rimproverabilità soggettiva nei confronti dell'imputato implica la prevedibilità dell'evento che va compiuta ex ante, riportandosi al momento in cui la condotta è stata posta in essere avendo riguardo anche alla potenziale idoneità della stessa a dar vita ad una situazione di danno e riferendosi alla concreta capacità del soggetto di uniformarsi alla regola cautelare, da commisurare al parametro del modello dell'homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze da parte dell'agente concreto''. Aggiunge che, ``a fronte di una condotta attiva indiziata di colpa che abbia cagionato un certo evento, occorre, poi, operare il giudizio controfattuale, ovvero chiedersi se, in caso di c.d. comportamento alternativo lecito, l'evento che ne è derivato si sarebbe verificato ugualmente e ne rappresenti la concretizzazione del rischio''. Prende atto che, a dire del tribunale, ``l'imputato avrebbe dovuto non dare la piena idoneità lavorativa, non solo perché con una patologia così grave non si comprende come possa essere idoneo al lavoro'', ed inoltre ``così facendo avrebbe costretto il lavoratore a intraprendere i dovuti accertamenti diagnostici'', mentre secondo la corte di appello ``il giudizio di idoneità lavorativa lo avrebbe indotto a riferire alla moglie che l'era tutto a posto''. Inoltre, rammenta che, ``nelle ipotesi di omicidio o di lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro-fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, deve essere svolto dal giudice tenendo conto della specifica attività che sia stata specificamente richiesta al sanitario (diagnostica, terapeutica, di vigilanza o di controllo) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale''. Ne desume che ``sussiste il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o con minore intensità lesiva''.

    Note a piè di pagina
    86
    Lettera sostituita dall'art. 15, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera sostituita dall'art. 15, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    87
    Lettera sostituita dall'art. 15, lett. b) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera sostituita dall'art. 15, lett. b) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    88
    Lettera inserita dall’art. 14, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    Lettera inserita dall’art. 14, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    89
    Lettera abrogata dall'art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera abrogata dall'art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    90
    Lettera aggiunta dall’art. 14, comma 1, lett. c), n. 2), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    Lettera aggiunta dall’art. 14, comma 1, lett. c), n. 2), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    Fine capitolo
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