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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. La valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o delle miscele chimiche impiegate, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro e i rischi derivanti dal possibile rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri temporanei o mobili, come definiti dall'articolo 89, comma 1, lettera a), del presente decreto, interessati da attività di scavo.101

    1-bis. La valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 è effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all'articolo 6, comma 8, lettera m-quater), e il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione, a far data dal 1° agosto 2010.102

    2. Il documento di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), redatto a conclusione della valutazione, può essere tenuto, nel rispetto delle previsioni di cui all'articolo 53, su supporto informatico e deve essere munito anche tramite le procedure applicabili ai supporti informatici di cui all'articolo 53, di data certa o attestata dalla sottoscrizione del documento medesimo da parte del datore di lavoro nonché, ai soli fini della prova della data, dalla sottoscrizione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale e del medico competente, ove nominato, e contenere:103

    a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa. La scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l'idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione;104

    b) l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati a seguito della valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a);

    c) il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;

    d) l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri;

    e) l'indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale e del medico competente che ha partecipato alla valutazione del rischio;

    f) l'individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento.

    3. Il contenuto del documento di cui al comma 2 deve altresì rispettare le indicazioni previste dalle specifiche norme sulla valutazione dei rischi contenute nei successivi titoli del presente decreto.

    3-bis. In caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare immediatamente la valutazione dei rischi elaborando il relativo documento entro novanta giorni dalla data di inizio della propria attività. Anche in caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell'adempimento degli obblighi di cui al comma 2, lettere b), c), d), e) e f), e al comma 3, e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.105

    3-ter. Ai fini della valutazione di cui al comma 1, l'Inail, anche in collaborazione con le aziende sanitarie locali per il tramite del Coordinamento Tecnico delle Regioni e i soggetti di cui all'articolo 2, comma 1, lettera ee), rende disponibili al datore di lavoro strumenti tecnici e specialistici per la riduzione dei livelli di rischio. L'Inail e le aziende sanitarie locali svolgono la predetta attività con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.106

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Dall'omissione all'incompletezza del DVR - 2. Insufficienza di un divieto - 3. Affidamento al lavoratore del comportamento da tenere e DVR - 4. Non equipollenza al DVR di una prassi operativa - 5. DVR come atto scritto, con obbligo di firma e data certa - 6. Espresso rinvio del DVR ad altri documenti - 7. Specificità del DVR e certificazione di sicurezza - 8. La prevedibilità dei rischi: rischi ignoti, rischi rari, rischi occulti, operazioni sporadiche, eventi sentinella, il senno del poi, i near miss - 9. I rischi potenzialmente presenti - 10. Misure tipiche e misure atipiche - 11. DVR e sapere tecnologico e scientifico - 12. DVR e ISO - 13. Obbligo di attuare le misure non previste dal DVR - 14. Valutazione dei rischi e informazione-formazione - 15. Omessa valutazione del rischio e iniziative del preposto - 16. Obbligo di elaborazione e rielaborazione preventive del DVR - 17. L'organigramma aziendale nel DVR - 18. Onere della prova - 19. DVR scaduto e DVR non veritiero - 20. Aziende fino a dieci addetti - 21. Campo di applicazione del DVR - 22. La valutazione dei soli rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori - 23. Situazione geopolitica e condizioni sanitarie del Paese - 24. Il rischio alcool - 25. Valutazione dei rischi e manutenzione - 26. I ritmi lavorativi - 27. Il comportamento istintivo del lavoratore - 28. La solitudine - 29. La caduta di un albero come rischio professionale - 30. Stress lavoro-correlato e indicazioni della Commissione consultiva permanente non conformi al D.Lgs. n. 81/2008 - 31. Atti vessatori sul luogo di lavoro - 32. Violenza e terrorismo - 33. Molestie sessuali - 34. Lo stress da calore - 35. La prevedibilità del rischio sismico - 36. La prevedibilità degli eventi calamitosi: da Messina a Genova e a Milano - 37. Sanzione prevista in caso di omessa o inadeguata valutazione del rischio - 38. Nesso causale tra mancanza o carenza del DVR e infortunio sul lavoro - 39. Continuità normativa - 40. Il caso del lavoratore notturno in solitaria consumatore di ansiolitici - 41. Il DVR allo zoo - 42. Il rischio gravidanza - 43. Rischio di interferenza con il traffico veicolare - 44. La valutazione del rischio Covid-19 .

    ``Il datore di lavoro, nell'elaborazione del documento di valutazione dei rischi, è tenuto a scegliere, tra le tecniche adottabili per prevenire i fattori di pericolo presenti nell'ambito dell'attività lavorativa che gestisce, quella che, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, sia la più idonea a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. È stata ben evidenziata, con riguardo all'elaborazione del documento di valutazione dei rischi, la genericità della mera previsione del c.d. rischio da investimento o da urto causato dall'albero in abbattimento laddove non accompagnata dalla indicazione delle misure di prevenzione e protezione da adottare per prevenire tale rischio. Rappresenta obbligo di diligenza del garante, oltre che prevedere il rischio, anche indicare nel DVR e, quindi, adottare misure appropriate a prevenirlo''.

    ``Il datore di lavoro non è esonerato da responsabilità ove risulti l'inidoneità di una misura prevista nel documento di valutazione dei rischi, anche nel caso in cui vi sia stata la designazione di un preposto al rispetto delle misure di prevenzione''. Nel caso di specie, si è ritenuta ``la responsabilità degli imputati, nella qualità di soci amministratori dell'ente titolare della cava di marmo e datori di lavoro, per le lesioni patite dal proprio dipendente, per colpa specifica, consistita nella violazione della regola cautelare di cui all'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, che imponeva al datore di lavoro di redigere un D.S.S. (corrispondente al D.V.R. nel settore minerario) completo e, nella specie, di prevedere il rischio specifico derivante dalla lavorazione di sezionamento della pietra''.

    ``Le principali norme in tema di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro, in termini tanto di misure di tutela e obblighi del gestore quanto di valutazione dei rischi, suggeriscono una valutazione che, muovendo da una individuazione astratta del rischio tipologico, passi poi a una considerazione dell'area di rischio da gestire con riferimento alla concreta attività svolta dal lavoratore e alle condizioni di contesto della relativa esecuzione. Tra le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in particolare, l'art. 15 T.U. colloca non solo la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza ma anche l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari, `inerenti alla sua persona', e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione (comma 1, rispettivamente, lett. a ed m). Non deve altresì ignorarsi che l'art. 18, comma 1, lett. c), T.U. dispone che il datore di lavoro e i dirigenti, `nell'affidare i compiti ai lavoratori', devono `tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza'. Si tratta di previsione che guarda, in primo luogo, all'assegnazione delle mansioni in via preventiva e generale ma alla quale non sfugge anche la quotidiana replica del conferimento di compiti al lavoratore da parte del datore di lavoro. Diverse le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l'obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa. Spunti di riflessione in merito alla questione in esame, conducenti verso l'indicato approccio valutativo dell'«area di rischio», non mancano nell'art. 28 T.U. in materia di valutazione dei rischi, attività del datore di lavoro non delegabile (ex art. 17 T.U.). La valutazione dei rischi, alla quale consegue l'elaborazione del documento di valutazione rischi, come precisa il comma 1, deve difatti riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti `gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari', tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, e `quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza', nonché `quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro. Il relativo documento (di valutazione rischi), redatto a conclusione della valutazione di cui innanzi, come dispone il comma 2 del citato art. 28, deve contenere una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa. In essa devono essere specificati i criteri adottati per la valutazione stessa con l'individuazione però `delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento'. La rilevanza in concreto dell'attività svolta dal lavoratore e delle condizioni di contesto della relativa esecuzione emerge altresì dall'attenzione che il T.U. pone rispetto al contesto, che potrebbe definirsi dinamico-evolutivo, con riferimento al quale necessita individuare l'area di rischio da gestire. L'art. 29, comma 3, T.U., difatti, nel disciplinarne le modalità di effettuazione, prevede che la valutazione dei rischi debba essere immediatamente rielaborata, con conseguente rielaborazione del relativo documento di valutazione dei rischi, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro, significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni ovvero quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità''.

    ``Condivide la risposta data dalla Corte d'Appello alla censura prospettata dall'imputato circa il carattere di semplicità che deve rivestire il DVR, evidenziando che tale caratteristica non può comportare la totale mancanza di istruzioni relativamente ai meccanismi di protezione del lavoratore''.

    ``Il datore di lavoro ha l'obbligo di adottare idonee misure di sicurezza anche in relazione a rischi non specificamente contemplati dal documento di valutazione dei rischi, così sopperendo all'omessa previsione anticipata''. (Conforme Cass. 12 dicembre 2023 n. 49298).

    ``È stata disattesa la tesi difensiva dell'equipollenza tra il DVR e il manuale di istruzioni del macchinario, dovendo la valutazione del rischio consistere nell'analisi dei dati in funzione delle misure da adottare per eliminare o ridurre il rischio individuato''.

    Il titolare di una s.r.l. ed esecutore effettivo dei lavori di riparazione dell'ascensore di un fabbricato insieme al dipendente apprendista è condannato per l'infortunio subito da costui: ``trovandosi sulla copertura della cabina dell'ascensore che fungeva da piano di lavoro, insieme al dipendente, ometteva di predisporre idonei dispositivi di sicurezza, in particolare non provvedeva ad ancorare l'impianto di sollevamento alla guida dello stesso ed a verificare l'efficienza del freno paracadute, talché l'ascensore cadeva al suolo da un'altezza di circa 5 metri''. La Sez. IV osserva: ``Non può essere posto in dubbio, come fa l'imputato, che nella specie fosse doveroso il porre in essere ulteriori cautele per evitare il rischio di evento infausto a prescindere dal contenuto del documento di valutazione del rischio. Nei casi in cui, come nella specie, tale documento non preveda specificamente un rischio, è obbligo del datore di lavoro, in concreto, adottare le idonee misure di sicurezza relative ad un rischio non contemplato, così sopperendo all'omessa previsione anticipata''.

    ``Non è solo l'assenza, ma l'incompletezza del documento a concretizzare l'ipotesi di reato, giacché, ritenendo diversamente, tale redazione assumerebbe un significato solo formale'', e, ``invece, lo scopo del documento di valutazione dei rischi, la cui redazione si applica a tutte le lavorazioni, è quello di costituire un elemento concreto per la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, in quanto in esso il datore di lavoro, dopo aver valutato i rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, specificando pure i criteri adottati per la valutazione stessa, procede ad individuare le misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale, conseguenti alla valutazione suddetta nonché a formulare il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza''.

    ``Nel DVR deve essere prevista non solo l'indicazione del tipo di rischio, ma anche l'indicazione delle procedure e tecniche da adottare per prevenire detto rischio. Tra gli obblighi del datore di lavoro non delegabili ex art 17 D.Lgs. n. 81/2008, neanche nell'ambito di imprese di notevoli dimensioni, rientrano la valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza, necessaria per la redazione del documento previsto dall'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, che contiene non soltanto l'analisi valutativa dei rischi, ma anche l'indicazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi''.

    ``Sul piano concettuale la totale omissione della valutazione dei rischi è cosa diversa dalla valutazione di alcuni soltanto dei rischi presenti nel processo produttivo. Ma la normativa prevenzionistica pone a carico del datore di lavoro l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, di redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81/2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, di talché l'incompleta valutazione determina una deviazione dal facere doveroso, che vale ad integrare l'omissione giuridicamente rilevante. Pertanto, ove i rischi siano stati tutti valutati ma ne sia scaturita una carente individuazione delle misure, ancora può parlarsi di omissione della valutazione, perché essa non è costituita soltanto dal rilevamento, dall'analisi e dalla ponderazione dei rischi ma anche dalla concretizzazione del giudizio sul rischio nel modo di essere dell'organizzazione produttiva: quindi dall'individuazione delle misure di prevenzione necessarie. la corte di appello ha correttamente ritenuto che integra l'omissione della valutazione la mancata individuazione e quindi la mancata adozione delle misure prevenzionistiche idonee ad eliminare il rischio di schiacciamento dell'operatore addetto alla manutenzione del macchinario (distacco di questo dalla rete di alimentazione elettrica e/o diminuzione della velocità di discesa dello stantuffo, distanziamento dei pulsanti)''.

    ``Il semplice divieto di utilizzare un certo strumento o un bene aziendale o di evitare una certa attività o ancora di non accedere ad una struttura non fa venir meno l'obbligo del garante di tenere in siffatti elementi perfetta efficienza o di impedire concretamente e non solo disciplinarmente l'attività vietata. Su colui che riveste la posizione di garanzia, infatti, grava l'obbligo di porre in essere la prevenzione concreta, volta a contenere il rischio garantito''. (V. anche Cass. 7 giugno 2018, n. 25815).

    ``Per prevenire il rischio, non era sufficiente informare il lavoratore del pericolo, né indicargli verbalmente la corretta procedura da seguire. Il datore di lavoro avrebbe dovuto eliminare il rischio o neutralizzarne gli effetti, impedendo in radice la possibilità di interferenza tra lavoratore e fonte di pericolo, frapponendo un ostacolo all'ingresso del lavoratore nella rastrelliera, riducendo gli spazi o realizzando una barriera adeguata per impedire lo scivolamento della lastra''.

    Nello stabilimento di una s.p.a., un magazziniere viene investito da un cancello deragliato dalla sede di scorrimento in quanto privo dei necessari requisiti di sicurezza in violazione del punto 1.6.12 dell'allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008, richiamato dagli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, del medesimo testo unico. A sua discolpa, il datore di lavoro sostiene che ``al lavoratore, alcolista cronico, era stato interdetto dal medico del lavoro l'uso del muletto'', che ``egli veniva occupato solo al banco vendita'', che ``il giorno dell'infortunio, del tutto autonomamente ed all'insaputa del direttore del magazzino, egli aveva sottratto dall'ufficio a fianco della direzione le chiavi del cancello, inutilizzato da anni, il cui uso era stato interdetto a tutto il personale, al fine di provvedere allo scarico di confezioni da un camion a mezzo di un muletto, senza che un simile incarico gli fosse stato conferito da alcuno e nonostante il richiamo già ricevuto a seguito dell'utilizzo del mezzo in altra occasione''. La Sez. IV ribatte che ``il mantenimento del cancello in piena efficienza avrebbe certamente evitato l'infortunio e ciò indipendentemente dalla violazione degli ordini del datore di lavoro da parte del lavoratore'', e che ``il semplice divieto di utilizzare un certo strumento o un bene aziendale o di evitare una certa attività o ancora di non accedere ad una struttura non fa venir meno l'obbligo del garante di tenere siffatti elementi in perfetta efficienza o di impedire concretamente e non solo disciplinarmente l'attività vietata''. E spiega con parole eloquenti che ``su colui che riveste la posizione di garanzia grava l'obbligo di porre in essere la prevenzione concreta, in questo caso anche normativamente prevista, volta a contenere il rischio garantito''.

    La Sez. IV condivide ``il giudizio di insufficienza (e francamente `singolarità') del divieto imposto ai dipendenti nel documento di valutazione dei rischi di guidare con le mani i carichi sospesi non accompagnato da alcuna indicazione in positivo sul come agire in quella situazione. Ciò equivaleva, in sostanza, a segnalare il pericolo senza però spiegare come ci si dovesse comportare per evitarlo nell'eseguire la lavorazione. Il datore di lavoro non poteva non avvedersi ab initio, nell'imporre quel divieto senza fornire istruzioni alternative, del fatto che veniva in sostanza devoluto agli stessi lavoratori scegliere la maniera con cui ovviare alle problematiche connesse al lavoro da svolgere (e i lavoratori, anche perché non erano stati messi loro a disposizione strumenti alternativi, avevano semplicemente deciso di contravvenire a quel divieto)''.

    Dove si avverte l'eco di un principio - tradizionalmente accolto in giurisprudenza - di inderogabilità delle misure di sicurezza stabilite dalla legge (v. Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Ipsoa, 1994, 37 s.; successivamente cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2015, n. 16407, e Cass. 25 agosto 2015, n. 35531).

    ``Il datore di lavoro aveva sostanzialmente affidato ai lavoratori la scelta del comportamento da seguire in operazioni di estremo pericolo, sulla base della loro personale esperienza, prudenza, capacità e abilità. Valutazione, tuttavia, che il combinato disposto di cui agli artt. 17 e 28 del D.Lgs. n. 81/2008 espressamente ritaglia tra gli obblighi datoriali non delegabili''.

    ``Non assume valore equipollente alla valutazione dello specifico rischio contenuta nel POS l'esistenza di una semplice prassi operativa; la valutazione del rischio è operazione complessa che consiste nell'analisi dei dati e nella loro valutazione in funzione di una concomitante definizione delle misure da adottare per eliminare o, ove possibile, ridurre il rischio individuato, essa sfocia peraltro in una compiuta formalizzazione, sicché una prassi operativa è per definizione priva di ogni premessa analitica e valutativa, come di una veste formale; nasce dalla mera ripetizione dell'attività, in assenza di eventi di disconferma ed in forza di una conferma non legata ad un rapporto costo/benefici che non considera necessariamente il valore prioritario della sicurezza e della salute dei lavoratori''.

    ``L'obbligo giuridico della previsione di una adeguata valutazione dei rischi è un atto formale che richiede data certa e contenuti specifici e che non ammette equipollenti''.

    In uno stabilimento industriale, scoppia un incendio: un lavoratore muore, altri due subiscono ustioni. La Cassazione conferma la condanna per omicidio colposo sia dei due fratelli soci-amministratori della s.r.l. esercente lo stabilimento, sia del direttore della produzione e nel contempo RSPP (i reati di lesioni personali e incendio colposi si erano nel frattempo prescritti). Tra gli addebiti di colpa: incompleta valutazione del rischio inerente alle modalità di movimentazione delle cisterne. A propria discolpa, gli imputati deducono ``il valore solo `formale' del documento di valutazione dei rischi, nel senso che la sua palese incompletezza sarebbe stata nella sostanza `sanata' per effetto dell'attività di formazione e informazione di cui i dipendenti erano stati comunque destinatari''. La Sez. IV ritiene che, ``sebbene il concetto di valutazione dei rischi debba essere inteso in senso sostanziale e non formale, tuttavia non è condivisibile l'assunto che tende a svilire il rilievo del documento di valutazione dei rischi, a fronte di un quadro normativo inequivocabile, che impone l'adozione di uno specifico atto scritto, con contenuti precisi, allo scopo di evitare qualsiasi incertezza sul punto''.

    ``Il DVR deve essere sottoscritto dal datore di lavoro e dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione ma ai soli fini della prova della data. Nel caso di specie, era stato sottoscritto dal solo dirigente, quale apparente responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Sicché il datore di lavoro è venuto meno agli obblighi connessi alla sua posizione di garanzia, non avendo predisposto e firmato il Documento in questione''.

    ``Qualora le specifiche misure di prevenzione e sicurezza siano riportate in documenti distinti come nel caso di specie i libri di manutenzione, ``per rilevare tale eventuale integrazione del libro di manutenzione, ad essa avrebbe dovuto fare espresso rinvio il DVR''.

    ``Ogni rischio, in quanto in ipotesi riconducibile a varie operazioni demandate ai lavoratori, non può considerarsi adeguatamente valutato sol perché di esso si faccia menzione nef DVR, in quanto l'analisi del rischio va effettuata in diretta relazione con il contesto lavorativo e con le mansioni assegnate ai lavoratori''.

    Nel confermare la condanna di un datore di lavoro per la violazione dell'art. 28, comma 2, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, la Sez. IV evoca, anzitutto, una norma largamente citata, ma di rado richiamata nella sua integralità: il DVR. deve contenere ``una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa'', e ``la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l'idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione''. Osserva che ``l'art. 55, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008 sanziona penalmente il datore di lavoro che adotta il documento di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), in assenza degli elementi di cui all'articolo 28, comma 2, lettere a), primo periodo, ed f)''. Prende atto che nel caso di specie la ditta dell'imputato ``aveva ottenuto in subappalto l'incarico di costruire il supporto, chiamato `sella', funzionale a posare un carrello munito di ruote utile per spostare in un altro capannone lo scafo in ferro di uno yacht di 50 metri, e, a tale scopo, doveva montare profilati in ferro, saldati tra di loro, i quali servivano come supporto per il sollevamento''. Segnala che l'imputato è stato ritenuto ``responsabile del reato di cui al combinato disposto degli artt. 28, comma 2, lett. a), e 55, comma 4, D.Lgs. n.81/2008, perché il documento di valutazione dei rischi della ditta era privo di indicazioni in ordine ai rischi connessi al montaggio della sella per il trasporto dello scafo, pur costituendo questa operazione l'oggetto specifico del contratto di cui la medesima impresa era parte''. Nota che ``il documento di valutazione dei rischi e il DUVRI redatti dalla ditta erano privi di una valutazione del rischio specifico connesso all'operazione di spostamento e montaggio dei profilati in ferro'', in quanto ``si limitavano ad indicare i rischi chimici ed i rischi connessi alla saldatura, ma non spiegavano come questo tipo di lavorazione avrebbe dovuto svolgersi''. Ne desume che ``i rischi connessi al montaggio della sella riguardano il lavoro costituente l'oggetto specifico del subappalto, anche per l'espressa previsione di tale contratto, nel quale, appunto, si indicava come prestazione `il lavoro di costruzione ed il montaggio di selle per il trasporto dello scafo'''. Precisa che ``la necessità di specifiche indicazioni sulla valutazione dei rischi relativa alla fase di lavoro concernente la `realizzazione montaggio delle selle per il trasporto dello scafo', risulta confermata dal dato normativo''. Spiega in proposito che ``il primo periodo dell'art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n.81/2008 richiede una `valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa''', e che ``il riferimento ad una valutazione di `tutti i rischi' rende palese l'inidoneità di indicazioni generiche, prive di riferimenti allo specifico tipo di lavorazione da svolgere''. A maggior ragione, per il fatto che ``il tipo di lavorazione cui si riferiscono i rischi non specificamente esaminati costituisce l'oggetto specifico del contratto da cui discende l'obbligo di procedere alla redazione del documento di valutazione dei rischi''. (Singolare è, peraltro, l'attribuzione al subappaltatore di un documento - il DUVRI - la cui paternità esclusiva fa capo al committente: sul punto v. sub art. 26, il paragrafo 8).

    ``Il DVR si presentava estremamente generico e mancante di valutazioni analitiche atte a prevenire in concreto i rischi, soprattutto a fronte delle grandi dimensioni della azienda. Il DVR non fa menzione alcuna dei rischi connessi alla lavorazione, né tantomeno li analizza, essendo a tal proposito del tutto generico e aspecifico l'accenno contenente una brevissima citazione, senza però descrivere, ai fini preventivi, i rischi collegati alla predetta fase e le misure idonee ad evitarli''.

    Per un incendio di vaste proporzioni divampato durante le operazioni di travaso di preparati pericolosi e altamente infiammabili effettuate nel reparto laccatura di uno stabilimento, un lavoratore muore e tre restano feriti a causa delle ustioni. Vengono condannati il direttore generale della divisione della s.p.a. e il direttore dello stabilimento. Addebito di colpa: ``aver consentito che tali pericolose operazioni di travaso avvenissero: senza una adeguata valutazione dei rischi conseguenti ad un eventuale sversamento dei preparati, altamente infiammabili; senza l'adozione di adeguate procedure da seguire in caso di notevoli sversamenti di prodotti, essendo stati gli operai dotati di semplici `kit di raccolta sversamenti', costituiti da stracci e pochi chili di materiale assorbente, idonei ad arginare piccole perdite, senza il necessario impiego di carrelli elevatori antideflagranti, presenti nei diversi reparti in numero di appena due su otto, senza la predisposizione di adeguati processi lavorativi, l'adozione di idonee misure organizzative e di protezione collettiva, nonostante analoghi incidenti e incendi, sia pure di minore portata, verificatisi in passato''. In particolare, ``il DVR non era adeguato perché, pur prevedendo il rischio da sversamento di vernice, nulla diceva in merito ai grandi sversamenti, manifestando così una evidente carenza sotto il profilo delle misure preventive da adottare''. La Sez. IV conferma la condanna degli imputati. Rileva che ``lo strumento della adeguata valutazione dei rischi è un documento che il datore di lavoro deve elaborare con il massimo grado di specificità, restandone egli garante''. Osserva che ``una adeguata valutazione del rischio deve prevedere il pericolo insito nella lavorazione o nell'ambiente di lavoro, non solo in modo generico, ma in relazione alla casistica concretamente verificabile'', e che ``il documento di valutazione dei rischi adottato dalla s.p.a. non rispettava, in parte qua, il principio di specificità''. Spiega che ``la generica previsione di un rischio incendio collegato a fuoriuscite di vernice, senza distinguere tra una modesta fuoriuscita o uno sversamento importante, non assolveva al richiamato obbligo di specificità perché non consentiva di adottare le misure preventive conseguenti né di formare adeguatamente i lavoratori a riconoscere le situazioni di pericolo per la loro sicurezza''. Prende atto che, ``nella specie, l'unica misura adeguata da adottare al fine di evitare i pericoli insiti in un grande sversamento era la previsione di una particolare procedura comportamentale articolata in più fasi: contenere il dilagare della sostanza, allontanarsi dalla zona pericolosa, evitare qualsiasi tipo di innesco ed allertare il responsabile per la sicurezza'', e che ``di tale procedura non vi era traccia alcuna, e sul punto il caposquadra aveva riferito che non era mai stato istruito su come affrontare sversamenti di proporzioni simili a quello accaduto e che non sapeva come comportarsi''. Né ``al difetto di specificità del DVR avevano sopperito le previsioni del PEA'': ``Il PEA prevedeva che chiunque avesse rilevato la fuoriuscita di sostanze pericolose avrebbe dovuto avvertire il responsabile ed evitare di tenere una serie di comportamenti che potessero fungere da innesco. Tale Piano però, non essendo volto ad analizzare i rischi insiti nelle lavorazioni, indicava solo a grandi linee le situazioni concrete in presenza delle quali, per tutti i lavoratori, scattava la procedura di emergenza (quali la rottura di una tubazione o l'avaria di una valvola) ma non prendeva in considerazione la situazione nella quale si verificava il rischio per il lavoratore intento a svolgere una determinata mansione, consentendogli così di riconoscere il pericolo a cui era esposto (non solo nessuna formazione specifica era stata predisposta ed attuata nei confronti dei lavoratori per i grandi sversamenti, poiché il detto rischio non era stato oggetto di specifica previsione, ma venivano addirittura applicate sanzioni disciplinari nel caso che la vernice tracimasse dai bidoni e non venisse prontamente recuperata)''.

    ``L'indicazione dell'incendio nel documento di valutazione dei rischi rappresenta una previsione generica che si trova in tutti i documenti relativi a lavorazioni infiammabili, nel mentre l'adozione, successiva all'infortunio, di prassi volte ad eliminare anche quella possibilità di innesco che si era verificata nei confronti dell'infortunato può solo dimostrare l'evitabilità dell'evento, non anche la prevedibilità dello stesso. Il documento di valutazione dei rischi non può mai assumere il valore di un generico richiamo agli astratti pericoli derivanti dalla lavorazione, ma, al contrario, evidenzia i rischi specifici e concretizzati; ciò non significa, tuttavia, che la precettività dello strumento debba dipendere da un'analisi analitica, non solo delle fonti di pericolo, ma, altresì, esplicativa delle scaturigini dei meccanismi fisici, chimici o biologici alla base del predetto rischio. Nel caso di specie, la lavorazione, implicando la manipolazione di materiali infiammabili e sensibili alle cariche elettrostatiche, costituiva concretizzazione del rischio d'incendio. Ciò era nella piena consapevolezza dei garanti per la sicurezza tanto da aver cercato di corroborare, piuttosto goffamente, l'asserto d'imprevedibilità acquisendo, tuttavia solo dopo l'evento, certificazione di garanzia dalla società esportatrice indiana. Certificazione che, è bene soggiungere, pur se fosse stata acquisita prima dell'incidente in sé non poteva assumere significato liberatorio: l'agente modello, dotato di specifica competenza ed esperienza, non può appagarsi di una tale attestazione in presenza di materiale infiammabile, spesso riscontrato difettoso, che per essere utilizzato aveva bisogno di scuotimento; in definitiva, si era in presenza di uno specifico e concreto rischio che la certificazione, pur ove fosse stata tempestivamente ottenuta, non avrebbe fugato.''.

    ``Il datore di lavoro, anche avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare tutti i fattori di rischio concretamente presenti all'interno dell'azienda secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica. Pur essendo colui che ha - o deve avere - la conoscenza dell'intera organizzazione per la produzione perché ne è l'autore ed il dominus, il singolo datore di lavoro rimane un utilizzatore e non un creatore di sapere cautelare. I rischi implicati dalle attività la cui individuazione si deve pretendere dal datore di lavoro sono quelli riconoscibili in forza delle conoscenze poste a disposizione dalla scienza e dalla tecnica o da consolidate conoscenze esperenziali (e non da prassi non collimanti con tale patrimonio di conoscenze). Ciò ha ben definite implicazioni sul piano probatorio, giacché l'adempimento dell'obbligo di valutazione dei rischi ha quale termine di raffronto i rischi che al tempo erano riconoscibili. Se talvolta il raffronto non è operazione complessa o non è oggetto di contestazione nel processo, quando ciò non sia l'accertamento processuale deve necessariamente estendersi all'acquisizione di prove in merito allo stato della scienza, della tecnica e della esperienza al tempo della valutazione dei rischi (e, in virtù del dovere di aggiornamento, sino al tempo dell'evento), per identificare quali rischi fossero riconoscibili nel caso concreto (e quali misure fossero individuabili come atte a fronteggiarli). In assenza di un simile approfondimento probatorio è particolarmente elevato il rischio che il giudice elabori la regola cautelare traendola dalla dinamica causale in concreto verificatasi. Formandosi, in tal modo, un convincimento viziato perché fondato sul confondimento tra la regola atta ad evitare l'evento, identificabile dal tipico punto di vista causale, ovvero ex post, con quella doverosa, che va individuata ponendosi nella condizione ex ante.

    ``Il datore di lavoro, quale titolare della posizione di garanzia, deve prevenire il concretizzarsi di rischi riguardanti la verificazione anche di un `evento raro' la cui realizzazione non sia però ignota all'esperienza e alla conoscenza della scienza tecnica e, una volta individuato il rischio, predisporre le misure precauzionali e procedimentali, ove necessarie, per impedire l'evento''.

    ``L'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008 non fa nessuna distinzione fra le attività ordinariamente e quelle straordinariamente svolte dall'impresa, riconnettendo l'obbligo di valutazione del datore di lavoro a qualsiasi rischio il lavoratore debba affrontare nel corso dello svolgimento dell'attività lavorativa, indipendentemente dalla sua occasionalità, non potendo la sicurezza della sua salute `sospendersi' quando egli sia chiamato a svolgere attività diverse da quelle cui è ordinariamente addetto. Spetta al datore di lavoro, laddove il DVR non preveda una determinata attività che deve essere svolta, anche occasionalmente, sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi, all'interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori''.

    ``Il datore di lavoro non risponde per la mancata adozione di misure atte a prevenire il rischio di infortuni ove la condotta non sia esigibile per l'imprevedibilità della situazione di pericolo da evitare''.

    ``L'obbligo di valutazione dei rischi posto dagli artt. 17 e 28 del D.Lgs. n. 81/2008 ha ad oggetto tutti i rischi esistenti. Essi, ovviamente, non sono quelli riconosciuti o riconoscibili dall'agente concreto ma quelli conosciuti secondo la migliore scienza o, quanto meno, dall'homo eiusdem professionis et condicionis.

    Diversamente si finirebbe per definire lo standard cautelare sulla base delle capacità soggettive dell'agente concreto (senza che sia ben definito il limite del processo di individualizzazione). La individuazione della regola cautelare deriva dalla oggettiva esistenza di rischi per la cui gestione è competente il soggetto la cui condotta è all'esame, mentre va riservata al giudizio sulla rimproverabilità della eventuale violazione cautelare la verifica della possibilità di tenere il comportamento lecito; verifica da compiersi tenendo conto anche della individuale possibilità di riconoscere il rischio. Alla luce di tale chiarimento risulta la irrilevanza della prevedibilità individuale del rischio insito nelle operazioni sui rotoli; piuttosto è rilevante che, contemplando le lavorazioni la astratta evenienza di un riavvolgimento degli stessi - evenienza che neppure gli imputati affermano essere in linea teorica esclusa per il particolare spessore - esistesse il rischio connesso a tale operazione, stante la possibilità (non solo ipotetica) che si dovesse provvedere ad esso''.

    La Sez. IV premette che ``il datore di lavoro ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro'', e che, dunque, ``i cardini sui quali il datore di lavoro deve fondare l'analisi e la previsione dei rischi sono, in primo luogo, la propria esperienza, l'evoluzione della scienza tecnica ed infine la casistica verificabile nell'ambito della lavorazione considerata''. Ne desume che ``la previsione e prevenzione del rischio deve `coprire' qualsiasi fattore di pericolo evidenziato nell'evoluzione della scienza tecnica non solo dall'esperienza che l'imprenditore sviluppi su una certa attività o su uno specifico macchinario, che egli abbia potuto direttamente osservare'', e che, pertanto, ``non basta a giustificare la mancata previsione del pericolo nel documento di valutazione dei rischi, né che la sua realizzazione non si sia mai presentata nello svolgimento dell'attività concreta all'interno dell'impresa, né che esso non rientri nell'esperienza indiretta del datore di lavoro''. Osserva che, ``per considerare `non noto' il rischio occorre che anche la scienza tecnica non abbia potuto osservare l'evento che lo realizza'', e che ``solo in questo caso viene meno l'obbligo previsionale del datore di lavoro, cui non può richiedersi di oltrepassare il limite del sapere tecnico-scientifico, con un pronostico individuale''. La conclusione è che ``l'evento `raro', in quanto non ignoto, è sempre prevedibile e come tale deve essere previsto, in quanto rischio specifico e concretamente valutabile''. Spiega che ``l'evento raro non è l'evento impossibile'', e ``anzi è un evento che, per definizione, prima o poi si verifica, ma il suo positivo realizzarsi è connotato da una `bassa' frequenza statistica'', e che ``ciò comporta, nondimeno, che nel caso in cui la lavorazione comporti un elevato numero di azioni ripetitive, particolare cura debba assicurarsi alla previsione del concretizzarsi di rischi riguardanti il prodursi di un `evento raro', la cui realizzazione non sia ignota all'esperienza e alla conoscenza della scienza tecnica''. Con riguardo al caso di specie, rileva come l'inconveniente ``non si fosse mai presentato in precedenza nell'utilizzo del macchinario'', e che tuttavia, sulla scorta di quanto riferito dal consulente, un simile inconveniente si era già verificato almeno altre due volte su quel tipo di macchinario, ancorché in un lasso temporale molto dilatato''. Ne ricava che ``l'anomalia, benché rara - e sinanco molto rara, tenendo conto dello svolgimento quotidiano di quelle operazioni e della loro ripetitività, non era ignota e come tale doveva essere considerata nel documento di valutazione dei rischi, da parte del datore di lavoro - in quanto titolare della posizione di garanzia - anche attraverso la consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione - cui compete la conoscenza e la segnalazione di eventuali rischi non effettivamente previsti dal documento di valutazione, sempre emendabile ed integrabile, rientrando fra i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, con l'obbligo, una volta individuato il rischio, di predisporre le misure precauzionali e quelle procedimentali, se necessarie, ad evitare l'evento e quindi idonee ad assicurare la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori''.

    In questo ambito normativo, appare doverosa anche la valutazione dei rischi inerenti ad ``attività e situazioni non di routine'' (v. ISO 45001:2018, punto 6.1.2.1., lettera b).

    Il presidente del consiglio di amministrazione di una s.p.a. viene condannato per l'infortunio subito da un dipendente ``intento ad estrarre una pedana mobile dalla banchina dell'officina, nella fase di sollevamento della stessa'', e ``colpito al volto da una forca del carrello elevatore manovrato dall'infortunato''. Colpa: ``mancata previsione dei rischi connessi all'attività da compiersi nella fase dl manutenzione delle pedane e mancata attuazione di misure tecniche organizzative idonee ad escludere tali rischi''. Deduce l'imputato che ``l'operazione di estrazione della pedana, è stata erroneamente ritenuta come un'attività di ordinaria manutenzione'', e che ``in realtà, la manutenzione della pedana doveva essere effettuata in loco e la decisione dello spostamento della stessa fu conseguenza di una libera iniziativa intrapresa dal lavoratore''. Ne desume che ``lo spostamento delta pedana era attività di carattere straordinario, non prevista nel DVR perché estranea alle attività da compiersi ed il lavoratore avrebbe dovuto rendere edotto il datore di lavoro prima di compiere tale operazione''. Soggiunge che ``l'estrazione della pedana e il trasporto in officina per la riparazione non erano operazioni prevedibili, in quanto non contemplate dal costruttore, non previste dal datore di lavoro e mai analizzate dai responsabile per la sicurezza''. La Sez. IV è di contrario avviso: ``Il fatto che il tribunale abbia definito `sporadica' l'operazione compiuta dal lavoratore non esclude concettualmente la nozione di `prassi', la quale, pur sostanziandosi nella ripetizione di un comportamento, non necessariamente deve essere dotata del carattere della quotidianità. La modalità del sollevamento della pedana mediante utilizzo del carrello elevatore trovava applicazione allorquando si presentava la necessità di spostare l'elemento per effettuare riparazioni più complesse in officina. È preciso obbligo del datore dì lavoro, ai sensi dell'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, prevedere e indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda in relazione alle singole lavorazioni da compiersi, indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. In relazione a tale obbligo è del tutto ininfluente il carattere non quotidiano dell'attività di manutenzione delle pedane da operarsi presso l'officina''. (Per un cenno sul punto v. Cass. 2 novembre 2020, n. 30276: ``Dalle sentenze di merito, emerge che la lavorazione cui fu addetto l'infortunato non era `sporadica': per il funzionario della ASL già la lucidatura effettuata una volta al mese non poteva considerarsi sporadica'').

    ``Il responsabile delegato per il servizio di prevenzione e protezione sui luoghi di lavoro di una s.p.a. è condannato per l'infortunio occorso a un dipendente. Condotta colposa rimproverata: inosservanza dell'art. 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, ``consistita nell'avere omesso di fornire al lavoratore attrezzature idonee ed adeguate al lavoro da svolgere e, in particolare, i ganci di sollevamento dotati dei dispositivi di sicurezza di chiusura dell'imbocco della spalla agganciata al carro ponte, da adottare per evitare, nel corso delle manovre, lo sganciamento degli organi di presa''. A sua discolpa, pone un problema di ``prevedibilità esperienziale del rischio realizzatosi, mai presentatosi in precedenza, nonostante quel tipo di dispositivi (ganci privi di paletta) fossero stati utilizzati in azienda per quasi trent'anni senza che si fosse verificato alcun incidente''. La Sez. IV ribatte: ``La questione da affrontare non è l'estensione degli obblighi del datore di lavoro alla previsione dell'evento `raro', in quanto esito dell'infrequente attivazione di una concatenazione di cause non ignote, ma l'individuazione degli strumenti volti ad evitare il rischio noto. Diversamente, si finisce per affermare che solo l'evento con una qualche rilevanza statistica, impone al datore di lavoro di predisporre tutele per evitare il rischio, lasciando al di fuori degli obblighi di valutazione e prevenzione tutti i rischi che sebbene `non ignoti' si realizzino con tale infrequenza da essere ritenuti appunto `rari'. È necessario, invece, mutare prospettiva. I cardini sui quali il datore di lavoro deve fondare l'analisi e la previsione dei rischi sono in primo luogo, la `propria esperienza', in secondo luogo l'evoluzione della scienza tecnica ed infine la casistica verificabile nell'ambito della lavorazione considerata. Su questa base, la previsione e prevenzione del rischio deve `coprire' qualsiasi fattore di pericolo evidenziato nell'evoluzione della `scienza tecnica' e non solo dall'esperienza che l'imprenditore sviluppi su una certa attività o su uno specifico macchinario, che egli abbia potuto direttamente osservare. Non basta, cioè, a giustificare la mancata previsione del pericolo né che la sua realizzazione non si sia mai presentata nello svolgimento dell'attività concreta all'interno dell'impresa, né che esso non rientri nell'esperienza indiretta del datore di lavoro, per considerare `non noto' il rischio occorre che anche la scienza tecnica non abbia potuto osservare l'evento che lo realizza. Solo in questo caso viene meno l'obbligo previsionale del datore di lavoro, cui non può richiedersi di oltrepassare il limite del sapere tecnico-scientifico, con un pronostico individuale. La conclusione che deve trarsi da questa premessa è che l'evento `raro', in quanto `non ignoto', è sempre prevedibile e come tale deve essere previsto, in quanto rischio specifico e concretamente valutabile. L'evento raro, infatti, non è l'evento impossibile. Anzi, è un evento che, per definizione, prima o poi si verifica''.

    A dire del delegato per la sicurezza di una s.p.a., imputato per l'infortunio occorso a una dipendente nell'uso di un trapano, ``date l'insussistenza di precedenti infortuni sul lavoro a fronte delle innumerevoli lavorazioni svolte negli anni e l'esperienza della lavoratrice, il consulente tecnico di parte aveva definito `remoto' il rischio che l'evento si verificasse. Si trattava, dunque, di un rischio non prevedibile''. Di rimando, la Sez. IV osserva: ``Il modello di agente non coincide con colui che, assiomaticamente, percepisce come prevedibile un evento in base all'esperienza del passato ed è, dunque, ancorato a dati statistici; né con colui che si affida costantemente a dati di natura tecnica in grado di attribuire ad ogni attività un grado di maggiore o minore pericolosità. Non bisogna, infatti, confondere il giudizio di prevedibilità che fonda la colpa con quello relativo alla oggettiva probabilità o possibilità che un evento si produca in conseguenza di un determinato fattore causale, giacché il primo attiene alla valutazione della colpa in relazione al rischio che concretamente la regola cautelare tende ad evitare, il secondo attiene al nesso di causa. Nell'impresa era in atto una modalità operativa assolutamente contraria alle norme di comune prudenza, oltre che alle specifiche regole cautelari dettate a tutela dei lavoratori''.

    ``Il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi specifici presenti nell'azienda, anche quelli relativi alla pericolosità di singoli ambienti di lavoro, perché il singolo lavoratore può recarvisi in ogni momento e per qualunque motivo (si pensi, nel caso di specie, alla necessità di ripararsi da un temporale improvviso). E a maggior ragione deve valutare i rischi quando il singolo ambiente è oggetto dell'attività a cui un dipendente viene avviato. La valutazione del rischio deve essere preventiva allo svolgimento dell'attività lavorativa stessa. Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la valutazione dei rischi connessi alla sua azienda e alla sua attività proprio per scoprire e gestire eventuali pericoli occulti o non immediatamente percepibili, e non può aspettare di scoprire tali pericoli con l'infortunio di un dipendente. Il piano di valutazione dei rischi, infatti, deve essere eseguito da un tecnico specializzato con appositi sopralluoghi, e non facendo rilevare eventuali pericoli ad un dipendente inviato sul posto senza alcun avvertimento e senza alcuna preparazione, come avvenuto in questo caso. Ignorando le condizioni di agibilità del manufatto, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificarle di persona o tramite un tecnico appositamente nominato, prima di consentirne l'accesso ai dipendenti. Ovvero avrebbe dovuto impedire del tutto tale accesso, con apposita cartellonistica e chiusura di tutti i punti di ingresso; quindi, valutato il rischio connesso all'utilizzo di quel manufatto, avrebbe dovuto adottare i presidi di sicurezza più opportuni per evitare ai dipendenti inviati ad effettuare controlli o pulizie il rischio di scivolamento o altri rischi''.

    Infortunio mortale avvenuto in una fonderia a causa di ``un'esplosione con conseguente proiezione di ghisa liquida che investiva due dipendenti di un'impresa appaltatrice adibiti all'uso di una lancia ad ossigeno per rompere i tappi di scoria di ghisa''. un rischio risulta prevedibile e, quindi, da valutare nel relativo documento, in un caso come quello di specie in cui ``la prassi storica dell'azienda aveva già visto questo tipo di operazione e ne era già stata valutata la elevata pericolosità'', e, pertanto, in un caso in cui ``la situazione pericolosa, che aveva cagionato l'infortunio, era da attribuire ad elementi prevedibili, in quanto si collocava in un contesto ben conosciuto ed evidente'' e ``si poteva ricavare dalle analisi di comparto e dai dati storici riferiti ad infortuni pregressi''. Donde la conclusione che, ``accertata in concreto la prevedibilità del rischio, la mancata valutazione di esso nel relativo documento correttamente è stata considerata come concausa nella produzione dell'evento''.

    ``La valutazione dei rischi ha il compito di rilevare i rischi che possono essere individuati con la diligenza richiedibile al datore di lavoro e di individuare le misure, anche procedurali, idonee a fronteggiarli. Nel caso di specie, la valutazione, quindi, avrebbe avuto ad oggetto anche i rischi connessi agli interventi di manutenzione del macchinario, prevedendo le misure appropriate, certamente prescindenti dalla conoscenza del datore di lavoro dell'effettuazione di ciascun singolo intervento''.

    Il presidente e legale rappresentante di una cooperativa venne condannato per un infortunio mortale accaduto a un socio lavoratore adibito alla pulizia dell'argine di un torrente a mezzo di un trattore; ``il trattore procedeva sull'argine per le operazioni di disboscamento quando aveva dovuto affrontare un dislivello di circa 20 cm. che ne aveva provocato il sobbalzo, al termine del quale il trattore era finito su un conglomerato di cemento inserito nella scarpata, realizzando un movimento di scivolamento-ribaltamento. II conducente era stato quindi catapultato all'esterno del mezzo d'opera, riportando lesioni letali''. La colpa addebitata all'imputato fu quella ``di non aver effettuato la valutazione del rischio afferente la descritta lavorazione, di aver consentito l'utilizzo del trattore senza l'ausilio di un operatore a terra e nonostante esso non montasse né una gabbia di protezione del posto di guida né avesse in dotazione una cintura di sicurezza per il conducente, misure e dispositivi che qualora assunte o presenti avrebbero certamente evitato il verificarsi del decesso''. A sua discolpa, l'imputato sostiene che ``risultava assolutamente imprevedibile sia che il trattore potesse incappare nell'insidia sia che si trovasse a lavorare sul ciglio della scarpata''. La Sez. IV ribatte: ``La prevedibilità dell'evento è nelle caratteristiche intrinseche dell'area delle operazioni e nelle modalità con le quali queste dovevano essere svolte. Esse rendevano altamente probabile il rischio di uno scivolamento o di un ribaltamento lungo la scarpata, ad evitare il quale sarebbe stata necessaria la presenza di un secondo operatore; e per evitare che ai movimenti incontrollati del mezzo d'opera seguissero lesioni del conducente, il trattore avrebbe dovuto essere provvisto di gabbia di sicurezza e di cintura di sicurezza''.

    Si profila, altresì, il peso degli ``eventi sentinella'':

    La Sez. IV conferma la condanna del datore di lavoro e direttore generale e dell'RSPP di una s.r.l. per omicidio colposo ai danni di un operaio colpito al capo da un rifilo di alluminio fuoriuscito dal condotto di aspirazione di una macchina sezionatrice. Gli imputati ``invocano la completezza del documento di valutazione dei rischi - la cui redazione asseriscono affidata a società specializzata''. Ma la replica è che si tratta di un ``documento assolutamente carente per quanto riguarda il rischio specifico di fuoriuscita di rifili da lamelle orizzontali e verticali distanziate oltre il limite previsto dal manuale della macchina''. Invero, ``era già accaduto, non solo che i rifili di alluminio fossero entrati nel condotto di aspirazione, cosa anzi usuale, ma anche che fossero a volte fuoriusciti dal condotto medesimo, tanto che i fori in tal modo prodotti erano stati ricoperti dagli operai con del nastro isolante''. ``Gli imputati, benché consapevoli dei numerosi `eventi-sentinella', non avevano valutato, ciascuno in base alla posizione di garanzia ricoperta, tale specifico rischio della lavorazione e predisposto idonee misure di prevenzione, misure in realtà alquanto semplici poiché si risolvevano nella periodica ispezione dei listelli della macchina e nella sostituzione di quelli che consentivano un'apertura superiore ad 8 mm''.

    Per la valutazione di un rischio singolare:

    Il legale rappresentante di una s.r.l. disponente di due piazzali è condannato per omicidio colposo in danno di un autotrasportatore trovato morto in uno dei due piazzali adibito alla sosta degli autocarri con il corpo straziato e circondato da otto cani di taglia medio-grossa. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva che l'imputato, ``nella sua qualità, era responsabile della sicurezza per le persone presenti o in transito nell'area utilizzata dalla sua società, e, non curandosi della persistente e notoria presenza dei suddetti animali, costituenti notorio pericolo per chiunque si trovasse per qualsivoglia motivo nella suddetta area, ha certamente agito in modo quanto meno negligente ed ha altresì posto in essere una violazione degli obblighi datoriali, di portata generale, relativi alla prevenzione e alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro, di cui all'art. 15 D.Lgs. n. 81/2008, obblighi che il datore di lavoro ha nei confronti di tutti i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all'ambito imprenditoriale''. Aggiunge che, ``con tale violazione, riferita a un pericolo a lui noto (il cui concretizzarsi era perciò certamente prevedibile) e non adeguatamente fronteggiato, l'imputato ha creato le condizioni perché si verificasse l'aggressione ai danni del deceduto ad opera dei cani presenti in uno dei piazzali della ditta comunicante con quello ove avvenne il tragico episodio''.

    Peraltro, la Corte Suprema mette in guardia contro il ``senno del poi'':

    Datore di lavoro condannato in primo grado, ma prosciolto in appello per prescrizione con conferma delle statuizioni civili, dal reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente infortunatosi. Addebito: violazione dell'art. 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, poiché durante le operazioni di disarmo generale di uno scavo posto a mt. 3,50 dal piano di campagna veniva utilizzato un escavatore idraulico inadeguato per la movimentazione ed il sollevamento di materiali di risulta non imbracabili (pezzi di legno), con la conseguenza che il lavoratore veniva colpito alle gambe dal cucchiaio della benna dell'escavatore posizionato in superficie a causa dell'involontario urto da parte del conducente del joystick di comando della rotazione dell'asse dell'escavatore rispetto ai cingoli. La Sez. IV annulla con rinvio al giudice civile: ``I giudici del merito hanno individuato la colpa del datore di lavoro esclusivamente sulla base dell'evento verificatosi, mediante una tipica valutazione ex post, così sintetizzabile: posto che il lavoratore ha subito lesioni per essere stato colpito (per un errore dell'operatore) da un movimento laterale della benna dell'escavatore, il datore di lavoro avrebbe dovuto fornire ai propri operai un macchinario diverso, segnatamente una gru con cestello a movimentazione solo verticale, la quale certamente non avrebbe colpito la persona offesa. L'individuazione della regola cautelare violata, ai fini dell'individuazione della colpa (civile, nel caso, ma il discorso non cambia), non può prendere le mosse dall'evento verificatosi, per poi andare a ritroso, chiedendosi quali precauzioni avrebbero potuto impedirlo, così dandosi una risposta ovvia (nel caso, utilizzo di un apparecchio a movimentazione verticale). Un simile ragionamento, frutto della nota distorsione (bias) cognitiva del `senno di poi' (hindsight bias), renderebbe colposo qualsiasi `comportamento umano causativo di danno, poiché è (quasi) sempre possibile, dopo l'evento, ipotizzare un comportamento alternativo corretto e idoneo ad impedirlo. Invece, la regola cautelare che si assume violata deve essere preesistente al fatto, nel senso che il comportamento doveroso basato sulla diligenza, prudenza e perizia deve essere desunto in concreto ed `ex ante', giammai `ex post'. Il giudizio sulla colpa da fatto illecito (civilistico o penalistico) non deve essere condizionato da ciò che è successo, ma deve essere formulato sulla scorta di una attenta analisi della situazione antecedente il verificarsi dell'evento, tenendo anche conto delle informazioni conosciute (o conoscibili) dal soggetto (presunto responsabile) al momento della sua decisione di assumere la condotta (commissiva o omissiva) causativa del danno'. La sentenza impugnata non ha individuato disposizioni che imponessero, ex ante, di dotare i lavoratori di un diverso macchinario per la movimentazione dei pezzi di risulta dallo scavo, avendole desunte solo a seguito di una inaccettabile elaborazione `creativa', frutto di una valutazione ex post. Per contro, in tema di colpa generica (ed anche ai fini della responsabilità civile), la regola cautelare applicabile al caso concreto deve essere preesistente al fatto e desumibile sulla base di un processo ricognitivo, che tenga conto dei tratti tipici caratterizzanti l'evento e del sapere scientifico, tecnico o esperienziale esistente in quel dato momento storico. Si tratta, in altri termini, di individuare una regola cautelare astratta, valida per tutta la categoria di eventi che attengono al caso attenzionato e non solo per il singolo evento concreto''.

    Intento a trasportare a bordo di un ciclomotore pizze a domicilio, il dipendente di una società cooperativa subisce un incidente mortale, in quanto urta con la pedana poggiapiedi il perimetro laterale di un'isola rialzata spartitraffico. Prosciolto in primo grado dal reato di omicidio colposo, l'amministratore unico della società cooperativa datrice di lavoro viene condannato in appello quale datore di lavoro ``titolare di posizione di garanzia ex art. 2087 c.c.'', con l'addebito di ``avere consentito al lavoratore di utilizzare un casco di tipo jet, uso causalmente connesso con l'evento per le sue caratteristiche, trattandosi di un dispositivo che lascia scoperta la parte frontale del volto, proprio quella colpita al momento dell'impatto con il suolo''. Ad avviso della Corte d'appello, ``se il rider avesse indossato un casco integrale, l'evento morte non si sarebbe verificato o comunque le lesioni sarebbero state di minore entità; con la conseguenza che l'evento sarebbe stato concretamente prevedibile ed evitabile se, in base ad una valutazione ex ante, si fosse osservata una regola cautelare di massima prudenza, consistente nel pretendere dal lavoratore l'impiego di un casco integrale, anche tenuto conto della pericolosità dell'attività svolta (condurre un ciclomotore nel traffico cittadino)''. La Sez. IV annulla la condanna senza rinvio perché il fatto non sussiste. Rimprovera ai magistrati di appello ``una tipica logica del `senno del poi''', così sintetizzabile: ``posto che il lavoratore è morto (cadendo dallo scooter sul quale stava trasportando pizze da consegnare a domicilio) per avere battuto la parte frontale del volto (c.d. massiccio frontale) contro il bordo in cemento di una pedana spartitraffico, l'evento mortale non si sarebbe verificato se la persona offesa avesse indossato un casco di tipo integrale, idoneo a proteggere il volto, e non un casco tipo jet (benché omologato), che invece lascia scoperta quella zona del corpo; ergo, il datore di lavoro avrebbe dovuto dotare la persona offesa di un casco di tipo integrale, non consentendogli invece di condurre lo scooter con un casco tipo jet''. Sostiene che ``non esiste alcun obbligo di legge che imponga l'uso del casco integrale al lavoratore che si ponga alla guida di un ciclomotore, bastando allo scopo secondo le previsioni del vigente codice della strada indossare un qualsiasi tipo di casco omologato, come quello utilizzato dal soggetto deceduto''. Afferma che i magistrati di appello ``hanno sostanzialmente eluso la questione, ravvisando una colpa generica `aggiuntiva' dell'imputato, muovendo dalla considerazione che l'evento sarebbe stato concretamente prevedibile ed evitabile, se si fosse osservata una regola cautelare di massima prudenza, ovvero si fosse preteso dal lavoratore l'uso di mezzi che assicurassero massima sicurezza, rispetto al tipo di attività lavorativa da svolgere'', e che, ``se la vittima avesse utilizzato il casco integrale, l'evento morte derivante dall'impatto con il cordolo dell'isola spartitraffico non si sarebbe verificato, o comunque le lesioni sarebbero state di minore entità, in virtù della migliore protezione assicurata al lavoratore''. Afferma che ``in tal modo, gli stessi giudici hanno ricavato la regola cautelare (che si ipotizza) violata sulla base di una valutazione ex post, partendo cioè dall'evento verificatosi, per poi chiedersi quali precauzioni avrebbero potuto impedirlo, dandosi in tal modo una risposta ovvia (uso del casco integrale che avrebbe protetto il volto)''. Aggiunge che ``la regola cautelare che si assume violata deve essere preesistente al fatto, nel senso che il comportamento doveroso basato sulla diligenza, prudenza e perizia deve essere desunto in concreto ed `ex ante', giammai `ex post'. Sottolinea che ``la sentenza impugnata non ha individuato disposizioni che imponessero, ex ante, di dotare il lavoratore di un casco integrale ed ha ancorato la regola di diligenza non positivizzata alla affermazione secondo cui `la protezione integrale del capo costituisce presupposto indefettibile per limitare o escludere rischi per la salute del conducente, derivanti dalle cadute o comunque dagli urti subiti'''. Ritiene che si tratti di un'affermazione ``il cui fondamento non è stato in alcun modo giustificato, come pure necessario, non solo perché, in generale, anche la colpa generica presuppone l'esistenza di un sapere scientifico, tecnico o esperienziale pre-dato giacché non è il giudice a creare la regola - ma anche perché la prescrizione del codice della strada indica l'esatto contrario''. Nota ancora come ``l'uso del casco per la conduzione dei veicoli a due ruote sia comunque regolato dal codice stradale, secondo norme che impongono obblighi specifici, aventi anche natura cautelare, fra cui, appunto, quella che impone l'uso di un casco omologato, non necessariamente di tipo integrale'', sicché ``il casco di tipo jet utilizzato dalla vittima nell'occorso era perfettamente in regola con la vigente normativa stradale''.

    Un lavoratore addetto al tornio per la riduzione di un tondino di alluminio di 20 centimetri, ``al fine di prelevare il pezzo dopo la tornitura, aveva infilato la mano destra, indossante un guanto, nella zona di lavoro della macchina quando ancora gli organi erano in movimento''. In particolare, al fine di arrestare la macchina, ``aveva azionato la leva di frizione anziché il freno a pedale, con la conseguenza che la rotazione non si era immediatamente interrotta ma aveva continuato per inerzia ancora per qualche secondo, sicché egli aveva toccato il mandrino con la mano, ed il guanto rimasto impigliato aveva trascinato la mano a contrasto con la torretta''. Condannati il datore di lavoro per ``non aver individuato il rischio connesso al pericolo derivante dal possibile contatto accidentale delle parti del corpo esposte del lavoratore con le parti in movimento del tornio, ed in particolare non aver munito il macchinario di uno schermo frontale di protezione''; il ``responsabile della sicurezza'', per ``aver sottovalutato il rischio derivante dall'utilizzo del tornio in assenza di protezione frontale''; il legale rappresentante della ditta produttrice del tornio, per ``aver venduto un macchinario sprovvisto di apposita protezione dagli organi in movimento''. La Sez. IV annulla con rinvio le condanne. Prende atto che, ad avviso dei giudici di merito, ``se il tornio fosse stato dotato di uno schermo protettivo nella zona di lavoro, questo avrebbe preservato il lavoratore dal contatto con le parti in movimento della macchina''. Afferma che ``la ritenuta necessità di uno schermo `protettivo' sul macchinario in questione appare frutto di un ragionamento creativo, secondo la logica del `senno del poi' che, come noto, non può fondare il giudizio di colpevolezza colposa''. Spiega che, ``in tale ambito, il riscontro della colpa deve essere il risultato di un processo ricognitivo che individui a monte, secondo una valutazione ex ante, la regola cautelare che si assume violata'', e che ``la sentenza impugnata, di contro, ha individuato la regola cautelare sulla base di una valutazione ricavata `ex post' ad evento avvenuto, in maniera del tutto astratta e svincolata dal caso concreto'', poiché ``non ha considerato la fase di lavorazione in cui si è verificato l'incidente e non si è posta il problema di quali fossero le misure di protezione previste per quella specifica fase''. Sottolinea ``la circostanza che il tornio era dotato di un apposito dispositivo di protezione, in relazione alla fase lavorativa nel corso della quale è avvenuto l'infortunio, costituito dal pedale del freno'', e che, ``azionandolo, il mandrino si sarebbe fermato, consentendo all'operaio di prelevare il pezzo senza problemi''. Afferma che ``la regola cautelare dello schermo `protettivo' è stata ricavata ex post ed in maniera congetturale dai giudici di merito, senza una effettiva analisi dell'utilità e percorribilità in concreto di una simile soluzione alla luce delle modalità di funzionamento del macchinario e, soprattutto, della fase di lavorazione in cui si è verificato l'infortunio''.

    Il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi potenzialmente presenti, e non soltanto i rischi che residuano malgrado gli interventi preventivi. Significativa è:

    ``La valutazione dei rischi attiene ai rischi insiti nelle attività; non ai rischi che permangono nonostante la loro valutazione e l'adozione delle connesse misure''.

    Da leggere, a titolo di esempio, sono:

    Entrato in una vasca contenente trielina, un lavoratore dipendente fu mortalmente investito da vapori della trielina. Per omicidio colposo, furono condannati il presidente del consiglio di amministrazione e l'amministratore delegato della società con ``l'addebito di non aver formato ed informato il lavoratore e di non aver predisposto le misure tecniche ed i dispositivi di protezione per governare i rischi connessi all'uso del solvente in questione''. A loro discolpa, gli imputati sostengono che ``l'apparato era fermo da molti anni e la trielina esistente non era comunque sufficiente per il suo funzionamento''. Nel respingere questa argomentazione difensiva, la Sez. IV afferma che ``il datore di lavoro è chiamato alla valutazione ed al governo dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro'' e che ``il rischio è già connesso alla sola presenza in azienda di sostanze letali o nocive''. Prende atto che, ``nel caso di specie, mancava un programma di sicurezza; che il rischio trielina non era stato eliminato e che la vasca in cui la sostanza si trovava non era stata messa in sicurezza; che non era segnalata la presenza della sostanza medesima; che non era stata fornita alcuna formazione ed informazione ai lavoratori''. E insegna che ``tali violazioni rilevano pure nel caso in cui l'impianto fosse in disuso, posto che l'area era frequentata dai lavoratori e che erano presenti 200 litri della sostanza'': ``il rischio esisteva e non era in alcun modo governato''; ``ciò che radica la responsabilità è che nell'impianto vi era una vasca contenente una sostanza idonea a produrre vapori altamente tossici, e che il rischio connesso non era per nulla governato''.

    Condannati per non aver ``valutato adeguatamente il rischio amianto nel documento di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza del lavoro'', i titolari di un'azienda rilevano che ``all'interno dell'azienda l'amianto era stato rinvenuto in due luoghi ed in entrambi i casi i titolari avevano provveduto diligentemente all'isolamento dello stesso attraverso procedure corrette, oggetto di specifica approvazione da parte degli organi preposti al controllo'', e che, ``pertanto, la mancanza di indicazioni nel documento di valutazione dei rischi, è connessa al fatto che non c'era rischio amianto''. La Sez. III replica che, ``nell'azienda di produzione di fuochi di artificio, erano stati effettuati in precedenza interventi di bonifica del materiale contenente amianto rinvenuto nel corso di precedenti controlli e che, a seguito del sopralluogo svolto a seguito di uno scoppio verificatosi nella fabbrica, era stato accertato che nel documento di valutazione dei rischi non era contemplato il rischio amianto, rischio che, dopo l'attività di bonifica, doveva comunque essere considerato, in quanto in presenza di amianto deve essere adottato un programma di manutenzione e controllo periodico delle operazioni di bonifica ed isolamento già fatte''.

    Quali misure di prevenzione e di protezione debbono essere indicate nel DVR? Utile è il distinguo tra misure tipiche (o niminate) e misure atipiche (o innominate) tracciato dalla Cassazione, Sez. Lav. pur ai fini della ripartizione dell'onere probatorio:

    ``Diversamente si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza asseritamente omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs. n. 81/2008 e successive integrazioni e modificazioni come dal precedente D.Lgs. n. 626/1994 e prima ancora dal precedente n. 547/1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso riferibile alle misure di sicurezza cosiddette `nominate' - il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza delta misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno. Nel secondo caso - in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette `innominate' la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli `standards' di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe''.

    A sua volta, la Cassazione penale ha evocato il distinguo tra regole rigide e regole elastiche, tra regole proprie e regole improprie, tra regole specifiche e regole generiche:

    ``Il contenuto dell'obbligo impeditivo viene, di volta in volta, calibrato sulla regola `elastica' che impone al datore di lavoro il generale e generico dovere di tutelare l'integrità fisica del lavoratore (art.2087 c.c.) o sulle specifiche regole cautelari dettate da leggi speciali, che non sempre definiscono in maniera `rigida' la condotta doverosa''.

    ``Tra le regole cautelari si danno diverse tipologie; un rapido censimento porta a distinguere le regole rigide da quelle elastiche; quelle proprie da quelle improprie; quelle specifiche da quelle generiche e ancora altre. Nel caso che occupa preme rilevare che quanto più la regola cautelare non pretende l'adozione di una misura oggettiva di protezione (ovvero l'adozione di misure quali la dotazione di DPI, di attrezzature idonee, di macchine di abbattimento polveri ecc.) ma misure di carattere organizzativo o procedurale, tanto più va compiutamente descritta la cautela doverosa e precisamente accertata la efficienza causale della sua omissione''.

    Una precisazione è svolta da:

    ``Il principale dovere del datore di lavoro è quello di valutare tutti i rischi connessi al processo produttivo, e tra questi anche quello intrinseco all'organizzazione della produzione. Il dovere di organizzare in funzione della prevenzione trova la sua espressione più acuta nella valutazione dei rischi, ma non si esaurisce in essa; come risulta con ogni evidenza sia dall'art. 15 D.Lgs. n. 81/2008, che non riconduce le diverse misure generali da adottare alla valutazione dei rischi pretendendone così la costante adozione, che dall'art. 18. Più in radice, è il potere dispositivo che, correlativamente al suo farsi azione, impegna contestualmente il datore di lavoro a decidere anche per le misure prevenzionistiche necessarie''.

    ``In generale, quando si parla di cautele da approntare per fronteggiare un rischio, si fa riferimento ad un obbligo giuridico e non solo meramente morale o sociale. Peraltro, tale obbligo giuridico non sempre trova la sua fonte diretta in un assetto normativo. Il presente dell'esperienza giuridica mostra contesti di rischio oggetto di una articolata disciplina di settore: la sicurezza del lavoro e la circolazione stradale ne costituiscono gli esempi più noti. Si tratta di corpi normativi che dettano regole plurime, spesso dettagliate. Tali normative hanno importante rilievo, contribuendo significativamente a conferire determinatezza all'illecito colposo ed a concretizzare quindi, nello specifico contesto, il principio di legalità. Esse, tuttavia, non possono certamente esaurire ed attualizzare tutte le possibili prescrizioni atte a governare compiutamente rischi indicibilmente vari e complessi. L'inadeguatezza deriva da un lato dalla varietà delle situazioni di dettaglio, che non consente di pensare ad una normazione direttamente esaustiva; e dall'altro dal continuo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie, che rende sovente inattuali le prescrizioni codificate. Per questo la normativa cautelare ha bisogno di essere integrata dal sapere scientifico e tecnologico che reca il vero nucleo attualizzato della disciplina prevenzionistica. Per tale ragione il sistema, prevede che ciascun garante analizzi i rischi specifici connessi alla propria attività; ed adotti le conseguenti, appropriate misure cautelari, avvalendosi proprio di figure istituzionali, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che del sapere necessario sono istituzionalmente portatori. Correttamente si è parlato al riguardo di auto-normazione: espressione che ben esprime la necessità di un continuo auto-adeguamento delle misure di sicurezza alle condizioni delle lavorazioni. L'obbligo giuridico nascente dalla attualizzata considerazione dell'accreditato sapere scientifico e tecnologico è talmente pregnante che è sicuramente destinato a prevalere su quello eventualmente derivante da disciplina legale incompleta o non aggiornata. Occorre partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere etero-integrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica, contrariamente a quanto si potrebbe a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività. La fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, è per la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Tuttavia, è illusorio pensare che ogni contesto rischioso possa trovare il suo compiuto governo in regole precostituite e ben fondate, aggiornate, appaganti rispetto alle esigenze di tutela. In tali situazioni si rivela il pericolo che il giudice prima definisca le prescrizioni o l'area di rischio consentito e poi ne riscontri la possibile violazione, con una innaturale sovrapposizione di ruoli che non è sufficientemente controbilanciata dalla terzietà. Se ci si chiede dove il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili. Traspare, così, quale interessante rilievo abbia il sapere extra-giuridico sia come fonte delle cautele, al fine di conferire determinatezza alla fattispecie colposa, sia come guida per l'appezzamento demandato al giudice''.

    L'amministratore delegato, il direttore di stabilimento e l'RSPP di una s.r.l. esercente uno stabilimento industriale sono imputati di omicidio colposo in danno di un dipendente infortunatosi durante le operazioni di ingrassaggio delle parti interne della vasca di mescolamento di un impianto di betonaggio, senza che, in particolare, ``fosse stato redatto un DVR che individuasse i fattori di rischio connessi alle dette operazioni, necessarie prima dell'inizio di ogni ciclo di produzione di calcestruzzo e che comportavano l'ingresso di un lavoratore in zona ad alto rischio''. A sua discolpa, il datore di lavoro sostiene che gli ``erano attribuite funzioni di natura commerciale e di stretta amministrazione, svolte in una sede diversa da quella in cui avveniva la produzione, e proprio per tale ragione egli era coadiuvato da una organizzazione aziendale che faceva capo al direttore di stabilimento e a un preposto, cui erano attribuite specifiche mansioni di manutenzione dei macchinari e produzione, entrambi ritenuti responsabili dell'illecito in contestazione''. A sua volta, l'RSPP eccepisce che, ``per evitare la realizzazione di eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. Il documento di valutazione del rischio indicava, nell'integrativo manuale della `Qualità', l'esistenza di schede - denominate `di ispezione settimanale' e `ispezione visiva giornaliera', affisse sopra la consolle dei comandi della mescolatrice, aventi la precisa funzione di realizzare un controllo dei sistemi antinfortunistici e di segnalare malfunzionamenti in genere'', e che, ``nel caso in esame nulla era stato segnalato dal preposto nella scheda di ispezione settimanale e nemmeno in quelle visive giornaliere''. Sostiene che ``la compilazione di tali schede, facenti parte del sistema integrato qualità/sicurezza della società, avrebbe certamente impedito, al di là di ogni ragionevole dubbio, l'evento mortale, atteso che, in presenza di un sistema con sicurezze totalmente disabilitate, solo una previa verifica circa il suo corretto funzionamento avrebbe evitato l'evento morte ed interrotto dunque il nesso causale''. La Sez. IV non accoglie queste argomentazioni difensive. Prende atto della ``situazione di estremo pericolo in cui si trovava a lavorare l'infortunato, il quale quotidianamente provvedeva alle operazioni di pulizia entrando all'interno delta macchina, sprovvista di un qualunque dispositivo di sicurezza idoneo ad evitare la messa in funzione dell'impianto in caso di coperchio aperto della vasca ed il contatto anche accidentale tra le parti rotanti e la persona addetta alla pulizia manuale, cui non era vietato compiere tale operazione entrando all'interno della vasca medesima''. Osserva che ``il DVR era sul punto macroscopicamente carente, in quanto non conteneva alcuna valutazione dei rischi inerenti la specifica attività di lubrificazione ed ingrassamento degli organi mobili, che potevano costituire un pericolo per il lavoratore, non indicava le procedure per effettuare in sicurezza tale attività, in particolare dall'esterno e previo distacco della rete elettrica per evitare l'avviamento delle pale rotanti, e neppure prevedeva un controllo periodico del macchinario, circostanza dimostrata dal fatto che in occasione dell'evento mortale che ci occupa venne constatata l'assenza, da tempo imprecisato, del dispositivo di blocco (la bobina di sicurezza che era stata tolta in vista della sua successiva sostituzione)''. Afferma che ``la collaborazione prestata dall'RSPP non esimeva il datore di lavoro dal sottoporre il documento redatto dal professionista ad una approfondita analisi critica e verifica circa la concreta individuazione e indicazione della evidenziata situazione di palese rischio e delle misure precauzionali atte a fronteggiarlo'', e che, ``a fronte di un DVR così inidoneo a consentire in sicurezza il lavoro cui era addetto l'infortunato, non ha svolto alcun doveroso controllo sul contenuto del documento, imponendone al professionista incaricato le necessarie integrazioni''. Quanto al richiamo alle schede di qualità compilate dal preposto'', la Sez. IV rileva che ``queste avevano una diversa finalità, essendo volte a controllare la bontà del prodotto da consegnare all'acquirente all'esito della lavorazione, ma non attenevano ai sistemi di sicurezza dell'impianto né al loro periodico controllo''. Sottolinea che ``il richiamo all'auspicio di una integrazione tra sistema di sicurezza e sistema di qualità, di cui alla norma ISO 9001, non può portare certo all'accoglimento della tesi difensiva, dovendosi escludere che la detta raccomandazione possa superare il contenuto del DVR normativamente previsto dal D.Lgs. n.81/2008 e supplire alle carenze oggettive del caso di specie''. Aggiunge che ``anche il controllo di qualità del materiale necessariamente presuppone la valutazione dei rischi connessi all'uso del macchinario di produzione'', e che ``il preposto addetto al controllo di qualità sarebbe stato sollecitato ad estendere il proprio controllo anche sulla sicurezza dell'impianto, solo se tale ulteriore e precisa verifica fosse stata prevista, quanto alle modalità, nel DVR''.

    Da leggere anche:

    A dire del delegato per la sicurezza di una s.p.a., imputato per l'infortunio occorso a una dipendente nell'uso di un trapano, ``la valutazione dei rischi che il datore di lavoro è tenuto a fare a norma dell'art. 28 D.Lgs. 9 aprile 2008, n.81 passa attraverso alcuni metodi di calcolo che, nel caso concreto, in base alla norma tecnica ISO/TR 1412-2, hanno consentito al consulente tecnico di qualificare come `trascurabile' il rischio che si verificasse l'infortunio in esame, escludendo in base a tale risultato sia la necessità di ulteriori misure preventive sia l'esistenza di alternative tecnologiche utilmente percorribili per evitare l'evento. Il non aver tenuto conto di tale norma tecnica, si assume, rappresenta la violazione di una norma integrativa del precetto penale''. Replica la Sez. IV: ``Il dato tecnico la cui applicazione, secondo l'imputato, è stata trascurata è stato ritenuto, con motivazione congrua, irrilevante in quanto inidoneo a dimostrare l'insussistenza del rischio e, parallelamente, l'insussistenza dell'obbligo per il datore di lavoro di adottare misure idonee ad eliminarlo o a ridurlo al minimo. Nel caso concreto, non era stata dimostrata l'insussistenza della specifica perniciosità dell'attrezzo, né il dato tecnico asseritamente trascurato avrebbe condotto a tale esito''.

    (Per il riferimento alla certificazione ISO 9001.2008 v. Cass. 9 ottobre 2018 n. 45332).

    Mal farebbero datori di lavoro, dirigenti o delegati se pensassero di andare esenti da responsabilità penale per il solo fatto che determinate misure di prevenzione pur doverose non fossero previste nel documento di valutazione dei rischi:

    ``La valutazione dei rischi ed il relativo documento costituiscono efficaci strumenti al servizio della sicurezza, consentendo la messa a fuoco delle situazioni pericolose e, conseguentemente, l'adozione delle adeguate misure di sicurezza. Le omissioni o carenze del documento non fanno, tuttavia, venire meno gli ulteriori obblighi datoriali previsti dalla legge''.

    ``L'art. 18, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che impone di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 28 dello stesso decreto''.

    ``Le valutazioni e prescrizioni contenute nel DVR non limitano per nulla la responsabilità dei garanti che, nella maggior parte dei casi, trovano loro fondamento prescrittivo nell'articolata disciplina di settore. Le omissioni o carenze del documento non possono per ciò solo far venire meno gli ulteriori obblighi datoriali previsti dalla legge. La constatazione del rischio impone comunque ai garanti medesimi, nell'ambito delle loro rispettive competenze, di adottare le misure appropriate che riguardavano nel caso di specie la spiegazione dei rischi e l'adozione di procedure adeguate. Tali apprestamenti sono mancati: il rischio era noto, ma era governato con prassi inappropriata''.

    ``I lavori edili rientrano tra le attività che generalmente comportano la necessità di proteggere il capo e per le quali, quindi, è necessario l'elmetto protettivo, a prescindere dal fatto che il suo utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008''.

    La Sez. IV sottolinea ``la carente ed inadeguata valutazione dei rischi connessi ai lavori in quota, da cui è derivata l'assenza di istruzioni precise e l'uso del mezzo improprio e poco sicuro della scala per un lavoro in cui era richiesto l'utilizzo di entrambe le mani, in luogo del trabattello o della piattaforma aerea, unitamente all'assenza di formazione specifica dei lavoratori (ivi compresi i preposti alla vigilanza)''.

    ``Le riscontrate carenze del DVR avevano trovato spiegazione nel fatto che all'assunzione diretta dell'infortunata per svolgere, all'interno dell'azienda, le medesime mansioni generalmente svolte dal personale di altre imprese, non avevano fatto seguito né l'aggiornamento e l'integrazione del DVR con la previsione degli specifici rischi insiti nelle operazioni di pulizia, né la formazione specifica della lavoratrice in ordine ai rischi connessi alle modalità e alle tecniche delle medesime''.

    ``L'adeguata previsione della procedura per la pulizia della macchina depilatrice di suini e le conseguenti, correlative, misure di prevenzione, prima fra tutte il divieto di salire sulla rulliera per pulire il macchinario, avrebbero reso edotta la lavoratrice dei rischi insiti in tale modalità operativa, a suo dire abitualmente posta in essere nello svolgimento delle proprie mansioni, in considerazione della sua bassa statura, nella totale inconsapevolezza dei rischi connessi a tale inidonea condotta, rischi non valutati dal datore di lavoro e non oggetto di preventiva formazione ed informazione''.

    ``La effettuazione di una valutazione dei rischi del tutto inadeguata conduce logicamente ad escludere in radice la stessa configurabilità di un legittimo affidamento da parte del datore di lavoro, determinato dalla opera di assistenza all'infortunato svolta dal preposto''.

    ``Il DVR è uno strumento duttile, suscettibile di essere in ogni momento aggiornato per essere costantemente al passo con le esigenze di prevenzione che si ricavano dalia pratica giornaliera dell'attività lavorativa'', ed è, quindi, esclusa ``la possibilità di concepire un documento di valutazione dei rischi immodificabile''.

    ``La valutazione del rischio deve essere preventiva allo svolgimento dell'attività lavorativa stessa. Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la valutazione dei rischi connessi alla sua azienda e alla sua attività proprio per scoprire e gestire eventuali pericoli occulti o non immediatamente percepibili, e non può aspettare di scoprire tali pericoli con l'infortunio di un dipendente. Ignorando le condizioni di agibilità del manufatto, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificarle di persona o tramite un tecnico appositamente nominato, prima di consentirne l'accesso ai dipendenti. Ovvero avrebbe dovuto impedire del tutto tale accesso, con apposita cartellonistica e chiusura di tutti i punti di ingresso; quindi, valutato il rischio connesso all'utilizzo di quel manufatto, avrebbe dovuto adottare i presidi di sicurezza più opportuni per evitare ai dipendenti inviati ad effettuare controlli o pulizie il rischio di scivolamento o altri rischi''.

    ``In capo all'imputato gravava l'obbligo di valutare in via preventiva tutti i rischi correlati alle lavorazioni all'interno del cantiere, con particolare riferimento ai rischi correlati al posizionamento della gru all'interno del bacino galleggiante, adottando tutte le opportune soluzioni affinché l'area di azione della stessa non interferisse con i luoghi di lavoro e con le relative vie d'accesso. Allo stesso imputato, inoltre, spettava l'assolvimento dell'obbligo preventivo di adottare adeguate misure tecniche volte ad assicurare l'utilizzo della gru esclusivamente da parte di personale qualificato''.

    ``Si tratta del percorso seguito dal giudice di primo grado, non condiviso dalla corte d'appello, sulla base di argomentazioni che risultano, non solo non manifestamente illogiche ma anche rispettose del nuovo sistema prevenzionistico di matrice europea sopra delineato, sia con riferimento alla prospettiva di valutazione anticipata dei rischi, sia con riferimento alle misure di prevenzione, ulteriori rispetto a quelle specifiche di ciascuna lavorazione, da adottare nel caso di svolgimento contemporaneo di più attività''.

    ``Quanto alla prescrizione di cui alla lett. d) dell'art. 28, D.Lgs. n. 81/2008, deve osservarsi che l'espressione descrive ipotesi complesse nelle quali è utile non solo prevedere le misure prevenzionali, ma anche il percorso attuativo, coinvolgente ruoli, funzioni e competenze diverse, oltre che, se del caso, ambiti e settori diversi (da qui la seconda parte della prescrizione di cui alla predetta lett. d), attraverso il quale giungere al risultato cautelare. Così da attingere ai migliori apporti per esperienza, competenza e responsabilità, correggere disfunzioni e inadeguatezze, permettendo, inoltre, d'individuare ed isolare le singole responsabilità. In definitiva, la nuova normativa, fermo restando l'obbligo di prevenzione e protezione, previa individuazione delle specifiche ipotesi (se del caso mediante l'apporto di figure professionali ad hoc), impone di formalizzare le procedure necessarie, ove l'approntamento degli strumenti cautelari imponga il coinvolgimento plurisoggettivo e plurisettoriale di cui s'è detto''.

    ``Fermo restando il principio in base al quale non è configurabile nel processo penale un onere probatorio a carico dell'imputato, nondimeno la mera deduzione difensiva in base alla quale il documento esaminato dal teste operante (ispettore ASL) sarebbe stato diverso da quello in vigore al momento del fatto non soddisfa neppure i requisiti dell'onere di allegazione che sicuramente la difesa aveva sul punto, in virtù del quale l'imputato è tenuto a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore. Tale deduzione è rimasta invece sprovvista di riscontro, non potendo la stessa essere riscontrata se non attraverso la produzione del documento stesso da parte della difesa, atteso che il D.V.R. è obbligatoriamente custodito in azienda''.

    ``È priva di rilievo la circostanza che il DVR fosse scaduto: esso doveva essere ritenuto vigente in quanto non sostituito da altro successivo e, in ogni caso, il datore di lavoro è responsabile per il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento''.

    ``Quanto al documento di valutazione rischi, è messa in risalto la sua non corrispondenza al vero. Lo stesso, infatti, fa riferimento a protezioni fisse interbloccate inesistenti al momento dell'infortunio a un nastro trasportatore. Solo successivamente, su disposizione dell'organo di vigilanza, si è provveduto ad installare una barriera costituita da recenti alto due metri a maglia fitta con accesso chiuso da un lucchetto la cui chiave è ubicata presso il pannello di comando ed è fruibile da una sola persona''.

    ``Alla redazione del DVR non sfuggono neppure le aziende che occupano fino a dieci addetti, in quanto le modalità semplificate di adempimento degli obblighi in materia di valutazione dei rischi, non esonerano il datore di lavoro dall'obbligo di predisporre e tenere il predetto documento'' (conforme, sul punto, Cass. 15 giugno 2011, in ISL, 7, 412).

    ``Il documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, previsto dall'art. 28, D.Lgs. n. 81/2008, è applicabile a tutte le tipologie di rischio e a tutti i settori pubblici o privati, ivi comprese le attività di ristorazione'', e ``tale principio trova il suo fondamento nell'ampia formulazione dell'art. 3 del D.Lgs. n. 81/2008, secondo cui, appunto, `il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio'''.

    ``La valutazione riguarda solo `tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori'. Dunque non è possibile inferire dal sistema prevenzionistico delineato dal Testo unico indicazioni direttamente cogenti per ciò che attiene all'obbligo di governare altri rischi presenti nell'organizzazione''.

    L'Interpello n. 11 del 25 ottobre 2016 afferma che il datore di lavoro deve valutare anche i rischi legati alla situazione geopolitica e alle condizioni sanitarie del Paese: valutare i rischi e, si badi, individuare e adottare idonee misure di prevenzione e protezione contro tali rischi. Una soluzione, questa, che non sorprende: l'art. 28, comma 2, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 usa l'espressione ``tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa''. Una parola, ``durante'', che fa intendere che debbono essere valutati tutti i rischi che si profilano, non necessariamente a causa dell'attività lavorativa, bensì durante l'attività lavorativa: come appunto, ad es., guerre civili, attentati, terrorismo, ovvero particolari condizioni sanitarie. Nessuna meraviglia allora se in giurisprudenza troviamo la condanna di un'impresa italiana per le lesioni subite da un dipendente a causa di un attentato terroristico in Algeria, e la condanna di due imprese italiane - l'una subappaltante, l'altra subappaltatrice - per le lesioni occorse a due dipendenti della subappaltatrice a seguito di un rapimento in Etiopia.

    Tra i rischi prevedibili da valutare nel relativo documento, fanno spicco il rischio alcool (v. in proposito Cass. 9 agosto 2022 n. 30814, retro, paragrafo 1) e il rischio droga. Di grande rilievo è:

    Un lavoratore stagionale alle dipendenze di una cooperativa sociale cade in una vasca e muore per insufficienza respiratoria acuta determinata dalla permanenza in ambiente privo di ossigeno e ricco di CO2, anidride solforosa ed altri gas. Nel sangue della vittima fu trovato un tasso alcolemico compatibile con uno stato di ubriachezza patologica. Peraltro, il datore di lavoro venne condannato per omicidio colposo, per ``la mancata predisposizione di barriere atte a prevenire la caduta del lavoratore nel corso della lavorazione e il mancato controllo in ordine alle condizioni con cui venivano svolte le singole operazioni'', nonché per ``la mancata consegna di DPI quali scarpe antiscivolo, maschere e cinture di sicurezza''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV considera, per cominciare, ``prevedibile che il lavoratore possa trovarsi in via contingente in condizioni psico-fisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnatigli'', e ne ricava che una simile evenienza ``come tale non elide il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l'infortunio occorso''. A questo punto, sviluppa una analisi di grande rilievo con riguardo all'incidenza dello stato di ubriachezza del lavoratore. Sostiene che ``dal panorama dottrinario e giurisprudenziale non è possibile trarre indicazioni univoche e persuasive in ordine alle risposte da offrire al quesito se la valutazione dei rischi debba contemplare anche quelli connessi alle abitudini sociali e/o individuali del lavoratore e, in caso affermativo, se ciò valga oltre che per l'alcol dipendenza (che solo in taluni casi è oggetto di sorveglianza sanitaria) anche per la sola assunzione di sostanze alcoliche''. Prende atto che, nel caso di specie, ``non viene in gioco la violazione datoriale di una eventuale regola prevenzionistica che impone di eseguire controlli sul lavoratore onde assicurare che questi non sia presente al lavoro dopo aver assunto alcolici'', ma ``piuttosto la prevedibilità ed il carattere non eccezionale dello stato di alterazione psico-fisica del lavoratore per effetto dell'assunzione di sostanze alcoliche''. Richiama ``la già evocata tesi della riconducibilità al novero dei rischi oggetto di valutazione, ai sensi dell'art. 28, comma 1. D.Lgs. n. 81/2008, anche di quello connesso all'assunzione di alcolici da parte del lavoratore, e ciò in ragione della formula legale, volutamente onnicomprensiva (vale ricordare, al proposito, la modifica dell'art. 4, D.Lgs. n. 626/1994 determinata dalla condanna dell'Italia pronunciata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee del 15 novembre 2001, nella causa C-49/00)''. Dà conto ``della previsione dell'art. 15 della legge n. 125/2001, che vieta la somministrazione e l'assunzione sul lavoro di bevande alcoliche e superalcoliche, sia pure nelle sole attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l'incolumità o la salute dei terzi, individuate con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità'' (attività ora indicate nell'Allegato I dell'Intesa Stato Regioni del 16 marzo 2006). Ricorda che ``l'art. 41, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008 prevede la sorveglianza sanitaria diretta all'accertamento di condizioni di alcol-dipendenza (e di tossicodipendenza), e l'Allegato IV, al punto 1.11.3.2. e 1.11.3.3., prende in esame l'uso di alcolici sul lavoro''. Segnala che ``l'art. 18, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 [come in precedenza già l'art. 4, comma 5, lettera c), D.Lgs. n. 626/1994] dispone che il datore di lavoro ed il dirigente ``nell'affidare i compiti ai lavoratori'' deve ``tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza'', e osserva che ``si tratta di previsione che guarda in primo luogo alla assegnazione delle mansioni in via preventiva e generale, ma alla quale non sfugge anche la quotidiana replica del conferimento di compiti al lavoratore da parte del datore di lavoro'', con ``diverse ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi'', ma con il ``comune obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa''. Alla luce delle disposizioni or ora indicate, la Sez. IV conclude che ``la condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro, con l'ulteriore effetto della riconducibilità al medesimo dell'infortunio occorso, pur in presenza di uno stato di ebbrezza alcolica del lavoratore rimasto vittima del sinistro, essendo indiscutibile - nel caso che occupa - la mancata predisposizione di barriere protettive della botola che proteggessero il lavoratore dalla caduta all'interno della vasca''.

    Per l'infortunio occorso in una s.p.a. esercente una fonderia per caduta dall'alto, viene condannato il legale rappresentante datore di lavoro: ``Non era stato elaborato il DVR concernente l'attività di manutenzione straordinaria con particolare riferimento ai rischi di caduta dall'alto per la mansione di manutentore e alle procedure/istruzioni operative relative all'intervento di rifacimento della copertura della cabina del vibro vaglio, con conseguente carenza di individuazione dei dispositivi di protezione più idonei nel caso concreto''.

    ``Non era stata valutata né messa a punto nel documento di valutazione dei rischi una adeguata e rigorosa misura di sicurezza richiesta dalle particolari caratteristiche e dalla complessità del macchinario, finalizzata a garantire che durante le operazioni di manutenzione fosse bloccato l'interruttore generale di alimentazione elettrica, in modo tale da prevenire anche un eventuale errore umano nella gestione dei comandi (in particolare dell'azionamento della leva unipolare). Si tratta di compiti non delegabili di predisposizione del documento di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro''.

    Il presidente di un golf club fu imputato del reato di cui all'art. 590 c.p., per aver determinato le lesioni patite da una giocatrice, omettendo di manutenere adeguatamente le reti presenti a protezione del `campo approcci', di talché l'infortunata, che era in loco perché impegnata in una lezione di ripasso, veniva colpita all'occhio sinistro dalla pallina da golf che, lanciata da un giocatore dalla vicina buca, non veniva trattenuta dalle reti lacerate e forate poste tra il campo approcci e la menzionata buca. Il Tribunale di Torino non negò le violazioni prevenzionistiche individuate dall'organo dell'accusa (l'omessa valutazione dei rischi da errori di lancio per lavoratori ed utenti del campo da golf e l'omessa adozione delle misure di prevenzione contro tali rischi nonché il mancato mantenimento degli impianti in condizioni di sicurezza per gli utenti), però le considerò prive di efficienza causale rispetto all'evento, giacché questo era stato determinato non già dalla mancata predisposizione delle misure ma dalla loro mancata corretta manutenzione; non già dalle modalità di realizzazione dell'impianto ma dalla sua cattiva manutenzione. Di conseguenza, escluse che nella condotta colposa ascrivibile all'imputato fossero rinvenibili, oltre ad un profilo di colpa generica, anche profili di colpa specifica consistenti in violazioni di norme prevenzionistiche, e, pertanto, dichiarò non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere l'azione penale improcedibile per mancanza di querela. Nell'accogliere il ricorso proposto dal Pubblico Ministero, la Sez. IV annulla con rinvio la sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino: ``L'obbligo datoriale di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008) non può che ricomprendere anche il rischio derivante dall'utilizzo e dalla vetustà delle cose. il fatto che l'utilizzo degli apparecchi, dei macchinari, degli impianti, dei luoghi di lavoro, delle attrezzature di lavoro, dei DPI determini un progressivo scadimento degli originari livelli di sicurezza è da considerarsi non solo evenienza di comune conoscenza ma evento specificamente preso in considerazione dal legislatore prevenzionistico. L'art. 15, che indica le `misure generali di tutela', al comma 1, lettera z), menziona `la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti'; l'art. 64, nell'elencare gli obblighi del datore di lavoro rispetto ai luoghi di lavoro, recita che questi provvede affinché `c) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare manutenzione tecnica e vengano eliminati, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori' e che `e) gli impianti e i dispositivi di sicurezza, destinati alla prevenzione o all'eliminazione dei pericoli, vengano sottoposti a regolare manutenzione e al controllo del loro funzionamento; altre disposizioni prescrivono gli obblighi di manutenzione delle attrezzature di lavoro (artt. 71 e 72) e dei DPI (art. 77)'. Se nel dettare i contenuti della valutazione dei rischi l'art. 28 non utilizza il termine manutenzione, espressa menzione ne viene fatta diffusamente all'interno del `Codice della sicurezza', di talché la stessa valutazione dei rischi deve avere riguardo alle attività di manutenzione necessaria a preservare l'efficienza delle misure di prevenzione individuate. Anche sul piano testuale, il concetto di realizzazione (di `attuazione delle misure da realizzare' si legge appunto nell'art. 28) reca in sé tanto il concetto di attività `creatrice', ovvero che produce per la prima volta un determinato risultato, sia il concetto di attività di conservazione di quanto prodotto: la realizzazione è insomma anche l'attività permanente che consente il mantenimento nel tempo di quanto realizzato. In tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, tra le misure che la valutazione dei rischi deve prevedere, rientra anche l'attività di manutenzione necessaria a preservare nel tempo l'idoneità e l'efficienza delle misure di prevenzione individuate. L'omessa manutenzione delle reti poste a protezione dei lavoratori e degli utenti del campo da golf rispetto al rischio determinato dal lancio di palle da gioco nel corso dell'attività sportiva non contravviene ad una regola di generica prudenza e/o di diligenza, ma va ricondotta - come correttamente fatto dall'ufficio del PM - alla violazione degli artt. 17 e 28, D.Lgs. n. 81/2008. Ove la valutazione del rischio fosse stata compiuta, sarebbero state identificate le metodiche di rilevamento dei difetti delle reti e degli altri impianti, i turni di manutenzione, le misure da adottare in occasione delle riparazioni o delle sostituzioni delle reti e cosi seguitando. Il mancato compimento di tale fondamentale attività di analisi e progettazione ha determinato l'assenza o l'inefficienza della manutenzione, con l'esito rappresentato dall'infortunio occorso alla giocatrice''.

    Il datore di lavoro e il dirigente dei una ditta di trasporti, ``disponendo turni di lavoro massacranti di oltre dieci ore continuative anche notturne senza possibilità di riposo e tali da cagionare necessariamente cali di attenzione e concentrazione, facevano sì che il lavoratore conducente di una betoniera subisse durante l'attività di trasporto del calcestruzzo un colpo di sonno, con conseguente incidente stradale''.

    Un lavoratore ``alla guida di un transpallets stava effettuando operazioni di movimentazione merci, scaricando alcune casse da autotreni, quando muovendosi in retromarcia era andato a collidere con altro transpallets intento ad eseguire analoghe manovre''. Il lavoratore ``si era infortunato perché aveva proceduto a una manovra di retromarcia - nonostante questa fosse espressamente vietata - perché costrettovi dall'enorme quantità di merce stipata nel magazzino e dall'urgenza di sistemazione della stessa durante il turno di notte''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV rileva: ``Il datore di lavoro è stato ritenuto responsabile dell'infortunio occorso al dipendente essenzialmente perché ha omesso di operare un'adeguata valutazione del rischio derivante dalle particolari condizioni di lavoro, caratterizzate dall'intensità dei ritmi lavorativi''.

    ``Non è pensabile che una decisione strategica, quale quella di far lavorare i dipendenti un numero esorbitante di ore e di non concedere riposi, non sia riconducibile al datore di lavoro, certamente tenuto a conoscere e governare l'organizzazione del lavoro e dei turni dei dipendenti''.

    ``Il comportamento istintivo del lavoratore di cercare di contrastare con le mani la caduta del carico di circa una tonnellata è appunto istintivo e dunque ampiamente prevedibile, essendo frutto di una reazione che sfugge ai meccanismi di controllo razionale. Di condotte del genere occorre quindi tener conto nella previsione delle procedure di sicurezza del lavoro''.

    Per ipotesi di lavoro in solitudine v. - oltre a Cass. n. 26151 del 9 luglio 2021 (sub art. 42, al par. 2):

    Il dipendente di una società, ``durante il turno di lavoro notturno (22-6), mentre era intento alle operazioni di pulizia all'interno di un silo contenente grano in fase di svuotamento - realizzato mediante la progressiva fuoriuscita del grano stesso per gravità a mezzo di una tramoggia posizionata sul fondo del silo - ad un certo punto era venutosi a trovarsi disteso sulla superficie granaria sulla quale si muoveva, e, non percependo il progressivo assorbimento del suo corpo all'interno della massa di grano, era rimasto poi completamento coperto dal grano decedendo per asfissia causata dall'ostruzione delle vie respiratorie intasate dal grano''. Nel condannare per omicidio colposo il datore di lavoro, il Tribunale sottolineò ``la omessa valutazione concreta del rischio specifico in relazione alle modalità di svolgimento del lavoro espletato dall'operaio rimasto vittima dell'infortunio''. ``Il lavoratore svolgeva le sue mansioni in ore notturne, in assoluto isolamento, all'interno di un contenitore che non avrebbe potuto abbandonare in fretta e scarsamente illuminato''. ``Il datore di lavoro aveva l'obbligo di predisporre le dovute misure precauzionali: ad esempio, assicurare l'assistenza di altro lavoratore posizionato all'esterno del silo presso il varco di accesso, oppure munire il lavoratore di un mezzo di collegamento con l'esterno o di un congegno di allarme idoneo a segnalare eventuali situazioni di difficoltà all'interno del silo''.

    Nel confermare la condanna di un datore di lavoro per l'infortunio subito da un autotrasportatore, la Sez. IV osserva che spetta al datore di lavoro adottare i presidi di sicurezza'', e che ``questa adozione non significa e non può significare che il datore di lavoro possa limitarsi a munire il lavoratore di quei presidi, ma significa, anche e soprattutto, che il datore di lavoro educhi il lavoratore ad avvalersene e accerti, quindi, sia che quegli sia `formato/educato'' a servirsene, sia che sia solito farlo, vincendo le prevedibili pigrizie. ``Questa educazione, o formazione deve essere tanto più attenta e insistita, allorché il lavoratore esegua lavori in solitudine, lavori, come quello di autotrasportatore, per la esecuzione dei quali non può ragionevolmente pretendersi che il lavoratore sia costantemente accompagnato dal datore di lavoro o da un suo preposto per imporre il rispetto delle norme antinfortunistiche''.

    Tra ``tutti'' i rischi professionali che il documento di valutazione è tenuto a prendere in considerazione, si colloca anche il rischio di caduta di un albero:

    Due dipendenti eseguono il lavoro di abbattimento di alberi di castagno. L'uno è addetto al taglio, l'altro ha il compito di direzionare e accompagnare le piante durante la caduta agganciandole con un attrezzo consistente in una pertica di legno lunga circa due metri nella cui parte finale è inserito un ferro a forma ricurva. Accade che un albero del diametro di cm 16, appena tagliato dal primo lavoratore, cade, e urtando un altro albero rimane impigliato a una pianta in posizione inclinata rispetto al terreno, rimbalza e colpisce violentemente alla testa l'altro lavoratore. La Sez. IV osserva che la tecnica di taglio degli alberi suggerita dalla migliore scienza ed esperienza del momento storico ``sarebbe consistita nell'effettuare una tacca sull'albero, con un taglio orizzontale e un taglio obliquo, in corrispondenza della prescelta direzione di caduta per poi andare a tagliare dal lato opposto; nel tracciare due zone di pericolo attorno all'albero, ossia la zona vietata, al cui interno nessuno può sostare eccetto l'operatore con la motosega, e la zona pericolosa, al cui interno le persone che stazionano devono essere allertate e devono interrompere la loro attività ai momento dell'abbattimento; nell'allontanamento dell'operatore tramite vie di fuga predisposte nella fase iniziale del lavoro in direzione opposta a quella di presumibile caduta''. Prende atto che la tecnica adottata dai lavoratori consisteva ``nella presenza di un lavoratore nella zona pericolosa addetto al c.d. uncinamento dell'albero, nella recisione dell'albero con un taglio `a sezione unica', inidoneo a direzionarne la caduta, nella inidonea predisposizione di vie di fuga, una delle quali era anzi ostruita da un albero in posizione diagonale sul quale quello abbattuto aveva rimbalzato prima di colpire il lavoratore''. E conferma la condanna del datore di lavoro sulla base del princìpio per cui ``il datore di lavoro, nell'elaborazione del D.V.R., è tenuto a scegliere, tra le tecniche adottabili per prevenire i fattori di pericolo presenti nell'ambito dell'attività lavorativa che gestisce, quella che, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, sia la più idonea a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori''.

    Condanna del presidente di una cooperativa per l'infortunio occorso a ``un socio lavoratore addetto all'abbattimento degli alberi, a seguito di acuta insufficienza cardio-circolatoria conseguente a shock emorragico secondario a dissezione dell'aorta toracica discendente e lacerazione della vena cava superiore in soggetto con gravi lesioni traumatiche toraco-addominali''. Colpa: ``aver omesso di indicare nel documento di valutazione dei rischi lavorativi le idonee misure di prevenzione e protezione attuate in relazione alla mansione di operaio addetto all'abbattimento piante''; ``aver omesso di individuare nel documento di valutazione dei rischi lavorativi le procedure per l'attuazione delle idonee misure di prevenzione e protezione da realizzare in relazione alle lavorazioni di abbattimento piante''. La Sez. IV pone in risalto che nel DVR ``i numerosi ed elevati rischi connessi al taglio delle piante in aree boschive non erano sostanzialmente trattati'', in quanto ``l'atto conteneva solo generiche e aspecifiche indicazioni''. (V. anche Cass. 11 giugno 2021, n. 23138).

    Un lavoratore dipendente incaricato dal datore di lavoro del controllo della viabilità durante l'abbattimento di un albero ad alto fusto fu colpito mortalmente da una seconda pianta sradicata dall'albero oggetto del taglio. Il datore di lavoro venne condannato per omicidio colposo, per aver omesso ``di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori (art. 4, comma 5, lettera b, D.Lgs. n. 626/1994 [ora art. 18, comma 1, lettera z, D.Lgs. n. 81/2008])''. Infatti, ``non disponeva misure di prevenzione di carattere organizzativo in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione, in riferimento al comma 1 dello stesso art. 4 D.Lgs. 626/1994 [ora art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008], in quanto, in relazione alla natura dell'attività, non valutava i rischi per la sicurezza dei lavoratori derivanti dall'abbattimento di alberi tramite taglio con motosega''.

    Nel corso di lavori di taglio boschivo, un lavoratore fu mortalmente colpito da un albero appena tagliato. Oltre al lavoratore addetto al taglio, venne condannato il datore di lavoro, in quanto ``la predisposizione del piano antinfortunistico non era formalmente corretto'', con la conseguente, ``assoluta mancanza di ogni misura di sicurezza pur in presenza di una situazione di rischio specifico di caduta di alberi''.

    (In argomento v. anche Cass. 11 aprile 2014, n. 16067; Cass. 10 dicembre 2008, n. 45699).

    In forza dell'art. 17, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro ha l'obbligo esclusivo, personale, indelegabile, di effettuare ``la valutazione di tutti i con la conseguente elaborazione del documento previsto dall'articolo 28''. A sua volta, l'art. 28, comma 1, prima parte, D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce che ``la valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004''. Lo stesso art. 28, al comma 1-bis, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 106/2009, prevede che ``la valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 è effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all'articolo 6, comma 8, lettera m-quater, e il relativo obbligo [e, dunque, l'obbligo relativo alla valutazione dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato] decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione, a far data dal 18 agosto 2010''. Solo che poi l'art. 8, comma 12, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 2010, n. 122, dispone che, ``al fine di adottare le opportune misure organizzative, nei confronti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 e dei datori di lavoro del settore privato il termine di applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 28 e 29 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di rischio da stress lavoro-correlato, è differito al 31 dicembre 2010''. Infine, l'art. 6, comma 8, lettera m-quater, D.Lgs. n. 81/2008 attribuisce alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro il compito di ``elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato''. Con lettera circolare del 18 novembre 2010 ``in ordine alla approvazione delle indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato di cui all'articolo 28, comma 1-bis, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e successive modifiche e integrazioni'', la Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha comunicato che ``in attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 6, comma 8, lettera m-quater, e all'articolo 28, comma 1-bis, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e successive modificazioni e integrazioni, la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro di cui all'articolo 6 del medesimo provvedimento (d'ora innanzi qui richiamata con la parola `Commissione') ha approvato, alla riunione del 17 novembre, le seguenti indicazioni per la valutazione dello stress lavoro-correlato'', e riporta in allegato siffatte indicazioni.

    Il fatto è che nelle indicazioni approvate alla riunione del 17 novembre 2010 e comunicate nella lettera circolare del 18 novembre 2010, al paragrafo intitolato ``Disposizioni transitorie e finali'', la Commissione asserisce che: ``la data del 31 dicembre 2010. di decorrenza dell'obbligo previsto dall'articolo 28, comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008, deve essere intesa come data di avvio delle attività di valutazione ai sensi delle presenti indicazioni metodologiche''; ``la programmazione temporale delle suddette attività di valutazione e l'indicazione del termine finale di espletamento delle stesse devono essere riportate nel documento di valutazione dei rischi''; ``gli organi di vigilanza, ai fini dell'adozione dei provvedimenti di propria competenza, terranno conto della decorrenza e della programmazione temporale di cui al precedente periodo''.

    In tal guisa, la Commissione ha prorogato la decorrenza dell'obbligo di valutazione del rischio stress lavoro-correlato dal 31 dicembre 2010 a una data la cui individuazione è stata rimessa alla discrezionalità di ciascun datore di lavoro nell'ambito del documento di valutazione dei rischi. Sotto questo profilo, le indicazioni approvate dalla Commissione e la lettera circolare che le contiene, appaiono in contrasto con l'art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. n. 81/2008 (così come modificato dall'art. 8, comma 12, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 2010, n. 122). Una norma di legge, questa, che in combinato disposto con l'art. 6, comma 8, lettera m-quater, D.Lgs. 81/2008, attribuisce alla Commissione il compito di ``elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato'', ma non l'ulteriore compito di stabilire la data di decorrenza dell'obbligo di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, visto che ha cura di individuare direttamente e insindacabilmente tale data nel 31 dicembre 2010. Ne consegue che, nella parte relativa alla individuazione della data di decorrenza dell'obbligo di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, le indicazioni approvate dalla Commissione e la lettera circolare che le contiene, risultano illegittime. È il caso di aggiungere che l'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 fornisce un esplicito e inderogabile parametro-guida, là dove impone la valutazione dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato ``secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004'': accordo ``sullo stress sul lavoro'' firmato dalle quattro maggiori organizzazioni europee di imprenditori e lavoratori e recepito in Italia con un accordo interconfederale del 9 luglio 2008. Ne desumiamo sotto il profilo metodologico l'esigenza di vagliare la conformità di ciascuna delle indicazioni approvate dalla Commissione all'accordo quadro europeo dell'8 ottobre 2004.

    Più che mai pressante diventa a questo punto un'ulteriore precisazione. Nelle proprie indicazioni, la Commissione afferma che ``la valutazione si articola in due fasi: una necessaria (la valutazione preliminare); l'altra eventuale, da attivare nel caso in cui la valutazione preliminare riveli elementi di rischio da stress lavoro-correlato e le misure di correzione adottate a seguito della stessa, dal datore di lavoro, si rivelino inefficaci''. E aggiunge che, ``ove dalla valutazione preliminare non emergano elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, il datore di lavoro sarà unicamente tenuto a darne conto nel Documento di Valutazione del Rischio (DVR) e a prevedere un piano di monitoraggio'', là dove ``diversamente, nel caso in cui si rilevino elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, si procede alla pianificazione ed alla adozione degli opportuni interventi correttivi (ad esempio, interventi organizzativi, tecnici, procedurali, comunicativi, formativi, etc.)''. Qualora, poi, ``gli interventi correttivi risultino inefficaci,si procede, nei tempi che la stessa impresa definisce nella pianificazione degli interventi, alla fase di valutazione successiva (c.d. valutazione approfondita)''. (Nello stesso senso si esprimono l'Interpello della Commissione Interpelli n. 5 del 15 novembre 2012, e le Linee Guida adottate dall'Inail nel 2011 e riedite nel 2017). Si tratta di indicazioni che sembrano adombrare l'obbligo d'individuare nel DVR le misure di prevenzione e di protezione a condizione che ``si rilevino elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive''. Ma come si è rilevato al paragrafo 9, ``la valutazione dei rischi attiene ai rischi insiti nelle attività; non ai rischi che permangono nonostante la loro valutazione e l'adozione delle connesse misure''.

    Resta da sottolineare che, nell'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, l'indicazione dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato non è esaustiva. Se ne trae palese conferma dalle espressioni usate nell'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008: ``ivi compresi'', ``tra cui'', ``anche''. Pertanto, non sarebbe corretto desumere dall'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 che lo stress lavoro-correlato costituisca l'unico rischio di natura psico-sociale da valutare nel relativo documento. Altri rischi di tal natura debbono essere presi in considerazione dal datore di lavoro: dal mobbing al burn-out e allo stalking, dalla violenza alle molestie. Né appare sostenibile che ``con l'inserimento del termine `stress lavoro-correlato' in luogo della locuzione `rischi psicologici' si sarebbe inteso assegnare al primo una valenza assorbente dei rischi psicologici o psicosociali''. Una tesi di tal fatta risulta smentita dal nitido tenore letterale dell'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. E per giunta contrasta con un inequivoco dato normativo. Leggiamo, infatti, l'art. 32, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 81/2008: ``Per lo svolgimento della funzione di responsabile del servizio prevenzione e protezione, oltre ai requisiti di cui al precedente periodo, è necessario possedere un attestato di frequenza, con verifica dell'apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato di cui all'articolo 28, comma 1''. Dove il D.Lgs. n. 81/2008 non impiega l'ampia espressione ``psico-sociale'' presente invece nella corrispondente disposizione dettata dall'abrogato D.Lgs. n. 626/1994 all'art. 8-bis, comma 4, bensì la più restrittiva espressione ``da stress lavoro-correlato''. E tuttavia, si badi, anche questo riferimento specifico allo stress lavoro-correlato non vale a sbarrare la strada all'esigenza di tener conto degli ulteriori rischi psico-sociali in sede di formazione dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione dai rischi cosi come in sede di valutazione dei rischi e di attuazione delle misure di prevenzione. Determinante è in questo senso lo stesso art. 32, comma 2, terzo periodo, D.Lgs. n. 81/2008: ``I corsi di cui ai periodi precedenti devono rispettare in ogni caso quanto previsto dall'accordo sancito il 26 gennaio 2006 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, n. 37, del 14 febbraio 2006, e successive modificazioni''. Ora, l'Accordo Stato-Regioni n. 128 del 2016 contempla, anzitutto, un modulo B, necessario per lo svolgimento delle funzioni di RSPP e ASPP, esplicito nel riferirsi ai ``rischi di natura psico-sociale: stress lavoro-correlato, fenomeni di mobbing e sindrome da burn-out'', e un modulo C, specifico per le funzioni di RSPP, ove si evoca il ``benessere organizzativo compresi i fattori di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato''. Se ne desume che la regolamentazione speciale dettata dall'art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. n. 81/2008 trova applicazione con esclusivo riguardo al rischio stress lavoro-correlato, e che, per contro, la valutazione dei rischi psico-sociali diversi dallo stress lavoro-correlato rimane sottoposta alla disciplina generale contenuta nell'art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Pertanto, l'obbligo di valutare i rischi psico-sociali diversi dallo stress lavoro-correlato è insorto alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008 (ma a ben vedere già sotto il regime del D.Lgs. n. 626/1994, perlomeno a far tempo dalla modifica dell'art. 4, comma 1, di tale decreto ad opera dell'art. 21, comma 2, legge 18 marzo 2002, n. 39).

    In questo quadro, significative sono:

    Condannati in primo grado e assolti in appello i datori di lavoro per il reato di lesione personale colposa commesso con violazione degli artt. 15, 18 e 71 D.Lgs. n. 81/2008 in danno di un addetto alle macchine operatrici adibito per circa 33 anni ad ``attività di movimentazione manuale di carichi e nella costruzione di manufatti in cemento con l'utilizzo di attrezzature comportanti l'esposizione a vibrazioni interessanti tutto il corpo, nonostante il suo inquadramento non prevedesse lo svolgimento di tali mansioni e senza fornirgli la dotazione di sistemi di protezione individuale e ambientale, nonché omettendo di adottare modelli organizzativi e modalità lavorative congrue e continuando a mantenerlo nelle medesime mansioni anche dopo l'accertamento di malattie professionali correlate'', cagionandogli ``lesioni personali consistenti in ipoacusia bilaterale da esposizione cronica a rumore, con indebolimento permanente dell'organo dell'udito, lombosciatalgia bilaterale in multiple discopatie cervicali e Iombari ed ernie discali e disturbo ansioso-depressivo reattivo''. Su ricorso del P.M. e della parte civile, la Sez. IV annulla con rinvio l'assoluzione. Rileva che la Corte d'Appello ``ha omesso completamente di affrontare il tema relativo alla violazione delle norme che prescrivono l'adozione di misure idonee a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di opera, con particolare riferimento a quelle per cui si deve allontanare il lavoratore dall'esposizione ai rischi a seguito dell'accertamento di rilevanti patologie professionali''. Prende atto che, ``prima di essere stato assunto alle dipendenze della ditta, il lavoratore era stato sottoposto a visita medica presso una struttura in cui operava il medico competente dell'azienda'', e che, ``in esito alla visita medica, era emersa l'esistenza di `lombosciatalgia bilaterale in ernie discali', sicché, valutate le mansioni alle quali il lavoratore avrebbe dovuto essere assegnato, il medico aveva dichiarato il lavoratore idoneo al lavoro, tuttavia formulando la prescrizione di effettuare una pausa di trenta minuti ogni due ore di lavoro continuativo al fine di evitare ulteriori conseguenze dannose per la sua salute''. Rileva che il lavoratore, ``dopo l'assunzione, era stato impiegato senza osservare i prescritti periodi di pausa, con mansioni definite come, perfino, ancor più stressanti rispetto a quelle in precedenza svolte come, ad esempio, quella di conducente di macchine operatrici''.

    Un lavoratore, ``in più occasioni, costringeva una collega a subire atti sessuali'', e ``nel contesto di tali condotte, cagionava alla collega lesioni personali consistite in `sindrome da stress reattivo a molestie sessuali in ambito lavorativo da collega di lavoro'''.

    Nel corso di lavori su un'autostrada appaltati da una s.p.a. ad altra s.p.a., quattro lavoratori precipitano nel vuoto da un'altezza di circa 40 metri ``a seguito dello sganciamento della pedana sulla quale si trovavano causato dall'errato montaggio del sistema di ancoraggio''. Omicidio colposo in danno di tre lavoratori, lesioni personali colpose in danno di un quarto, colpito da ``un gravissimo disturbo da stress postraumatico''.

    Si addebita a un datore di lavoro il reato di lesioni personali colpose in danno di un dipendente per avergli ``cagionato una marcata patologia psichiatrica nell'ambito del posto di lavoro, ponendo in essere nei suoi confronti una serie di comportamenti vessatori e persecutori, sia mediante espressioni ingiuriose, sia mediante pressioni per lo svolgimento di attività lavorative dopo che il dipendente era rimasto in regime di malattia per alcuni periodi, sia mediante continue e ripetute contestazioni disciplinari spesso a contenuto del tutto pretestuoso''. Con la conseguenza che ``ne derivava a carico del lavoratore l'insorgere dapprima di una sindrome ansioso depressiva su base reattiva, indi il manifestarsi di un disturbo depressivo maggiore'' (secondo quanto emerso da più elementi probatori quali diagnosi di un centro di salute mentale e di un istituto di medicina del lavoro, consulenze del P.M. e della parte civile, deponenti altresì per la riferibilità causale delle patologie riscontrate sul lavoratore ai comportamenti tenuti dall'imputato nei suoi confronti''). La Sez. IV, pur prendendo atto dell'intervenuta prescrizione del reato (decorrente dal momento di insorgenza della malattia in fieri anche se non ancora stabilizzata o divenuta irreversibile o permanente, ``in assenza di alcuna specifica condotta ulteriormente lesiva dell'imputato'' e di ``alcuna specifica interferenza con il progredire della patologia psichica da cui fu colpito il lavoratore''), rileva che, ``una volta ravvisata l'astratta riferibilità causale delle patologie psichiche (integranti sicuramente la nozione di `lesioni') alle condizioni cui la persona offesa era sottoposta dal datore di lavoro'', si è posto ``l'accento sull'assenza di dimostrazione circa ipotetici decorsi causali alternativi e sulla non emersione di eventuali fattori causali sopravvenuti, idonei a interrompere il nesso eziologico nei termini stabiliti dall'art. 41, comma 2, c.p.''. Senza che ``su tale assunto riverber(i) effetto il mancato riconoscimento del disturbo depressivo maggiore da parte del consulente del P.M.''. E con l'avvertenza che il consulente del P.M. ``ha invece confermato che il lavoratore era affetto da una sindrome ansiosa su base `reattiva', che quindi non presenta andamento esclusivamente `endogeno' e meglio si attaglia sul piano della riconducibilità causale alle condizioni vessatorie cui il lavoratore era sottoposto dall'imputato''.

    A causa di un'esplosione verificatasi in un ristorante pizzeria, una dipendente subì un ``grave stato di stress''. Per il delitto di lesioni personali colpose fu condannato il titolare di un'impresa installatrice di impianti di trasporto del gas che due anni prima era stato incaricato di provvedere alla manutenzione straordinaria dell'impianto di alimentazione del gas da cucina e che aveva omesso di effettuare i fori di aerazione nel numero necessario.

    Un datore di lavoro fu condannato per un infortunio a un lavoratore addetto a lavori di pulizia e caduto da una scala a pioli per l'eccessiva stanchezza alla fine della giornata lavorativa all'ultimo vetro da pulire in quel sito. L'addebito mossogli fu quello di non aver operato la valutazione del rischio da caduta dall'alto, da posture incongrue e da stress da lavoro ripetitivo. A dire del Tribunale, ``l'organo di vigilanza aveva impartito una prescrizione avente quale contenuto proprio la valutazione dei rischi in oggetto e la stessa era stata adempiuta, sicché la valutazione dei rischi dopo di allora conteneva la previsione di una apposita procedura, che limita la durata di tali operazioni, per evitare affaticamenti e rischi derivanti da lavori ripetitivi, con l'assegnazione del lavoratore ad altra mansione che non comporti affaticamento bio-meccanico ogni due ore di lavoro di pulizia di vetri con scale o trabattelli, nonché altre misure ancora dirette a fronteggiare i rischi in questione''; e ``tra la trasgressione cautelare e l'infortunio vi era un nesso eziologico, poiché l'evento era stato determinato `dalla situazione di stress e di stanchezza del lavoratore, dovuta all'effettuazione in serie di un lavoro ripetitivo e che richiedeva una postura e dei movimenti disergonomici', con accentuazione dei rischi a causa delle modalità operative correnti, quali il trasporto delle necessarie attrezzature di pulizia da parte del lavoratore, durante la salita sulla scala, e la necessità di svolgere il lavoro in tempi estremamente ristretti''. La Sez. IV conferma la condanna: ``Risulta accertato che l'imputato omise di elaborare, all'esito della valutazione dei rischi, il prescritto documento contenente una relazione esaustiva dei rischi per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro, con riguardo ai rischi specifici dei lavoratori addetti alle pulizie dei vetri relativamente al pericolo di caduta dall'alto, alle posture incongrue e allo stress da lavoro ripetitivo. Ad un estremo del giudizio di causalità si pone quindi l'omissione identificata dal processo: l'evento fu determinato dalle modalità di lavoro che, non adeguatamente analizzate in funzione dei correlati rischi per i lavoratori addetti, determinarono una condizione di stress e di stanchezza del lavoratore, generata dall'effettuazione di un lavoro ripetitivo, implicante una postura e dei movimenti disergonomici ed inoltre ulteriormente reso faticoso dalla necessità di provvedere al trasporto delle necessarie attrezzature di pulizia, durante la salita sulla scala, e dalla necessità di svolgere il lavoro in tempi estremamente ristretti. Nella sequenza degli accadimenti che esitarono nell'infortunio non intervenne alcun fattore estraneo all'esecuzione del lavoro, sicché è altamente probabile che se quelle condizioni di lavoro fossero state differenti (quelle poste in essere dopo il sinistro) l'infortunio non si sarebbe verificato''.

    Il direttore dell'area territoriale e il direttore dell'unità di controllo dei rischi di area di una banca furono assolti dal reato di cui all'art. 572, comma 2, c.p. perché il fatto non sussiste, ``in relazione ad atti di maltrattamento sul lavoro, e segnatamente di straining, posti in essere nei confronti di un funzionario amministrativo di una filiale, dai quali era derivata, secondo l'accusa, la grave lesione consistita nella causazione di un'incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo di tempo superiore a quaranta giorni''. La Sez. VI osserva: ``Il fatto della causazione di lesioni consistite in `disturbo dell'adattamento, reazione depressiva prolungata da problemi sul lavoro', comportante un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a giorni quaranta, costituiva oggetto di una chiara ed espressa contestazione all'interno del tema d'accusa, sì da imporne un complessivo apprezzamento da parte della corte distrettuale. L'impugnata pronuncia, dunque, pur avendo escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti, non poteva certo pretermettere la valutazione della rilevanza di condotte idonee a configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, che come tali dovevano comunque essere prese in considerazione nell'ambito della cognizione di merito''.

    Peraltro:

    ``Un dipendente ha presentato certificati medici attestanti la sindrome ansioso-depressiva nei periodi in cui era in malattia ed ha continuativamente esplicato attività lavorativa presso un'altra officina. All'imputato è contestato il delitto di truffa in danno sia dell'INPS (nella forma aggravata) che del proprio datore di lavoro (una s.p.a.), per avere simulato una patologia inesistente (sindrome ansioso-depressiva) in modo da ottenere indebitamente l'indennità di malattia. Il giudice ha, però, ritenuto che effettivamente l'imputato fosse affetto da sindrome depressiva e quindi, ferma la qualificazione giuridica di truffa, sull'assunto che i fatti siano diversi da quelli descritti nel decreto che ha disposto il giudizio, ha ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero per riformulare l'accusa. Il giudice ha ravvisato i raggiri non nella simulazione della patologia, ma nella sua strumentalizzazione. In particolare, il dipendente, avendo omesso di riferire ai medici di avere aperto un'officina abusiva, dovrebbe rispondere di truffa ai danni dell'INPS e della s.p.a. datrice di lavoro per la condotta di strumentalizzazione di una malattia in realtà esistente per potere esercitare in proprio attività lavorativa presso l'officina abusiva e, al contempo, percepire indebitamente l'indennità di malattia sfruttando l'automatismo derivante dalla presentazione dei certificati medici all'INPS (senza promuovere una causa per `mobbing' nei confronti del datore di lavoro, o, al limite, senza dimettersi''. La Sez. II annulla l'ordinanza del giudice: ``L'ordinanza di trasmissione degli atti per diversità del fatto presuppone che il fatto emerso in dibattimento sia non solo diverso da quello descritto nell'imputazione, ma anche astrattamente qualificabile come reato. In effetti, nel caso di specie, la `strumentalizzazione' della malattia ipotizzata dal giudice appare astrattamente inidonea a configurare gli artifici e raggiri richiesti per il reato di truffa, che sarebbero in ogni caso sganciati dal nesso causale con l'evento. Il giudice sostiene, infatti, che l'imputato ha omesso di riferire ai medici curanti la fonte principale della propria depressione, cioè l'apertura di un'autofficina abusiva, che svolgeva segretamente attività concorrenziale con quella del proprio datore di lavoro. Si tratta di una condotta che non incide in alcun modo sulla sussistenza della malattia, ma eventualmente, in misura marginale, sulla terapia della depressione e che, in ogni caso, non è collegata eziologicamente al profitto conseguito, cioè l'indennità di malattia. In altri termini, se anche l'imputato ha omesso di riferire ai medici alcune circostanze che potevano essere la fonte della patologica depressione, questa era comunque sussistente e quindi il profitto non era ingiusto e, al contempo, appare assolutamente inverosimile che questo specifico comportamento dell'imputato fosse finalizzato ad ottenere l'indennità di malattia, non essendovi rapporto causale tra condotta ed evento. Il giudice avrebbe allora dovuto, sulla base della ricostruzione dei fatti compiuta, assolvere l'imputato, ma non trasmettere gli atti al pubblico ministero per perseguire penalmente un comportamento lecito''.

    A proposito del mobbing nei luoghi di lavoro, stiamo assistendo a un latente, ma avvincente dibattito giurisprudenziale (v. Catizone, Stalking occupazionale come reato, in Sintesi, 2024, 2, 9). Questa la strada percorsa dalla Sez. VI:

    ``Il cugino dell'amministratore della società che gestiva un ristorante e dipendente con funzioni di responsabile presso il detto esercizio'' fu accusato del delitto di cui all'art. 572 c.p. per ``aver maltrattato, nell'ambito di un contesto lavorativo di tipo parafamiliare, un dipendente con funzioni di responsabile presso lo stesso ristorante''. Nell'annullare con rinvio la condanna dell'imputato, la Sez. VI premette che ``le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. `mobbing') possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente abbia natura para-familiare'', e che ``si deve, cioè, trattare di un rapporto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo''. Rimprovera ai magistrati di merito di non aver correttamente applicato il requisito della parafamiliarità. Spiega che ``si tratta di un accertamento che non può essere compiuto in astratto, in ragione del tipo di attività o del numero di dipendenti, ma che deve invece essere posto in essere caso per caso, in concreto, sulla base delle prove raccolte, delle verifiche dei singoli comportamenti, della ricostruzione specifica delle dinamiche lavorative, della successione temporale e degli sviluppi delle condotte''. Sottolinea che, per configurare il reato di cui all'art. 572 c.p., occorre ``verificare ``l'esistenza di rapporti caratterizzati da relazioni intense ed abituali, di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo''. Pone in risalto che ``sul punto, la sentenza è silente; al di là del rapporto, non decisivo, tra l'imputato e suo cugino, amministratore della società che gestiva il ristorante, nulla è stato spiegato sul perché nella specie vi sarebbe stato, dopo l'ingresso dell'imputato nella impresa, un rapporto di fiducia tra questi e la persona offesa e tra l'imputato e gli altri dipendenti, e neppure è stato indicato se e in che termini l'imputato avesse avuto una posizione di assistenza nei riguardi del secondo e questi una posizione di soggezione''.

    Condannata in primo grado, ma assolta in appello per insussistenza del fatto, la titolare di un negozio di parrucchiera, ``per il reato di maltrattamenti fisici e morali, aggravati dalla condizione di gravidanza di una dipendente''. La Sez. VI annulla l'assoluzione con rinvio al giudice civile. Prende atto ``delle condotte vessatorie, protrattesi per anni, riferite dalla persona offesa e consistite in umiliazioni ed insulti alla presenza di clienti del negozio e colleghe di lavoro della vittima; nell'obbligo di lavorare gratuitamente oltre l'orario previsto; nell'ostacolare in tutti i modi la dipendente a restare incinta e portare a termine la gravidanza minacciandola di licenziamento se questo fosse avvenuto''. Precisa: ``La condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati. Infatti, il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d'ufficio, che si consuma con l'abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell'accertamento della consumazione del delitto. Nel caso di specie il Tribunale del lavoro, per dichiarare legittimo il licenziamento della lavoratrice, aveva svolto una limitata attività istruttoria - diversamente da quella penale - all'esito della quale la datrice di lavoro era stata condannata a pagare la somma di euro 2.442,11 a favore della dipendente per l'attività di lavoro straordinario svolto e non retribuito, a riprova proprio dell'attendibilità della persona offesa che aveva indicato l'obbligo, cui era sottoposta, di lavorare gratuitamente oltre l'orario come una delle modalità delle condotte maltrattanti''.

    L'amministratore di una s.p.a. - imputato del reato di cui all'art. 572 c.p. ``per avere maltrattato un dipendente con una serie di frequenti e reiterati comportamenti vessatori di mobbing (demansionamento, trasferimento, licenziamento, insulti, minacce, lesioni), tali da determinare l'emarginazione del lavoratore'' - venne assolto in primo grado perché il fatto non sussiste, ``sul rilievo delle dimensioni notevoli della struttura aziendale che, essendo complessa e articolata in varie sedi e filiali e con circa 550 dipendenti rappresentati dalle organizzazioni sindacali, escludeva il carattere di para-familiarità del contesto lavorativo''. Per contro, in appello, fu condannato, in quanto, ``pure essendo state accertate le notevoli dimensioni dell'azienda, la potestà datoriale facente capo al solo imputato non escludeva in concreto la prossimità e la stretta relazione interpersonale esistente fra lo stesso e il lavoratore''. La Sez. VI annulla con rinvio la condanna. Rimprovera alla corte d'appello di non aver proceduto ``alla doverosa rinnovazione istruttoria mediante le deposizioni di tutti i testimoni escussi nel giudizio di primo grado, avendo il primo giudice esplicitamente basato su tali prove dichiarative il convincimento che non potessero configurarsi, in linea di fatto, le caratteristiche della para-familiarità del rapporto lavorativo in esame'', ``e ciò a maggior ragione ove si consideri la necessità, nel caso in esame, di acquisire e valutare la prova rigorosa della para-familiarità con riguardo ad un'azienda caratterizzata da un'organizzazione complessa e articolata''. Ricorda che, ``in ordine alla applicabilità della disciplina dell'art. 572 c.p. anche in ambito lavorativo, è necessario - oltre al rapporto di sovraordinazione - che il rapporto di lavoro si svolga con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli propri di un rapporto di natura `para-familiare', quindi con relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell'altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia''. Aggiunge che ``la giurisprudenza ha escluso - ad esempio - la configurabilità del reato in casi di relazioni tra dirigente e dipendente di un'azienda di grandi dimensioni, sindaco e dipendente comunale, capo officina e meccanico, capo squadra e operaio''. Ammette che ``l'art. 572 c.p. ha allargato l'ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello endofamiliare in senso stretto'', ma afferma che ``non può ritenersi idoneo il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione'', e che, ``con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell'esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile a un rapporto di natura para-familiare''. Spiega che ``il presupposto della para-familiarità del rapporto di sovraordinazione si caratterizza per la sottoposizione di una persona all'autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l'affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all'azione di chi ha ed esercita l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità''.

    Il presidente di una fondazione - imputato, in particolare, del delitto di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. per ``aver maltrattato una dipendente, sottoponendola ad atti di violenza morale e psicologica e a comportamenti vessatori'' - ne era stato assolto per ``la assenza da un lato di un rapporto di lavoro inquadrabile nel concetto di `parafamiliarità' e dall'altro della abitualità dei comportamenti ascritti''. Nel respingere il ricorso della parte civile, la Sez. VI ribadisce che ``le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. `mobbing') potevano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente venisse ad assumere natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia''. E con i magistrati di merito esclude che ``le risultanze processuali dimostrassero l'esistenza di un rapporto tra l'imputato e la persona offesa connotato da tali peculiarità, essendo emerse soltanto relazioni amicali e di sostegno nello studio, con episodi verificatisi saltuariamente in un arco di quasi trent'anni''.

    ``Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto `mobbing') possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, sia cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia''. (Nella fattispecie, un sindaco, due assessori e il segretario di un comune furono condannati in primo grado, ma assolti in appello, per il reato di cui all'art. 572 c.p., loro contestato ``per avere in concorso, maltrattato una dipendente, nei confronti della quale aveva adottato una delibera di giunta che comportava il trasferimento interno della impiegata, un suo demansionamento, la sua collocazione in un ufficio in precarie condizioni igienico-sanitarie e un suo isolamento, culminato anche nella sua esclusione dal servizio elettorale, condotte che avevano provocato nella dipendente uno stress lavorativo ed una patologia qualificabile in termini di disturbo depressivo''. La Sez. VI ritiene trattarsi di ``una vicenda caratterizzata da contrasti tra i vertici politici e amministrativi di quella amministrazione comunale e una dipendente dello stesso ente, che ben avrebbe potuto far valere le proprie ragioni nella sede propria, quella della giurisdizione del lavoro''.

    Il risultato è sorprendente: finiscono per essere punibili le piccole (piccolissime) aziende, ma non le grandi aziende nell'ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati come una banca, un ospedale, un comune (pur se, a dire di Cass. 9 marzo 2018 n. 10784, sarebbe ``manifestamente infondato il rilievo secondo cui la limitazione della configurabilità del delitto di maltrattamenti solo nel quadro di rapporti aventi quella natura e qualificazione darebbe luogo a profili di illegittimità costituzionale'').

    Il fatto è che, ultimamente, la Sez. V sembra invece essersi liberata dalle strettoie della para-familiarità:

    Conferma la misura cautelare degli arresti domiciliari con applicazione del dispositivo di controllo elettronico nei confronti del titolare di un ristorante per atti persecutori nei confronti di persona che lavorava in nero come cuoca. E prende atto che ``iI Tribunale ha coerentemente osservato come non potessero nutrirsi dubbi sulla sussistenza sia dell'elemento oggettivo del reato di atti persecutori, costituito dalle reiterate condotte di minacce e violenze perpetrate, sia di quello soggettivo, consistente nel dolo generico, sia dell'evento, come ben rappresentato dalla stessa persona offesa attraverso i diversi riferimenti effettuati alla condizione di elevato timore in cui era venuta a trovarsi al punto da non riuscire a dormire di notte e da assumere un atteggiamento guardingo quando si trovava per strada (senza considerare che le condotte verosimilmente indussero la persona offesa ad interrompere il rapporto di lavoro, andando ad incidere in maniera più che consistente sulla sua stessa vita; e furono quindi tali da determinare un `vulnus' alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis c.p.)''.

    La Sez. V dichiara inammissibile il ricorso proposto avverso la misura cautelare degli arresti domiciliari applicata a un'agente della polizia municipale indagata in concorso con la comandante anche del reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. nei confronti di colleghe. E ne trae spunto sia per sottolineare che ``trattasi di fatti gravi che destano allarme sociale'', ``posti in essere reiteratamente con condotte vessatorie e persecutorie nei confronti delle persone offese'', sia per sostenere ``l'adeguatezza della misura degli arresti domiciliari quale unica misura, anche proporzionata all'entità del fatto, idonea a garantire l'allarme sociale e la pena che si reputa potrà essere irrogata'', sia per rilevare come ``nella fattispecie misure cautelari custodiali interdittive non si presentino idonee a fronteggiare il pericolo di recidiva e di inquinamento probatorio, in quanto I'ampia libertà di movimento ad esse connesse non impedirebbe all'indagata di reiterare le medesime condotte criminose o di porre in essere altre condotte finalizzate ad occultare o ridimensionare quelle già poste in essere''.

    Il presidente di una s.r.l. è condannato per il delitto di atti persecutori, per avere, ``tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nei dipendenti un duraturo stato di ansia e di paura così da costringerli ad alterare le loro abitudini di vita''. Osserva che, ``anche nel caso di stalking `occupazionale' per la sussistenza dell'art. 612-bis c.p. è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico''. E nel rispondere alle obiezioni mosse dall'imputato, aggiunge che ``l'efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l'umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici'', e che ``la condivisione da parte degli altri componenti del consiglio di amministrazione della scelta di compiere atti persecutori caratterizzati anche da gravi minacce ai danni dei dipendenti potrebbe semmai comportare una condivisione da parte di tali soggetti della penale responsabilità a tali condotte, giammai l'assoluzione dell'imputato''.

    Premette che il mobbing può definirsi in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro. Richiama l'insegnamento della Sez. VI sul mobbing parafamiliare. Ma afferma la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all'art. 612-bis c.p., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati. Spiega che il delitto di atti persecutori - che ha natura di reato abituale e di danno - è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie. Aggiunge che è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all'esito della necessaria verifica causale. Ne desume che il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall'art. 612-bis c.p., e che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell'alveo precettivo di cui all'art. 612-bis c.p., laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice'' (``un perdurante e grave stato di ansia o di paura'', o ``un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva'', o ``alterare le proprie abitudini di vita'').

    Altamente significative le implicazioni. A ben vedere il mobbing viene ad assumere rilevanza penale a prescindere dalla parafamiliarità evocata con riguardo all'art. 572 c.p. dalla Sez. VI.

    In questa direzione si era già mossa la Sezione Feriale:

    Atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. commessi nei confronti di due diversi colleghi di lavoro presso una sede ministeriale, ``che l'imputato reiteratamente disturbava e minacciava con vari comportamenti (telefonate e lettere anonime, danneggiamenti, scritte sui muri), provocandone uno stato di ansia e paura''. A sua discolpa, l'imputato rileva che ``la condotta consistita nella apposizione, in un'unica circostanza temporale, delle scritte murarie di fronte all'abitazione della vittima non avrebbe potuto integrare il reato di cui all'art. 612-bis c.p., ma, semmai, il delitto di minaccia, mancando l'elemento costitutivo della reiterazione abituale del comportamento illecito''. La Sezione prende atto delle ``risultanze relative agli atti di stalking, all'interno di una medesima cornice, avente un unico movente volto a colpire due colleghi di lavoro dell'imputato ritenuti da costui colpevoli di condotte negative nei suoi confronti relative all'ambito sindacale''. Rileva, inoltre, ``il fatto che gli atti persecutori fossero stati commessi in uno stesso contesto temporale, nel quale, anche formalmente, l'imputato aveva mosso ai colleghi delle pressanti critiche per mezzo della compagine sindacale della quale egli faceva parte''. Osserva che ``l'estensione della condotta dell'imputato non soltanto a telefonate `mute' ma a telefonate minacciose, ad SMS anche minacciosi, a lettere anch'esse contenenti velate minacce (come quella relativa alla necessità di una sedia a rotelle per la vittima) giustificano la decisione, in uno alla durata della condotta per oltre un anno ed al movente di essa, di ritenere sussistente il reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. e non altre fattispecie meno gravi''. Spiega che ``la condotta dell'imputato, avente connotati di abitualità, aveva provocato un effettivo danno alla vittima, consistente in un rilevante stato di ansia, suo e dei suoi familiari, secondo quanto richiesto dalla norma incriminatrice contestata e a differenza della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. od anche del reato di minaccia''. Aggiunge che ``la condotta abusiva commessa dall'imputato nei confronti di una vittima non era consistita soltanto nella apposizione di scritte murarie offensive e minacciose su pareti prospicenti all'abitazione della persona offesa, ma anche nel recapitare buste a casa bianche, nell'inviare SMS al cellulare e in un rilevante danneggiamento dell'autovettura della vittima'', e che l'ampio ``raggio delle condotte abusive dell'imputato aveva portato la vittima addirittura ad assumere un servizio di vigilanza notturna della sua abitazione, a documentare lo stato di preoccupazione sua e del nucleo familiare''.

    Da leggere anche:

    Molestie poste in essere sul luogo di lavoro, nel tentativo, da parte dell'imputato, di dare vita a una relazione sentimentale con la persona offesa che vi si opponeva. Nel confermare la condanna per il reato di cui all'art. 612-bis c.p., la Sez. V prende atto dei ``riscontri oggettivi costituiti dalle dichiarazioni dei colleghi, che condividevano con la persona offesa il luogo di lavoro, i quali, in parte avevano assistito alle condotte censurate, in parte ne erano addirittura stati strumento, poiché l'imputato, una volta bloccato dalla persona offesa nei contatti telefonici e social, la raggiungeva con i suoi messaggi sgraditi e molesti (ed anche con regali) proprio per il tramite delle colleghe a lei più vicine''. Nota che, ``l'imputato in almeno due occasioni le aveva fatto regali per scusarsi del comportamento tenuto, è evidente che era perfettamente consapevole della lesività delle sue condotte e della loro idoneità a turbare la tranquillità della vittima''. Esclude che ``ricorrano nel caso in esame i presupposti per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena irrogata, alla luce della pervicacia della condotta dell'imputato, quindi della intensità del dolo, in quanto egli ha proseguito nelle condotte moleste per un periodo di tempo prolungato e anche dopo la denuncia presentata dalla persona offesa e i provvedimenti aziendali adottati nei suoi confronti''.

    La Sez. V rigetta il ricorso dell'imputato contro la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione anche in relazione al reato di atti persecutori nei confronti di una collega di lavoro ``con l'invio di email a contenuto diffamatorio a colleghi degli uffici presso i quali lavorava, provenienti da un account artatamente creato come riconducibile alla persona offesa''. Rileva che ``il delitto di atti persecutori può essere ritenuto integrato anche in presenza di due sole condotte, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la `reiterazione' richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale''. E prende atto che ``la Corte d'Appello ha messo in risalto - oltre alla progressiva perdita di capacità sociale e di frequentazioni; oltre alle ripercussioni serissime sul lavoro, da cui si è assentata lungamente, rischiando il licenziamento, proprio per la difficoltà a superare l'accaduto e ad incontrare l'imputato - tutta la sofferenza ed il patema della persona offesa'', essendo ``accertato, con adeguata documentazione medica, che la vittima ha subito gravi traumi psichici, mai superati del tutto, tanto che, anzi, essi si sono trasformati da patologia psicologica da stress in conclamata malattia psichiatrica''.

    In primo grado, assoluzione perché il fatto non sussiste, in appello condanna, per i reati di atti persecutori ai danni di una dipendente e di lesioni personali nei confronti del coniuge della dipendente. La Sez. V annulla con rinvio la condanna in quanto fondata ``su una diversa valutazione della prova dichiarativa, costituita, oltre che dal narrato delle persone offese, anche da altre testimonianze, pure valorizzate dal primo giudice, e dalla stessa Corte di appello, senza procedere alla rinnovazione istruttoria di tutte tali prove, che, in quanto hanno contribuito alla diversa determinazione dei due giudici di merito, devono essere considerate decisive''.

    Condanna per il reato di atti persecutori di un cliente dell'esercizio commerciale di cui la vittima era dipendente, in un contesto in cui ``il datore di lavoro nella prospettiva di perdere un cliente ha preferito - con cinismo certamente deprecabile - invitare la propria dipendente e le sue colleghe a fare `buon viso a cattivo gioco'''.

    In questo dibattito si è poi calata la Sez. III:

    Il titolare di una farmacia fu imputato sia del delitto di cui all'art. 572 c.p. per aver commesso, con abitualità, nel corso dell'esercizio dell'attività lavorativa presso la farmacia, atti di maltrattamento, lesivi della integrità morale, nei confronti di dipendenti, sia del delitto di cui all'art. 609-bis c.p., per molestie sessuali nei loro confronti. La Sez. III ne trae spunto per affermare che ``le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (`mobbing') possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia''. Ricorda che, ``nel fornire la definizione della violenza domestica, le convenzioni internazionali (Cedaw e convenzione di Istanbul, alle quali i giudici interni devono conformarsi) e la stessa legislazione nazionale (art. 3 L. 15 ottobre 2013, n. 119 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante, tra l'altro, disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere) escludono - pur operando il riferimento agli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partners - che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima, a dimostrazione del fatto che, non essendo richiesto che autore e vittima del reato (di violenza domestica) dimorino abitualmente in uno stesso luogo, neppure è richiesto che gli stessi partecipino o abbiano partecipato alle stesse consuetudini di vita''. Ne desume che, ``se tale requisito non è richiesto per il reato di maltrattamenti in famiglia, in senso stretto, a maggior ragione non può essere richiesto per i maltrattamenti commessi, in ambiti `para-familiari', come nei luoghi di lavoro, nei confronti di persona sottoposta all'autorità dell'agente, ovvero al medesimo affidata per determinate ragioni.'', e che ``gli indici che la giurisprudenza di legittimità declina, per la configurazione di un rapporto `para-familiare', non devono sussistere congiuntamente, essendo sufficiente la presenza di uno o più indici indicativi di uno stretto legame tra i soggetti ossia un rapporto continuativo di `prossimità permanente', il quale richiede che si instaurino tra le persone relazioni intense ed abituali e, quindi, che sussista, con specifico riferimento al rapporto di lavoro subordinato, una diretta relazione tra agente e persona sottoposta alla potestà datoriale''.

    Anche alla luce delle indicazioni dell'OMS, dell'OIL e dell'UE, la violenza si profila come rischio lavorativo in quanto rischio d'infortunio e di malattia professionale. Di grande interesse è ripercorrere in argomento alcuni casi affrontati dalla giurisprudenza civile:

    Cass., Sez. Lav., 12 giugno 2017 n. 14566 annulla la sentenza della corte d'appello che nega il risarcimento del danno subito da un infermiere di un'azienda ospedaliera vittima di aggressione presso il pronto soccorso.

    Cass., Sez. Lav., 22 febbraio 2016 n. 3424 conferma la condanna al risarcimento del danno della società datrice di lavoro per la malattia psichica subita dal direttore di un ufficio postale rimasto due volte in balia di rapinatori armati.

    Cass., Sez. Lav., 19 febbraio 2016 n. 3303 conferma la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico e morale subito dal direttore di un ufficio postale sprovvisto di adeguate protezioni a seguito di infarto miocardico acuto ricondotto a più rapine.

    Cass., Sez. Lav., 18 febbraio 2016 n. 3212 conferma la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico e morale subito da una dipendente coinvolta nella rapina a mano armata in un ufficio postale e affetta da un disturbo post-traumatico da stress.

    Cass., Sez. Lav., 5 gennaio 2016 n. 34 conferma la condanna al risarcimento del danno di una società autostradale per l'infarto al miocardio e la conseguente patologia cardiaca sofferta a seguito di rapina da un casellante addetto all'esazione del pedaggio.

    Della violenza nei luoghi di lavoro si è occupata anche la giurisprudenza penale. Memorabile fu, in particolare:

    Cass. pen., Sez. IV, 29 settembre 2006 n. 32286

    Il legale rappresentante di un istituto di vigilanza è dichiarato colpevole del reato di omicidio colposo, in quanto una dipendente guardia giurata addetta al servizio antirapina innanzi una banca era stata colpita mortalmente con arma da fuoco da malviventi che avevano preso d'assalto l'istituto di credito. La colpa addebitatagli fu la violazione degli obblighi contemplati dall'art. 2087 c.c., per aver omesso di fornire alla guardia giurata un giubbotto antiproiettile, così esponendola ``ad una oggettiva situazione di rischio per l'incolumità''.

    Si tratta di principi che ritroviamo in:

    Cass., Sez. Lav., 9 maggio 2011 n. 10097

    ``Risponde di omicidio colposo il responsabile di una polizia o istituto di vigilanza privata che consente a un dipendente di esercitare funzioni di sorveglianza in una banca senza essere munito di giubbotto anti-proiettile, qualora il detto dipendente rimanga ucciso a seguito di uno scontro a fuoco con rapinatori, poiché il datore di lavoro è responsabile degli infortuni occorsi ai dipendenti non solo per violazione degli obblighi imposti in via preventiva dall'art. 2087 c.c. secondo cui deve predisporre cautele adeguate, secondo la comune prudenza e la normativa tecnica di settore, a proteggerli in concreto dai rischi connessi allo specifico tipo d'attività esercitata, ma deve anche disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione a loro disposizione dall'inizio alla fine del servizio, ed anche nella zona circostante il luogo di lavoro, se ugualmente pericolosa, poiché le prescrizioni dirette a tutelare il lavoratore sono volte anche a prevenire gli effetti derivanti da suoi comportamenti disattenti, imperiti, negligenti o imprudenti, a meno che sia provata l'assoluta abnormità, atipicità ed eccezionalità del suo comportamento''.

    Basilare in questa prospettiva è l'Interpello n. 11 del 25 ottobre 2016 della Commissione per gli Interpelli, ove si ritiene che ``il datore di lavoro debba valutare tutti i rischi compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti `rischi generici aggravati', legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all'attività lavorativa svolta''. Un interpello che esplicitamente allarga il discorso a fenomeni come il terrorismo. Sotto questo profilo, è di grande interesse la sentenza del Tribunale di Ravenna del 23 ottobre 2014 che sulla base dell'art. 2087 c.c. accoglie una domanda di risarcimento del danno per infortunio sul lavoro: ``mentre si trovava su una vettura aziendale in Algeria presso il cantiere relativo alla realizzazione della diga di Kuodiat Acerdoune, un lavoratore era stato oggetto di un attentato da parte del gruppo terroristico Al Qaeda, essendosi un kamikaze lanciato con una autovettura imbottita di esplosivo contro la vettura sulla quale viaggiava''.

    Ecco più storie che in rapida successione confermano l'attualità anche in Italia del vibrante dibattito in pieno corso presso l'Organizzazione Internazionale del Lavoro circa l'esigenza di contenere le molestie e la violenza anche di natura sessuale sul posto di lavoro (in argomento v. l'ebook Guariniello, Molestie e violenza anche di tipo sessuale nei luoghi di lavoro, Wolters Kluwer, Milano, 2018).

    La n. 45158/2023 conferma la condanna dell'imputato che, dopo averle offerto un posto di lavoro presso la propria abitazione come donna delle pulizie, con violenza, costringeva la persona offesa a subire atti sessuali.

    Nella n. 42843/2023 si riconosce la responsabilità del padre del gestore di un supermercato per aver costretto a subire atti sessuali sul luogo di lavoro una dipendente, licenziatasi subito dopo l'accaduto.

    Inedita l'ipotesi esaminata dalla n. 42493/2023: un datore di lavoro viene condannato per il reato ex artt. 609-bis, commi 1 e 2, n. 1, e 609-ter, comma 2, c.p., ``perché, con più azioni esecutive e con condotte reiterate, agendo con atti insidiosi e repentini, sia con violenza che con induzione - abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della persona offesa al momento del fatto - costrinse in più occasioni una minore degli anni sedici, figlia di una sua dipendente impiegata presso il suo studio a subire atti sessuali''. E ciò ``approfittando di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all'età, tale da ostacolare la pubblica o privata difesa'', poiché, ``in particolare, nella sua qualità di datore di lavoro della madre della parte offesa, abusò della minore all'interno del suo ufficio nei momenti in cui la dipendente si assentava''.

    La n. 41882/2023 ritiene penalmente responsabile il legale rappresentante di una società ``per avere costretto a subire atti sessuali'' una dipendente che successivamente le proprie dimissioni.

    La n. 37853/2023, nel confermare la misura degli arresti domiciliari nei confronti del datore di lavoro di un supermercato per ipotesi di cui all'art. 609-bis c.p. in danno di più dipendenti, prende atto, quanto alle esigenze cautelati, che ``il Tribunale rileva come l'indagato esercita ancora la sua attività con numerosi dipendenti e pertanto potrebbe commettere fatti della stessa specie nei riguardi di altri dipendenti''.

    La n. 32085/2023 prende atto delle ``crude istanze sessuali dell'imputato ad ineludibile prepotente ed esclusiva premessa dell'instaurazione e della prosecuzione del rapporto di lavoro dipendente della donna (all'epoca ancora priva della cittadinanza italiana, bisognosa di lavorare e di conciliare materialmente il pranzo con la cena attese le disastrate condizioni economiche della famiglia, e quindi del tutto sensibile agli argomenti dell'imputato).

    La n. 31836/2023 conferma la condanna per i reati di cui agli artt. 609-bis e 582 c.p., perché l'imputato, con minaccia implicita consistita nel promettere alla vittima un contratto a tempo indeterminato se non avesse resistito al suo volere, nonché con violenza consistita nel giungere alle sue spalle mentre, terminato il lavoro, si stava cambiando d'abito, la costringeva a subire atti sessuali contro la sua volontà, provocandole una lesione guaribile in oltre 40 giorni.

    La n. 19316/2023 esamina un'ipotesi in cui l'imputato costringe la vittima ``a compiere e a subire atti sessuali, mediante minaccia consistita nel prospettare il licenziamento del padre della minore, in più occasioni''. Assoluzione in primo grado, ma condanna in appello confermata dalla Corte Suprema.

    La n. 16135/2023, in un `ipotesi addebitata a un medico chirurgo in danno di un'infermiera, annulla con rinvio la condanna inflitta in appello per tentata violenza sessuale, rilevando, ``con specifico riferimento alla condotta di chi, contra volentem, attinga un altro soggetto con un bacio sulla guancia, che una tale condotta configura violenza sessuale, nella forma consumata e non solo tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta dell'agente, compiuta tenendo conto del contesto ambientale e sociale in cui l'azione e stata realizzata, del rapporto intercorrente fra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato qualificante, possa ritenersi essere stato inciso il bene libertà sessuale della vittima''. (Sul punto v. anche n. 9077/2023 nei confronti di un datore di lavoro).

    La n. 7231/2023 afferma che, che, ``ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, prevista dall'art. 609-bis, comma 3, c.p., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all'età, così da potere ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, così come il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici''. Con riguardo al caso di specie, condivide le valutazioni della Corte di appello che ``ha escluso la minore gravità del fatto per l'approfittamento da parte dell'imputato del proprio status di datore di lavoro'', e ha negato che ``il buon comportamento processuale e la mancanza di precedenti potessero prevalere sul negativo giudizio personologico dell'imputato che aveva approfittato della sua condizione di datore di lavoro per violare, reiteratamente, la libertà sessuale delle sue dipendenti''.

    Nella n. 49464/2022, condanna in primo e secondo grado di un datore di lavoro per ``i reati tra loro avvinti dal vincolo della continuazione di maltrattamenti esternato sotto forma di mobbing sessuale nei confronti di tre ragazze che avevano prestato attività lavorativa nei bar dallo stesso gestito e di violenza sessuale nella forma di minore gravità di cui all'art. 609-bis, ultimo comma, c.p. ai danni di due di queste''. La Sez. III, su ricorso dell'imputato, annulla senza rinvio la condanna per il primo reato per intervenuta prescrizione, con conferma delle statuizioni in favore della parte civile, e, inoltre, conferma la condanna per il secondo reato. A quest'ultimo proposito, non condivide l'argomentazione difensiva secondo la quale ``la condotta di violenza sessuale non sarebbe andata al di là della fase del tentativo per avere i toccamenti posti in essere dall'imputato interessato zone non erogene del corpo di entrambe le vittime''. Ed insegna che ``la valutazione dell'atto, al fine di apprezzarne l'incidenza sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa, debba tener conto della condotta nel suo complesso, rapportandola cioè all'ambito specifico in cui si è svolta, alle modalità in cui si è in concreto estrinsecata estese anche a quelle che l'hanno preceduta o seguita, al rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e ad ogni altro dato fattuale che valga a connotarlo''. Ne ricava che ``gli atti posti in essere dall'imputato all'interno del particolare contesto lavorativo nel bar dove le due ragazze svolgevano attività di cameriere alle sue dipendenze durante l'orario di servizio, e, dunque, tale da non giustificare effusioni di natura amichevole o affettuosa come si sostiene nel ricorso, sono stati logicamente valutati come espressione di concupiscenza coinvolgente a tutto tondo la sessualità delle vittime''. Aggiunge che le condotte dell'imputato, ``in quanto poste in essere dal datore di lavoro all'interno del locale sotto la minaccia del licenziamento, in un'atmosfera di pesante promiscuità dove persino i nomi dati ai cocktail associati agli ordini dei clienti metteva in imbarazzo le sue dipendenti, non possono, alla luce delle considerazioni in precedenza svolte, che essere ricondotte al paradigma dell'art. 609-bis c.p. nella forma consumata e non tentata''.

    La n. 39762/2022 prende atto della ``credibilità della giovane dipendente, sia sotto il profilo soggettivo, avendo escluso un eventuale movente di natura economica, posto che la donna, la quale sarebbe stata assunta a tempo indeterminato, proprio a causa delle ripetute molestie sessuali subite dall'imputato decise di licenziarsi e quindi di perdere il posto di lavoro, sia sotto il profilo oggettivo, avendo reso dichiarazioni precise, puntuali e coerenti''.

    La n. 38168/2022 conferma la condanna per i reati di cui agli artt. 609-bis, comma 3, 61 n. 11, e 612-bis, 61 n. 11 c.p. commessi abusando della posizione di datore di lavoro in danno di una dipendente alla pena di anni cinque e mesi otto di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile con liquidazione di provvisionale. Osserva che: ``il giudice può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni''; ``tale controllo, considerato l'interesse di cui la persona offesa è naturalmente portatrice ed al fine di escludere che ciò possa comportare una qualsiasi interferenza sulla genuinità della deposizione testimoniale, debba essere condotto con la necessaria cautela, attraverso un esame particolarmente rigoroso e penetrante, che tenga conto anche degli altri elementi eventualmente emergenti dagli atti''; ``la valutazione circa l'attendibilità della persona offesa involge un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva del dichiarante e sulla attendibilità intrinseca del racconto, che si connota quale giudizio di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene al modo di essere della persona escussa'', ``tale giudizio può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria''.

    Nella n. 36544/2022, si riconosce alla dipendente una provvisionale ``in ragione del trauma psicologico che la giovane donna ha subito per effetto della condotta del datore di lavoro imputato, come dalia stessa dichiarato in sede di esame e come confermato nell'elaborato della dott.ssa su incarico della parte civile, ove si legge che successivamente al fatto la vittima ha manifestato uno stato d'ansia generalizzato, disturbi del sonno che non si erano mai verificati precedentemente in questa forma''.

    La n. 26947/2022 esamina un'ipotesi lieve di cui all'art. 609-bis, comma 3, c.p., con l'aggravante dell'abuso delle relazioni d'ufficio, ai danni di una dipendente inferiore in grado (in origine qualificata come ``ingiuria militare a un inferiore'').

    La n. 23835/2022 conferma la condanna per il reato continuato ed aggravato di cui all'art. 609-bis c.p., ``perché, abusando della prestazione d'opera con la vittima, la quale lavorava in qualità di barista presso lo chalet gestito dall'imputato, in più occasioni costringeva la predetta a subire atti sessuali''.

    In 20714/2022, la vittima di molestie sessuali da parte del datore di lavoro tenta il suicidio.

    La n. 14958/2022 conferma la condanna di un datore di lavoro per i reati di cui agli artt. 609-bis e 582 c.p., commessi ``con minaccia implicita consistita nel prometterle un contratto a tempo indeterminato se non avesse resistito al suo volere, nonché con violenza consistita nel giungere alle sue spalle mentre, terminato il lavoro, si stava cambiando d'abito''. E nega le attenuanti generiche: ``l'imputato ha compiuto la condotta illecita approfittando di una situazione lavorativa in cui egli si trovava in una posizione sovraordinata, essendo il datore di lavoro della persona offesa''.

    La n. 7279/2021 mette in luce che non si tratta di processi facili:

    - 9 febbraio 2016, il tribunale condanna il datore di lavoro per il reato di cui all'art. 609-bis c.p. commesso nel 2011 in danno di una dipendente, riconosciute le attenuanti generiche;

    - 6 marzo 2017, la corte d'appello conferma la condanna, con esclusione delle attenuanti generiche;

    - 12 settembre 2018: la Sez. III della Cassazione annulla la condanna per motivazione insufficiente circa la credibilità della dipendente;

    - 26 marzo 2019: in sede di rinvio, la corte d'appello conferma la condanna con esclusione delle attenuanti generiche;

    - 9 dicembre 2020: la Sez. IV conferma la condanna.

    In particolare, la Sez. IV si preoccupa di ``sgombrare il campo da ogni tentativo di introdurre nel giudizio parametri di valutazione improntati a stereotipate classificazioni della vittima di violenza sessuale, sulla base della sua reazione o del comportamento tenuto dalla stessa durante le fasi della violenza, ma anche prima e dopo di essa, che non si allinei a uno schema prestabilito e appaiono coerenti con lo spirito della Convenzione per la eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 (UN-CEDAW, Convention on Elimination of all forms of Discrimination Against Women, sottoscritta dall'Italia nel 1980 e ratificata nel 1985), con specifico riferimento all'art. 1 (che descrive il concetto di ``discriminazione contro le donne'' e i risvolti di essa anche sul piano del riconoscimento dei relativi diritti), ma anche all'art. 5, lett. a) [che riguarda specificamente la adozione, da parte degli Stati Parti, di tutte le misure appropriate a modificare i modelli sociali e culturali di condotta degli uomini e delle donne, al fine di raggiungere l'eliminazione dei pregiudizi e delle consuetudini e tutte le altre pratiche basate sull'idea di inferiorità o superiorità dei due sessi o ruoli stereotipati per uomini e donne]''. (Sul punto v. già Cass. 4 aprile 2019, n. 14917). In questo quadro, la Sez. IV sottolinea che la violenza o minaccia ``può sussistere anche in relazione ad una intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase esecutiva''.

    Una conferma si trae dalla n. 14855/21: condanna per il reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377, comma 3, c.p. ``in fattispecie di minaccia e violenza esercitata nei confronti di una dipendente di lavoro chiamata a deporre come testimone in altro processo per reati sessuali a carico dell'imputato con le lesioni prodottele''.

    Con riguardo al caso del direttore di un esercizio commerciale condannato per il reato di cui all'art. 609-bis c.p. per aver costretto la segretaria a subire atti sessuali, la n. 28837/2020 ne trae spunto per ricordare che le Sezioni Unite hanno risolto positivamente la questione ``se l'abuso di autorità di cui all'art. 609-bis, comma 1, c.p. presupponga nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o se, invece, si riferisca anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali''. A sua volta, la n. 29102/2020 si occupa di una misura cautelare degli arresti domiciliari disposta per il reato di violenza sessuale nei confronti del titolare di un salone di parrucchiere ``per aver in due distinte occasioni abusato nello svolgimento della sua attività delle condizioni di inferiorità psichica di una sua dipendente che aveva costretto a subire atti sessuali, contro la sua volontà, sfruttando la propria autorità di datore di lavoro''. Resta fermo, beninteso, quanto emerge dalla n. 29344/2020, ove si conferma la condanna del titolare di un bar per il reato di violenza sessuale commesso con abuso di relazioni di prestazione d'opera in danno di una dipendente con conseguente disturbo post traumatico da stress. Poi, la n. 23422/2020 esamina una violenza sessuale del gestore di un'agenzia immobiliare in danno di una dipendente. Si era accertato che ``la donna aveva accettato il lavoro presso l'agenzia immobiliare perché l'imputato, che ne era il titolare di fatto, era un appuntato dei carabinieri ed era amico del padre, lo considerava una persona per bene ed affidabile ed era rimasta impietrita dai suoi comportamenti''. L'imputato nega la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p. e contesta ``l'applicazione in malam partem della norma'', in quanto ``la Corte di cassazione aveva chiarito che, in tema di violenza sessuale, l'abuso di autorità presupponeva nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico che necessitava la prova della strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima era costretta a subire le molestie''. La Sez. III ribatte: ``In tema di circostanze aggravanti comuni, in relazione all'ipotesi di cui all'art. 61 n. 11 c.p., il termine `ufficio' cui fa riferimento la disposizione, va inteso tanto nel suo senso soggettivo, come esercizio di mansioni da parte dell'agente, quanto in senso oggettivo, come luogo in cui le stesse sono svolte. Le relazioni di ufficio possono consistere anche in rapporti di mero fatto, indipendentemente dalla qualificazione giuridica degli stessi''.

    Nel caso esaminato dalla n. 8337/2020, il datore di lavoro di una s.p.a. -condannato per il reato di violenza sessuale, ``perché, con più condotte esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante violenza costringeva due dipendenti a compiere e subire atti sessuali''- eccepisce, in particolare, per un verso, che ``una valutazione globale del fatto avrebbe dovuto condurre al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis, comma 3, c.p.'', e, dall'altro, che la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p. ``non sarebbe configurabile, difettando la condotta di approfittamento del rapporto di subordinazione, come affermato da Cass. 18 febbraio 1957, Li Vigni''. Al primo riguardo, la Sez. III afferma che, ``in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all'art. 609-bis, ultimo comma, c.p., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità''. E quale elemento ostativo, l'intenso grado di coercizione esercitato dall'imputato, nella veste di datore di lavoro, sulle vittime, entrambi giovani lavoratrici, di poco maggiorenni e assunte `in nero', e quindi sfruttando sia la loro giovane età, sia lo stato di bisogno in cui esse versavano, in quanto entrambe speravano di veder presto regolarizzata la propria posizione lavorativa, per commettere abusi particolarmente invasivi della sfera sessuale delle vittime''. Quanto all'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p., la Sez. III afferma che ``la relazione di prestazione d'opera corrisponde ad un concetto più ampio di quello di locazione d'opera a norma della legge civile e comprende ogni specie di attività, materiale ed intellettuale, che abbia dato luogo a quell'affidamento nel corso del quale si è verificata la condotta criminosa''. Spiega che ``l'abuso di relazioni di prestazioni d'opera è configurabile in presenza di rapporti giuridici, anche soltanto fondati sulla fiducia, che a qualunque titolo comportino un vero e proprio obbligo di facere, non rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza, o di un rapporto diretto e formale intercorrente tra l'autore del fatto e la persona offesa, ma essendo sufficiente che il soggetto agente abbia tratto illecito vantaggio da un rapporto d'opera. abusando della posizione che ne derivava''. Prende atto che, nel caso di specie, si è ``ravvisato l'abuso di prestazione d'opera derivante dal rapporto di lavoro, avendo l'imputato convocato presso il suo ufficio le giovani dipendenti al solo scopo di creare le condizioni per commettere gli abusi sessuali, approfittando del timore reverenziale ingenerato nelle vittime, che ha pregiudicato, come è successo, la pronta reazione delle vittime medesime''.

    Ancora, la n. 18067/2021, con riguardo alla circostanza attenuante di minore gravità di cui al comma 3 dell'art. 609-bis c.p., prende atto che è stata valorizzata, ``per escludere che vi sia stata una minima compromissione della libertà sessuale della vittima, la notevole intrusività dell'atto sessuale, con consumazione di un rapporto sessuale completo, perpetrato su una vittima giovane, posta in condizioni di privazione di ogni possibilità di difesa esterna perché condotta con inganno, dal suo datore di lavoro, persona su cui riponeva massima fiducia, in un luogo a lei non familiare''. Sottolinea che ``ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all'età, in modo da accertare che la libertà sessuale non sia stata compressa in maniera grave e che non sia stato arrecato alla vittima un danno grave, anche in termini psichici''. E precisa che, ``ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 609-bis c.p., non è richiesta la prova di un danno psichico, cosicché per escludere l'attenuante di cui al comma 3, non è necessario escludere la rilevante entità di tale danno, laddove per riconoscerne l'esistenza può invece rilevare la prova dell'inesistenza e/o della lievità del danno psichico''.

    Dal suo canto, la n. 9878/2020 affronta un'ipotesi di ``atti sessuali in forma tentata e consumata nell'ambito di una pubblica amministrazione''. A proposito della circostanza aggravante di cui all'art. 609-septies, comma 3, n. 3, c.p. (``se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle proprie funzioni''), la Sez. III prende atto che l'imputato ``risultava di fatto il `capo' dell'ufficio'' in cui la persona offesa prestava servizio. Ne desume ``un collegamento funzionale tra il ruolo ricoperto dall'imputato e le aggressioni da questo perpetrate, `ovvero che la commissione del reato sia stata agevolata e resa possibile dal potere inerente all'esercizio della funzione pubblica e dal rapporto particolare instauratosi tra lui e la vittima in relazione al servizio svolto', vittima vulnerabile per il metus nutrito nei suoi confronti, o comunque per la soggezione psicologica''. Ribadisce che ``la qualità di pubblico ufficiale o d'incaricato di pubblico servizio assume rilevanza ai fini della procedibilità d'ufficio non solo quando si pone in relazione diretta con la condotta criminosa, ciò che si verifica quando il reato è commesso nell'esercizio delle funzioni pubblicistiche, ma anche quando, pur collocandosi il comportamento criminoso fuori dall'esercizio di tali funzioni, abbia agevolato in modo diretto la commissione del reato'', e che ``la ratio della disposizione - analoga alla fattispecie di cui al precedente n. 4 del medesimo comma 4 dell'art. 609-septies (`se il fatto è commesso dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza') è quella di tutelare la parte offesa che, per il particolare rapporto con l'autore dell'abuso (congiunto o assimilato) ovvero per il ruolo di quest'ultimo (pubblico ufficiale o assimilato), possa avere una oggettiva remora a presentare tempestivamente la querela''. Ritiene, pertanto, ``necessario e sufficiente che la qualità di pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio abbia inciso nella commissione dell'abuso, nel senso che abbia avuto un'oggettiva rilevanza in termini di maggiore vulnerabilità della parte offesa per il metus o la soggezione psicologica riconducibili alla qualità suddetta''. Rileva che, nel caso di specie, ``le condotte delittuose erano state tenute esclusivamente sul luogo di lavoro, approfittando della condivisione dei medesimi limitati spazi e della posizione di supremazia, e la persona offesa aveva così maturato un sentimento effettivo di soggezione nei confronti dell'imputato''. La Sez. III esclude poi ogni ``contraddizione'' per il fatto che risultino applicate sia la circostanza aggravante di cui all'art. 609-septies, comma 3, n. 3, c.p., sia l'attenuante di cui all'art. 609-bis, comma 3, c.p. Spiega che tale attenuante ``è stata applicata in ragione delle modalità estrinseche delle condotte di reato, ossia dei comportamenti tenuti dall'imputato per violare la sfera sessuale della persona offesa'', e che ``ciò attiene ad un profilo diverso da quello coinvolgente la circostanza ex art. 609-septies, comma 4, n. 3), c.p., che attiene al rapporto tra autore del fatto, attività esercitata e vittima''.

    Nel caso esaminato dalla n. 14241/21, l'imputato, tratto in arresto in flagranza di reato, all'esito di giudizio abbreviato, viene condannato a quattro anni di reclusione, ``perché con violenza e minaccia, dopo avere aggredito la persona offesa alle spalle, mentre si trovava all'interno dell'abitazione dell'imputato per svolgere lavori domestici, la costringeva a subire atti sessuali fino a quando la donna riusciva a scappare dall'appartamento, procurandole lesioni personali, consistite in abrasioni ed ecchimosi da cui derivava una malattia della durata di cinque giorni''. La Sez. III osserva che, ai fini dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p., ``non è necessaria l'esistenza di un contratto d'opera definito nei suoli elementi, a, essendo dimostrato che la persona offesa si fosse recata nell'abitazione, ove sono avvenuti i fatti, dopo avere preso accordi con l'imputato per svolgere lavori domestici, tant'è che aveva portato con sé tutto l'occorrente. In tema di circostanze aggravanti comuni, la nozione di `abuso di relazioni di prestazione di opera' utilizzata dall'art. 61, comma 1, n. 11 c.p. ricomprende, oltre all'ipotesi del contratto di lavoro, tutti i rapporti giuridici che comportino l'obbligo di un `facere' e che, comunque, instaurino tra le parti un rapporto di fiducia che possa agevolare la commissione del fatto, ed è configurabile in presenza di rapporti giuridici anche soltanto fondati sulla fiducia, che a qualunque titolo comportino un vero e proprio obbligo di `facere', purché si tratti di rapporti lecitamente instaurati, ai quali segua la consumazione del reato, facilitata dal rapporto fiduciario già esistente''. Ritiene, invece, che ``la circostanza aggravante di cui all'art. 609-ter, comma 1, n. 4, c.p. non può conseguire dal solo fatto di essere avvenuta, la violenza sessuale, in una abitazione angusta, ma occorre indagare sulla ricorrenza di un quid pluris, diversamente opinando, tutte le violenze sessuali commesse in abitazione sarebbero, per ciò solo, aggravate''.

    Utile anche il chiarimento dato dalla n. 8213/2021: ``In tema di reati sessuali, la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio assume rilevanza, ai fini della procedibilità di ufficio, ai sensi dell'art. 609-septies, comma 4, n. 3, c.p., non solo quando si pone in diretta relazione con la condotta criminosa, ma anche nei casi in cui, pur collocandosi il comportamento illecito fuori dall'esercizio delle funzioni, la posizione pubblicistica del colpevole abbia agevolato la commissione dell'abuso, rendendo la persona offesa maggiormente vulnerabile per il metus o per la soggezione psicologica derivante dalle funzioni esercitate E la richiamata soggezione psicologica è configurabile anche nel caso in cui sia l'imputato sia la persona offesa abbiano la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ma il primo si trovi in posizione sovraordinata rispetto alla seconda''.

    Inusuale la vicenda affrontata dalla n. 13815/2021, che conferma la condanna per condotte di violenza sessuale nell'ambito di una comunità operante sotto la guida anche ``esistenziale'' dell'imputato. Una notazione è che, ``tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti ai sensi dell'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una condizione di particolare vulnerabilità della vittima, indipendentemente dall'esistenza di patologie mentali (non richieste dalla disposizione), dunque anche quelle determinate da credenze esoteriche, mistiche, spirituali o religiose, comunque in grado di suggestionare fortemente la persona offesa, in quanto anche tali credenze possono suggestionare fortemente la persona offesa e determinarne una posizione di particolare vulnerabilità, al punto da indurre a credere di dover aderire o soggiacere ad atti sessuali per superare o liberarsi da situazioni negative, anche superando una forte sensazione di disagio; la capacità di condizionamento derivante da questo tipo di credenze od orientamenti spirituali è, poi, ancora più marcata quando la suggestione è esercitata attraverso un'attività sottile e subdola protratta continuativamente nel tempo, che si innesta su situazioni di debolezza psichica, culturale o sociale, o su un vissuto personale inteso come particolarmente negativo''.

    Infine, la sentenza n. 10464/2020 conferma la misura cautelare degli arresti domiciliari con riferimento al reato di violenza sessuale continuata nei confronti di una collega. E in particolare afferma ``il principio per cui in tema di violenza sessuale, l'attenuante speciale della minore gravità, di cui all'art. 609-bis, comma 3. c.p. non può essere concessa quando gli abusi in danno della vittima sono stati reiterati nel tempo''.

    (V., per ulteriori storie di analogo segno, Cass. 20 gennaio 2023 n. 2343; Cass. 28 dicembre 2022 n. 49301, relativa a violenza sessuale di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni nei confronti di un’addetta alla mensa; Cass. 13 dicembre 2022 n. 47052 su violenza in danno di una donna in cerca di lavoro; Cass. 13 dicembre 2022 n. 47041 e Cass. 14 settembre 2022 n. 33762, rispettivamente vittime una rumena durante il lavoro e una sedicenne in prova presso pizzerie; su Cass. 10 marzo 2021, n. 9395; Cass. 8 marzo 2021, n. 9146; Cass. 13 gennaio 2021, n. 1121; Cass. 29 dicembre 2020, n. 37597; Cass. 6 novembre 2020, n. 30922; Cass. 3 novembre 2020, n. 30623; Cass. 26 ottobre 2020, n. 29569; Cass. 17 luglio 2020, n. 21367; Cass. 29 maggio 2020, n. 16466; Cass. 28 febbraio 2020, n. 7234; Cass. 24 febbraio 2020, n. 7213; Cass. 19 febbraio 2020, n. 6504; Cass. 21 gennaio 2020, n. 2214; Cass. 21 gennaio 2020, n. 2201; Cass. 21 gennaio 2020, n. 2197; Cass. 7 gennaio 2020, n. 144. Nel caso esaminato da Cass. 30 luglio 2020, n. 23206, la Sez. III annulla con rinvio la condanna per molestie in danno di una collaboratrice domestica straniera stante l'esigenza di ``motivare con scrupoloso rigore sull'attendibilità della vittima''. A sua volta, Cass. 16 marzo 2020, n. 10096 conferma la condanna di un datore di lavoro per molestie sessuali in danno di un dipendente con abuso delle sue condizioni d'inferiorità psichica, mentre Cass. 10 marzo 2020, n. 9575 conferma la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un datore di lavoro accusato anche di violenza sessuale su un dipendente. Su un caso di condanna della denunciante Cass. 5 luglio 2023 n. 29027, e su un’ipotesi di discussa falsa testimonianza resa in causa civile Cass. 29 novembre 2022 n. 45407).

    Sia Inail e Inps, sia ILO e European Agency for Safety and Healt at Work, hanno richiamato l'attenzione sull'esigenza di valutare i rischi e intraprendere azioni appropriate sul posto di lavoro in modo che i lavoratori possano far fronte alle alte temperature. Generalmente trascurate sono le indicazioni giurisprudenziali:

    Un lavoratore muore per un colpo di calore mentre raccoglieva angurie nelle ore centrali di un giorno in cui vi era una temperatura esterna molto elevata ed un alto tasso di umidità. Il Tribunale di Siracusa assolve il datore di lavoro, imputato del delitto di omicidio colposo, in quanto ``non vi era nesso di causalità tra la condotta colposa contestata all'imputato e l'evento non essendo stato provato che l'osservanza della normativa avrebbe evitato l'evento''. Per contro, la Corte d'Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, concesse le attenuanti generiche, dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato ascritto estinto per prescrizione, e lo condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita. A sua discolpa, l'imputato sostiene che ``non poteva farsi carico al datore di lavoro dell'omissione di un'attività, la sospensione del lavoro, che non gli era imposta da alcuna norma e che non poteva costituire elemento di colpa generica, quale condotta negligente ed imprudente, il rischio specifico connesso alla attività svolta di raccolta delle angurie in determinate condizioni climatiche'', ``rischio non prevedibile''. La Sez. IV non è d'accordo. Rileva che ``la corte di appello ha ritenuto addebitabile all'imputato la morte del lavoratore in quanto ha osservato che la raccolta delle angurie nella situazione ambientale accertata era di certo attività lavorativa faticosa'', e, pertanto, che ``ad essa era connesso un rischio per la salute che era da considerare prevedibile dal datore di lavoro''. Osserva che il datore di lavoro ``era in colpa perché, pur dovendo tutelare l'integrità fisica del suo dipendente, non aveva valutato il rischio cui era esposto il lavoratore, tenuto anche conto della sua corporatura che influiva sull'eliminazione del calore in eccesso, e lo aveva fatto lavorare nelle condizioni rilevate''. Aggiunge che l'imputato ``aveva il dovere di sottoporre il lavoratore a visita medica per controllare che fosse idoneo a svolgere un lavoro faticoso al sole in estate e di informare quest'ultimo dei rischi cui era esposto''.

    A suo modo sorprendente:

    La Sez. IV annulla perché il fatto non costituisce reato la condanna del legale rappresentante di una s.r.l. per omicidio colposo per aver cagionato la morte di un dipendente adibito in un cantiere al riempimento con pietre del cono centrale di un trullo in ristrutturazione. Colpa contestata: ``mancata vigilanza sull'utilizzo del copricapo da parte del lavoratore'' e ``omessa organizzazione dell'attività lavorativa con modalità tali da evitare l'esposizione dei lavoratori a condizioni meteorologiche tali da metterne in pericolo la salute individuale'', ``così ponendo in essere gli antecedenti causali della morte per collasso delle funzioni cardiorespiratorie, derivante da colpo di calore''. Nell'esaminare il secondo addebito, la Sez. IV si chiede se ``il non avere impedito all'operaio di lavorare nelle ore più calde della giornata e, particolarmente, nel primo pomeriggio quando la temperatura raggiungeva i 34 gradi centigradi'' possa, o no, integrare una colpa generica a carico del datore di lavoro. Ritiene che, ``per elidere la vaghezza di un simile norma comportamentale, tenendo presente la pluralità dei fattori che determinano la condizione meteorologica sfavorevole, non dipendente solo dalla temperatura (o, per ipotesi, dalla presenza di precipitazioni), ma anche dal vento, dall'umidità dell'aria, dalla tipologia dell'area interessata, occorre che, in concreto, il datore di lavoro possa riferirsi ad un quadro meteorologico valutato in modo tecnico e non empirico ed individualistico, che tenga conto dei fattori generali e di quelli specifici e che sia sintetizzato in una previsione che, laddove determinati valori soglia siano superati in quel preciso contesto territoriale, implichi il rispetto di una serie di raccomandazioni generali impartite dall'autorità competente sul comportamento da tenere in simili condizioni climatiche''. Aggiunge che ``agevola l'individuazione del contenuto della regola cautelare il riferimento alle situazioni di `allerta meteo' del dipartimento della protezione civile, ma possono essere tenute in considerazione anche altre forme di allertamento, eventualmente locale, con cui venga reso noto che una determinata condizione climatica prevista potrà comportare problemi per la salute''. Esclude che, nel caso di specie, ``ciò trovi un riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto trovi aggancio in una condizione di allerta meteorologica giustificante l'astensione dalle attività fisiche e lavorative all'aperto''. E giunge ad asserire che, stando alla tesi sostenuta nella sentenza impugnata, ``si dovrebbe affermare che in tutta la zona meridionale del Paese durante la stagione estiva è interdetta, in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno sforzo fisico all'aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il che è pacificamente contraddetto dai risultati dell'esperienza''. (Quanto all'altro addebito relativo alla mancata vigilanza sull'uso del copricapo da parte del lavoratore, v. questa stessa sentenza sub art. 18, paragrafo 5; circa il vento come fattore che ``può contribuire a rendere ancor più pericoloso il lavoro in quota e dunque costituire ulteriore elemento che avrebbe dovuto indurre all'adozione delle necessarie cautele di sicurezza'' Cass. 30 aprile 2020, n. 13494).

    Particolarmente lucida in merito allo stress termico Cass. pen. 9 agosto 2022 n. 30789, sub art. 96, paragrafo 6. Per contro, un decesso per colpo di calore non fu attribuito a colpa del datore di lavoro nell'ipotesi esaminata da:

    La Sez. IV conferma l'assoluzione dei datori di lavoro di un'azienda agricola dal reato di omicidio colposo in danno di un bracciante agricolo intento a prelevare da terra cassette di frutta e a trasportarle su pedane ai lati di un vigneto e colpito da iperpiressia da colpo di calore con decesso dopo 34 giorni di degenza ospedaliera: ``Gli accertamenti tossicologici mettevano in luce la presenza di paracetamolo nelle urine in quantità tale da far ipotizzare che nei giorni precedenti vi fosse stata una massiva assunzione di tale sostanza in ragione dei suoi tempi di dimezzamento per la presenza di uno stato febbrile intercorrente, sicché veniva formulata l'ipotesi che lo stato febbrile, ignoto al datore di lavoro, fosse una condizione favorente nel determinismo del colpo di calore''. ``La Corte d'Appello ha ritenuto congrue le previsioni del DVR adottato dalla ditta rispetto alle mansioni svolte dai braccianti agricoli occupati nel vigneto, indicando adeguate misure di miglioramento delle condizioni ambientali di rischio, ovvero limitare i tempi di esposizione a fattori micro e macroclimatici sfavorevoli, ivi compresi i consigli che i lavoratori devono seguire nei periodi caldi, dotare i lavoratori di adeguati indumenti di lavoro ed apprestare idonei locali o ripari per il ristoro degli addetti. In punto di mancata adozione da parte dei datori di lavoro dei provvedimenti necessari in materia di primo soccorso ed assistenza medica, la sentenza impugnata ha evidenziato che fino alle 12 era stato presente sul posto il soggetto deputato in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza e che essendosi allontanato dal vigneto alle ore 12 per raggiungere altro fondo è stato sostituito dal preposto a controllare il lavoro dei braccianti per quel giorno, intervenuto tempestivamente a soccorrere il lavoratore. Inoltre, il lavoratore veniva accompagnato in auto dai colleghi di lavoro in modo da assicurare un intervento ancor più tempestivo. La Corte d'Appello ha ritenuto coerenti con le risultanze istruttorie e pienamente condivisibili le valutazioni del primo giudice in ordine all'assenza di profili di colpa generica o specifica ascrivibili ai datori di lavoro ed etiologicamente rilevanti rispetto al colpo di calore che colpiva il lavoratore''. (Quanto al profilo attinente al rischio della movimentazione manuale dei carichi v. questa stessa sentenza sub art. 168, paragrafo 1).

    ``Il sisma del 6 aprile 2009 all'Aquila è stato, motivatamente, ritenuto non imprevedibile né eccezionale. I terremoti di massima intensità sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come eventi eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente qualificate come sismiche. Recentemente, è stata esclusa la natura eccezionale ed imprevedibile del terremoto ove verificatosi in zona qualificata a rischio. Peraltro, una lontana pronunzia della S.C. si esprime nel senso della non imprevedibilità né eccezionalità del verificarsi di un terremoto ai fini della valutazione del corretto agire di progettisti, costruttori e direttori dei lavori persino ove i lavori siano effettuati in zone non dichiarate sismiche (Cass. n. 17492 del 18 dicembre 1990, Magliacane)''.

    ``In tema di causalità, un sisma non costituisce di per sé causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento in quanto i terremoti di massima intensità sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come eventi eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente qualificate come sismiche. Nel caso di specie, la zona de L'Aquila è notoriamente a rischio sismico, pertanto la possibilità del sopravvenire di scosse di terremoto non poteva considerarsi una circostanza imprevedibile''.

    ``Non è in discussione la prevedibilità del sisma che si verificò il 6 aprile 2009, la giurisprudenza di questa Corte è sul punto ben consolidata''.

    Con riguardo al crollo di un palazzo all'Aquila, esclude ``la natura eccezionale ed imprevedibile del rischio sismico, nel contesto storico di riferimento di cui si tratta''.

    ``Già da tempo la giurisprudenza di questa corte ha chiarito come i terremoti, anche di rilevante intensità, siano da considerare alla stregua di eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possano essere giudicati come accadimenti eccezionali e imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente classificate come sismiche. È dunque possibile formulare il principio secondo cui la regola cautelare, fondata sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento, ha riguardo ai casi in cui la verificazione di questo, in presenza della condotta colposa, può ritenersi, se non certa, quanto meno possibile sulla base di elementi d'indagine dotati di adeguata concretezza e affidabilità, sia pure solo di consistenza empirica e non scientifica. Essa, invece, non può essere individuata sulla scorta del principio di precauzione, che ha riguardo ai casi per i quali si è rimasti a livello del `sospetto' che, in presenza di certi presupposti, possano verificarsi effetti negativi (in particolare sulla salute dell'uomo) - e dunque quando manchi in senso assoluto una possibile spiegazione dei meccanismi causali o non si disponga di concreti elementi d'indagine (sia pure di consistenza empirica e non scientifica) ido-nei a formulare attendibili e concrete previsioni circa il ricorso di eventuali connessioni causali tra la condotta sospetta e gli eventi lesivi''. ``Occorrerà verificare se lo svolgimento causale fosse tra quelli presi in considerazione dalla regola violata, tenendo pur sempre conto di come, anche sotto il profilo causale, la necessaria prevedibilità dell'evento non possa estendersi fino al punto di ricomprendere la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, dovendo necessariamente circoscriversi alla classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca. Già in altre occasioni, la Corte di cassazione (Sez. IV, n. 39606 del 28 giugno 2007) ha avuto modo di considerare come la descrizione dell'evento non possa discendere oltre un determinato livello di dettaglio, dovendo mantenere un certo grado di categorialità; giacché un fatto descritto in tutti i suoi accidentali ragguagli diviene sempre, inevitabilmente, unico ed in quanto tale irripetibile e imprevedibile''.

    ``Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che i terremoti, anche di rilevante intensità, sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come accadimenti eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente classificate come sismiche. Tale responsabile approccio, improntato a speciale prudenza e accurata attenzione agli aspetti tecnico-scientifici ed alle informazioni e direttive che ne giungono, va qui ribadito. Va solo aggiunto che qualunque valutazione in tale delicata materia va naturalmente rapportata anche a ciascuna peculiare situazione concreta; e di ciò pure il giudice è chiamato a tener conto, come sempre è del resto richiesto nella delicata valutazione sulla colpa. Si vuol dire che la adeguatezza del comportamento dell'agente chiamato a gestire il rischio sismico andrà in ogni caso rapportato alle caratteristiche dell'edificio, alla sua utilizzazione, alle informazioni scientifiche, specifiche e di contesto, disponibili in ordine alla possibilità o probabilità di verificazione di eventi dirompenti. Insomma, riassuntivamente, si tratterà di valutare tutte le contingenze proprie del caso concreto. Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito si sono correttamente diffusi nel sottolineare che si era in area a discreto rischio sismico, che uno sciame sismico si protraeva da tempo con incalzante intensità e che, soprattutto, nella tragica notte già due violentissime scosse avevano suscitato speciale allarme e fondate preoccupazioni nei giovani allievi ospiti del fatiscente convitto: si tratta di aspetto di speciale rilievo nel caso in esame. In tale quadro, le deduzioni difensive che evocano le non meglio chiarite rassicurazioni fornite da alcuno non colgono nel segno. In primo luogo l'indicazione è generica. Non si chiarisce quale veste istituzionale rivestisse il soggetto da cui provenivano le indicate rassicurazioni; e, soprattutto, non si colloca tale dato nella complessiva informazione scientifica ed operativa afferente alla gestione della difficile situazione nella quale si trovava la comunità locale. Si vuol dire che nessuna menzione viene fatta ad indicazioni ufficiali o, comunque, a direttive univoche e non controverse dalle quali potesse trarsi l'affidabile previsione che un evento importante non si sarebbe verificato. E d'altra parte non manca di logicità e ragionevole persuasività la considerazione della Corte di merito che in quella temperie ed ancor più nella memorabile notte, di fronte alle sensate paure ed alle richieste dei giovani, occorresse assumere iniziative atte ad escludere il rischio, allontanando tutte le persone dalla fonte di pericolo''.

    La Sez. IV sottolinea che ``la previsione da porre a fondamento della colpa, nel caso di disastro come nel caso di omicidio o di lesioni colpose, riguarda l'evento crollo di edifici, l'evento morte o l'evento lesioni'', e che ``la individuazione esatta dello strumento che realizzerà l'evento addebitabile a titolo di colpa non è elemento costitutivo necessario della colpa medesima''. Raccomanda, in particolare, di evitare ``l'errore prospettico di scambiare la imprevedibilità delle caratteristiche concrete di uno tra i fattori causali individuati, con la imprevedibilità dell'evento: una costruzione innalzata con numerosi vizi che incidono sulla stabilità dell'edificato è prevedibilmente esposta a pericolo di crollo (e ai conseguenti effetti negativi derivati) senza necessità di previsione iniziale che vada a indovinare (salvo il caso di violazione che riguardi esclusivamente cautele antisismiche e riguardi una causa dell'evento esclusivamente sismica) il fattore concausale che produrrà l'evento da evitarsi secondo le cautele di legge''. Pone in risalto che ``i terremoti di massima intensità sono eventi che, anche ove si propongano con scadenze che eccedono una memoria rapportata alla durata di molte generazioni umane, rientrano nelle normali vicende del suolo, e, certamente, non possono essere qualificati eccezionali o imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico o in zone formalmente qualificate come sismiche''. Inoltre, chiarisce che ``il giudizio di prevedibilità, in relazione al suo carattere predittivo, se pure si radica nella memoria del passato, di più si proietta sul piano della rappresentazione del futuro, ma proprio nel passato, e nelle già formalizzate classificazioni di varia probabilità sismica, trova certezza prospettica della previsione di una possibilità irrecusabile sul piano logico''. ``Quanto al versante soggettivo della prevedibilità che riguarda il processo cognitivo del soggetto chiamato a rispondere della sua omissione'', nota che, nel caso di specie, ``doveva essere accertato se gli imputati, secondo una valutazione ex ante, fossero in grado di conoscere le conseguenze delle loro omissioni (o, in caso di condotte commissive, delle loro azioni)''. E prende atto che la corte d'appello ``ha correlato le cautele imposte per altre precedenti sopraelevazioni nello stesso abitato, al consolidamento (anche particolarmente accurato) di altro edificio dello stesso plesso scolastico, disposto poco tempo prima della sopraelevazione dalla stessa amministrazione comunale, con lo stesso tecnico comunale e affidato a ditta appaltatrice che pure operava per la sopraelevazione dell'altro edificio non consolidato, al mancato apprestamento e alla mancata consegna di tutta la documentazione tecnica condizionante la buona esecuzione dei lavori e condizionante il successivo utilizzo del manufatto, alla cattiva esecuzione dei lavori di sopraelevazione, per poi individuare l'ampia conoscenza da parte degli imputati dell'intero contesto e della prevedibilità (secondo le capacità di comprensione di un uomo ordinario)'': ``prevedibilità bene ancorata all'accertamento di una conosciuta debolezza statica legata alla cattiva sopraedificazione, che di per sé concretamente si proponeva come fonte di danno''. E conclude che ``un tale giudizio di prevedibilità è ragionevolmente esteso agli eventi seguiti alle condotte attive che consentirono l'utilizzo di un edificio altrimenti non `agibile'''.

    Un caso di basso rischio sismico è considerato da:

    Sequestro preventivo di un edificio scolastico disposto dal GIP e revocato dal tribunale del riesame nell'ambito di un procedimento penale a carico di un sindaco per il reato di cui all'art. 328 c.p. con l'addebito di ``avere indebitamente rifiutato un atto del proprio ufficio, omettendo di chiudere l'edificio nonostante dal certificato di idoneità statica dell'immobile ne emergesse la non idoneità sismica''.

    Nell'annullare l'ordinanza del tribunale del riesame, la Sez. VI prende atto che il tribunale del riesame ha escluso l'aggravamento delle conseguenze del reato di omissione di atti di ufficio ``in ragione della bassa sismicità della zona e del rilevato minimo scostamento dai parametri tecnici della tecnica di edificazione dell'immobile''. Osserva che, ``in materia di sequestro preventivo, ove venga in considerazione il pericolo di aggravamento del reato con riguardo al perdurante utilizzo di un immobile pubblico la cui realizzazione sia soggetta al rispetto di normativa antisismica, la nozione di concreta possibilità del pericolo, che va scrutinata in ragione della natura del bene e di tutte le circostanze che connotino il fatto, è insita nella violazione della normativa dì settore''. Spiega che ``nel carattere non prevedibile dei terremoti la regola tecnica di edificazione è ispirata alla finalità di contenimento del rischio di verificazione dell'evento'', e che ``il rischio, apprezzato in chiave generale su tutto il territorio nazionale, classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della percentuale di esposizione all'evento sismico, si traduce nella mappatura dell'intero patrimonio immobiliare con attribuzione alle singole costruzioni di un indicatore del `rischio di collasso', calcolato in ragione dell'esposizione al rischio sismico di zona''. Aggiunge che ``la inosservanza della regola tecnica di edificazione proporzionata al rischio sismico di zona, anche ove quest'ultimo si attesti su percentuali basse di verificabilità, integra pur sempre la violazione di una norma di aggravamento del pericolo e come tale va indagata e rileva ai fini dell'applicabilità del sequestro preventivo''. (Per contro, nell'ipotesi considerata da Cass. 7 marzo 2018 n. 10446, la Sez. VI ha confermato il diniego del sequestro preventivo di un edificio scolastico richiesto per ragioni di sicurezza sismica dal P.M. in rapporto ai reati di cui agli artt. 328 e 677 c.p. contestati al sindaco e al responsabile del settore urbanistica, lavori pubblici e manutenzione di un comune).

    Nel novero dei rischi da valutare anche a tutela della sicurezza sul lavoro si collocano quegli eventi calamitosi che sconvolgono gli ambienti di vita, ma che possono interessare gli stessi ambienti di lavoro. In proposito, peraltro, v.:

    ``Il processo ha accertato che l'esondazione del fiume era stata concausata dalla rottura dell'argine (e dal suo scorretto ripristino) avvenuto `in occasione' della esecuzione dell'opera. Pertanto, del tutto correttamente la Corte d'Appello ha rettificato l'erroneo rinvio, per superare l'argomento difensivo che faceva leva sulla presenza di concorrenti figure di `garanti della sicurezza sul lavoro', alla normativa antinfortunistica. Sul punto, pare sufficiente un rinvio ai principi affermati, anche di recente, da questa Sezione penale, per ribadire che, perché trovi applicazione la disciplina di cui al D.Lgs. n. 81/2008, deve soccorrere il necessario presupposto dello specifico rischio lavorativo, quello cioè di un nocumento del lavoratore in conseguenza dell'attività lavorativa espletata o del terzo che si trovi in analoga situazione di esposizione, non essendo sufficiente la sussistenza di un generico rischio connesso all'esercizio di attività pericolose, il primo avendo un più ampio spettro preventivo (Sez. IV, 6 settembre 2021 n. 32899, in cui, in applicazione di tale principio, la Corte - nel procedimento relativo agli omicidi colposi ascritti per le morti verificatesi nel disastro ferroviario di Viareggio a causa della non corretta esecuzione della revisione dell'assile del carro merci trasportante GPL, deragliato, ribaltatosi e poi esploso per il cedimento di tale assile dovuto al suo stato di corrosione - ha ritenuto non configurabile la circostanza aggravante del `fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' a carico dell'amministratore delegato della società proprietaria dell'officina che aveva materialmente eseguito tale revisione, pur ritenendo l'attività di manutenzione dei carri pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c.)''. (Circa la sentenza n. 32899/2021 v. sub art. 3, paragrafo 6).

    Da leggere comunque:

    Tra le molteplici indicazioni fornite dalle 227 pagine che compongono la presente sentenza, relativa all'esondazione del Rio Fereggiano del 4 novembre 2011 a Genova in seguito a piogge eccezionalmente intense e concentrate sul territorio con morte di sei persone e lesioni ad altre due, fa spicco, in particolare, l'analisi dedicata alla prevedibilità dell'evento in caso di gravi calamità, intesa nella specie come prevedibilità che le attese precipitazioni assumessero un carattere tale da provocare l'esondazione del Rio Fereggiano.

    La Sez. IV prende le mosse da quattro precedenti altamente significativi: Cass. 6 febbraio 2007 (in ISL, 2007, 4, 218), attinente al ``disastro interno'' allo stabilimento del Petrolchimico di Marghera con esiti patologici e mortali dell'esposizione a cloruro di vinile monomero di operai del complesso industriale veneto, e al ``disastro esterno riferito alla situazione di inquinamento ambientale dei siti su cui insiste il petrolchimico, di quelli prossimi nonché delle falde acquifere, delle acque lagunari e dell'atmosfera''; Cass. 3 maggio 2010 (ibid., 2010, 10, 536), riguardante le colate di fango che nel 1998 investirono gli abitanti di diversi comuni causando a Sarno la morte di 137 persone; Cass. 1° luglio 2010 (ibid., 2010, 8-9, 477), sul crollo della scuola di San Giuliano di Puglia il 31 ottobre 2002 in concomitanza con una scossa di terremoto, con morte di 27 bambini e di una maestra e lesioni a 39 persone, tra bambini, insegnanti, operatori scolastici; Cass. 24 marzo 2016 n. 12478 (riportata nell'e-book Guariniello, I terremoti: obblighi e responsabilità. Gli insegnamenti della Cassazione, Wolters Kluver, 2016, 32), che conferma la condanna del vice capo settore tecnico operativo del dipartimento nazionale della protezione civile per i reati di omicidio e lesioni in relazione al terremoto dell'Aquila del 6 aprile 2009. Quanto alla prevedibilità, la Sez. IV ritiene che ``il principio, affermato per i fatti di Sarno, secondo cui occorre prevedere che fenomeni ricorrenti e già realizzatisi in passato possano avere conseguenze anche peggiori rispetto a quelle già viste e pertanto occorre approntare delle strategie per rispondere a quelle in termini di prevenzione del danno, vada riconfermato, ma vada ricondotto a canoni di ragionevole prevedibilità e probabilità ex ante''. Ne ricava, ``quanto agli eventi naturali o alle calamità che si sviluppino progressivamente'', che ``il giudizio di prevedibilità deve tener conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi, ma valutando altresì se possa essere esclusa in termini di ragionevole prevedibilità - ovvero, il che è lo stesso, di plausibilità razionale rispetto alla regola cautelare e ai dati di conoscenza del territorio - la possibilità che questi eventi possano avere dimensioni e caratteristiche più gravi''. Spiega che ``la valutazione della prevedibilità ha sempre caratteristiche predittive, quindi da adottare con un giudizio a priori, sul quale ciò che è avvenuto in passato costituisce un elemento di conoscenza rilevantissimo ed ineliminabile, ma che non può prescindere dalla valutazione su che cosa può avvenire in futuro, a meno che le caratteristiche del fenomeno non siano da sole idonee a fondare un giudizio di esclusione di più gravi conseguenze''. Sottolinea, quindi, che ``l'agente modello non è quello che si adagia sulle esperienze precedenti senza che esistano elementi di conoscenza che consentano di escludere che i fenomeni possano avere carattere di maggiore gravità'', ma ``è quello che è in grado di ipotizzare, entro limiti ragionevoli, le conseguenze più gravi di un fenomeno pur ricorrente''. Rileva che ``tale valutazione andrà fatta caso per caso'', ma che, ``a voler esemplificare di cosa si stia parlando può riferirsi, ad esempio, alla ragionevole prevedibilità che la frequente esondazione di un torrente possa interessare aree più ampie di quelle che ha interessato in passato, ma non certamente che coinvolga l'intera città'', ``oppure che un fenomeno che in passato ha provocato solo lievi smottamenti della strada possa in futuro provocare anche una più ampia frana, ma non certamente il venir giù dell'intera montagna''. In questa ottica, disattende la tesi difensiva del ``tempo di ritorno'': ``L'esondazione del Rio Fereggiano ha in realtà prodotto quanto era assolutamente ragionevolmente prevedibile e probabile che producesse, a fronte di precipitazioni piovose che non solo erano prevedibili, ma che nello specifico erano state chiaramente previste, ancorché non specificamente localizzate. E a fronte di quelle e della inesigibile condotta di inibire il traffico veicolare e la sosta su tutto il territorio cittadino e della pur legittima opzione di non chiudere preventivamente le scuole, andava approntato un sistema di vigilanza e di pronto intervento sul territorio, atto a scattare al concretizzarsi dell'emergenza, che non c'è stato''.

    Alle considerazioni di questa sentenza sulla prevedibilità si richiama Cass. 23 ottobre 2020 n. 29439 che dichiara prescritto il reato di omicidio colposo plurimo contestato a un sindaco in seguito all'esondazione di un torrente e al decesso di due occupanti un'autovettura travolta dalla massa d'acqua, ma ne respinge il ricorso agli effetti civili. Invece, Cass. 12 aprile 2019 n. 16029 esclude che fosse prevedibile che il 1° ottobre 2009 due centri della zona di Messina ``venissero interessati da imponenti movimenti detritici in occasione di intense precipitazioni'', e che ``fosse possibile prefigurarsi con tratti di adeguata concretezza, l'effetto distruttivo che da queste ultime sarebbe promanato per le persone e per le cose lì presenti'': ``il tenore generico degli avvisi di protezione civile, che non lasciava prevedere quanto poi sarebbe accaduto, la velocità con la quale le piogge si erano intensificate (secondo un fenomeno di `autogenerazione' di cui hanno parlato i meteorologi) rispetto ad un momento iniziale sicuramente non allarmante, l'inesistenza di qualsivoglia prescrizione di attività operative di protezione civile conseguenti al segnalato stato di `preallerta', portano ad escludere ogni responsabilità colposa degli imputati (due sindaci) per esclusione della prevedibilità dell'evento, e ciò ancor prima ed a prescindere dalle valutazioni circa il momento e le modalità della acquisita consapevolezza da parte dei sindaci della tragicità della situazione solo allorquando la stessa era ormai precipitata''. Dal suo canto, Cass. 29 agosto 2018 n. 39124 si occupa di una colata detritica torrentizia staccatasi in concomitanza con intensi rovesci a carattere temporalesco che aveva provocato il crollo di una parte dell'opera di contenimento frontale della vasca appositamente costruita per fronteggiare simili fenomeni e aveva raggiunto poi la frazione di un comune provocando la morte di due persone nonché danni ingenti all'abitato e alla popolazione, e asserisce che ``anche a volere ammettere errori valutativi in ordine al carattere prevedibile o meno dell'evento verificatosi, tali errori ricadono sul Comitato di esperti e non possono essere addebitati ai progettisti della vasca provvisoria''. Quanto alla prevedibilità di una frana v. Cass. n. 58349 del 20 dicembre 2018, riportata sub art. 61, paragrafo 31.

    La Sez. III conferma la condanna di un datore di lavoro per la ``contravvenzione prevista dall'art. 29, comma 1, e punita dall'art. 55, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, perché non effettuava la valutazione dei rischi e non elaborava il documento di cui all'art. 17, comma 1, lettera a), dello stesso D.Lgs., in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente, nei casi previsti dal successivo art. 41''.

    La Sez. III osserva che ``l'art. 306, D.Lgs. n. 81/2008, come modificato dall'art. 4, comma 2-bis, D.L. n. 97/2008, convertito in legge n. 129/2008, stabilisce, al comma 2, che le disposizioni di cui agli artt. 17, comma 1, lettera a), e 28, nonché le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie, previste dal presente decreto, diventano efficaci a decorrere dal 18 gennaio 2009; fino a tale data continuano a trovare applicazione le disposizioni previgenti''. Rileva che, ``in particolare il D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, nel disciplinare gli obblighi del datore di lavoro, prevedeva all'art. 4, comma 2, che il datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, valutasse tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, e all'esito di tale valutazione elaborasse un documento contenente una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella quale sono specificati i criteri adottati per la valutazione stessa; l'individuazione delle misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale, conseguente alla valutazione suddetta; il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza; documento questo che doveva essere custodito presso l'azienda ovvero l'unità produttiva''; e che ``l'art. 89 dello stesso D.Lgs. n. 626/1994 ha poi previsto che il datore di lavoro è punito con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da lire tre milioni a otto milioni per la violazione, tra le altre norme, dell'art. 4, commi 2, cit.''. Precisa poi - delucidazione di particolare rilievo - che ``l'art. 55, D.Lgs. n. 81/2008 contempla, per la violazione dell'art. 29, comma 1 (mancata redazione del documento di valutazione dei rischi), la più grave pena dell'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da 2.500 a 6.400''. Ne trae che, nel caso di specie, all'epoca del fatto contestato al datore di lavoro imputato (12 novembre 2008), l'art. 17, D.Lgs. n. 81/2008 non era ancora entrato in vigore e quindi occorre considerare la sanzione prevista dall'art. 89, D.Lgs. n. 626/1994''.

    ``Il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l'evento lesivo non può essere desunto soltanto dall'omessa previsione del rischio nel documento, dovendo tale rapporto essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell'omissione all'evento che si è concretizzato. Facendo applicazione di tali principi di diritto, i magistrati di merito hanno del tutto correttamente affermato che l'imputato, né all'atto dell'assunzione della posizione di garanzia, né in seguito, risulta essersi fatto carico di prendere contezza dei rischi correlati a quella lavorazione con quel tipo di macchinario, e di aggiornare in conformità il documento di valutazione degli stessi, carente sotto questo specifico profilo e risalente al 2009, epoca in cui l'azienda aveva addirittura un diverso assetto societario, mutato nel 2012''.

    ``La corretta valutazione del rischio elettrico esistente avrebbe comportato la predisposizione di maggiori cautele e impedito l'evento, che costituisce proprio la concretizzazione del rischio che la norma cautelare violata mirava a neutralizzare''.

    A seguito di una violenta esplosione all'interno di un mulino, si sviluppa un incendio di vaste proporzioni che coinvolge l'intero immobile aziendale. Alla prima segue una seconda esplosione, che interessa un semirimorchio dal quale si sta ripompando verso un silos farina caricata in eccesso. Decedono cinque lavoratori e il socio di una ditta di manutenzione. Morto durante il processo il presidente del consiglio di amministrazione della s.p.a. esercente il mulino, viene condannato l'amministratore delegato a cinque anni di reclusione per omicidio colposo. Nel confermare la condanna, la Sez. IV asserisce che, stando alla giurisprudenza della Corte Suprema, e contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, ``il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l'evento lesivo non può essere desunto soltanto dall'omessa previsione del rischio nel documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, dovendolo tale rapporto essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell'omissione all'evento che si è concretizzato''. Ma aggiunge che comunque la corte d'appello ``dà conto delle ragioni per le quali è possibile ritenere che tra l'esplosione e l'omessa valutazione dei rischi ricorra una relazione eziologica, in quanto puntualmente indica la misura che sarebbe stata identificata da una puntuale valutazione dei rischi e che, posta in opera, avrebbe evitato il verificarsi dell'evento'', e, cioè, ``la messa a terra della cisterna''. (Su questo caso v., successivamente, per il rigetto di ricorso straordinario, Cass. 5 giugno 2019 n. 25059).

    ``Il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l'evento lesivo deve essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell'omissione all'evento che si è concretamente verificato. Nella specie, si è considerato inidoneo ad assolvere a tali oneri il piano di valutazione dei rischi esistente che prevedeva soltanto generici ed imprecisati pericoli di `impatti, urti e compressioni' e, quanto alle operazioni di apposizione dei micropali, disponeva genericamente che ci si doveva `tenere a distanza dei mezzi operativi'. Tali indicazioni sono state ritenute incongrue allo scopo in quanto applicabili ad ogni tipo di lavorazione con macchine operatrici e rispondenti a meri criteri di generico buon senso, mentre è stata rilevata, al contempo, l'assenza di un efficace piano operativo di coordinamento tra l'operatore addetto ad azionare la macchina operatrice e il lavoratore addetto ai micropali nei casi, come quello in esame, in cui la macchina perforatrice era posizionata in uno spazio ristretto (nel caso di specie in prossimità del muro), e, dunque, foriera di rischi di schiacciamento''.

    ``La valutazione dei rischi e la elaborazione di apposito documento costituisce un passaggio fondamentale per la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute dei lavoratori, ma in ogni caso il rapporto di causalità tra omessa previsione del rischio e infortunio o il rapporto di causalità tra omesso inserimento del rischio nel documento di valutazione dei rischi e infortunio, deve essere accertato in concreto rapportando gli effetti indagati e accertati della omissione, all'evento che si è concretizzato. Non può essere cioè affermata una causalità di principio''.

    ``La valutazione dei rischi e la elaborazione di apposito documento costituisce, senza dubbio alcuno, un passaggio fondamentale per la prevenzione degli infortuni e la tutela della salute dei lavoratori, ma il rapporto di causalità tra omessa previsione del rischio e infortunio o il rapporto di causalità tra omesso inserimento del rischio nel documento di valutazione dei rischi e infortunio, deve essere accertato in concreto rapportando gli effetti indagati e accertati della omissione, all'evento che si è concretizzato'', e che, dunque, ``non può essere affermata una causalità di principio''.

    ``La mancata indicazione nel piano di sicurezza dei rischi connessi al montaggio dei parapetti - la cui installazione, comportando la rimozione della parte superiore del ponteggio, rendeva inidoneo, ai fini della sicurezza dei lavoratori, il tradizionale ponteggio fisso - e la assoluta mancanza di quelle specifiche misure di sicurezza particolarmente indicate per il lavoro da svolgere (l'uso di una cesta applicata al braccio mobile di una macchina operatrice oppure l'uso della cintura di sicurezza), costituiscono evidenti profili di colpa riconducibili al ruolo del datore di lavoro, la cui condotta omissiva, cosi individuata e precisata, si pone in palese nesso di causalità con l'infortunio in oggetto''. Esclude che ``il nesso di causalità tra la condotta colposa dell'amministratore unico e l'evento sia stato interrotto dalle disposizioni impartite dal preposto all'infortunato e agli altri lavoratori in occasione dell'infortunio de quo''. Spiega che ``l'ordine impartito dal preposto rappresentò lo sviluppo consequenziale dell'originaria condotta colposa del datore di lavoro''. Insegna al riguardo che, ``in tema di rapporto di causalità, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 41 c.p., secondo cui `le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui', il nesso di causalità non resta escluso dal fatto volontario altrui, cioè quando l'evento è dovuto anche all'imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza anch'esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali'', che, ``in tema di reati colposi, per escludere il nesso causale (rispetto alla condotta dell'agente), non è sufficiente che nella produzione dell'evento sia intervenuto un fatto illecito altrui, ma è necessario che tale fatto configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l'evento''.

    Peraltro:

    ``Il datore di lavoro aveva svolto un'adeguata analisi ed una corretta valutazione del rischio. In ogni caso, la valutazione del rischio non ha natura direttamente cautelare, sicché dalla sua mancanza o inadeguatezza non può farsi discendere automaticamente l'addebito colposo in relazione ad uno specifico evento lesivo; il rimprovero può essere mosso solo quando l'inadempimento abbia concretamente impedito l'apprestamento di uno strumentario cautelare, che avrebbe evitato l'infortunio. Il datore di lavoro aveva ragionevolmente escluso da ogni valutazione la possibilità di utilizzo di un macchinario imprevisto, più potente, diverso da quello stabilito e non disponibile in azienda. La lavorazione era stata programmata mediante l'uso del RIP e non della trinciatrice, ma la repentina ed inaspettata decisione del lavoratore di modificare le modalità di intervento aveva totalmente stravolto la valutazione del rischio correttamente operata dal datore di lavoro. Inoltre, non risulta accertato che, per la tipologia di lavorazione in questione, fosse prevista inderogabilmente l'adozione di meccanismi di protezione al volto e ad altre parti del corpo (impiego di trattore con vetri laterali, utilizzo di visiere, ecc.). Il giorno del fatto, l'utilizzazione di un macchinario pericoloso per il tipo di terreno su cui operare, diverso da quello concordato, acquisito solo pochissimo tempo prima della lavorazione e all'insaputa del datore di lavoro, da parte di un dipendente di notevole esperienza, costituivano fattori - complessivamente considerati - di natura eccezionale ed imprevedibile, frutto di un'iniziativa autonoma, che si svolgeva in un ambito del tutto eccentrico rispetto alle mansioni affidate e che introduceva un rischio nuovo non preventivabile ed evitabile''. (La sentenza è riportata più ampiamente sub art. 20, paragrafo 4).

    La Sez. IV sottolinea la ``continuità normativa'', e, dunque, ``la corrispondenza fra l'obbligo del datore di lavoro di provvedere all'adozione del documento di valutazione dei rischi, di cui all'attuale art. 17, comma 1 lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, secondo quanto disposto dall'art. 28, comma 2, lett. d), del medesimo D.Lgs., e quello ricavabile dal combinato disposto dell'art. 4, comma 2, e dall'art. 89, comma 1, del D.Lgs. n. 626/1994''.

    La presidente del C.d.A. di una s.r.l. è condannata per l'infortunio mortale subito da un tessitore dipendente che su una macchina inidonea ai fini della sicurezza entra in contatto con la bobina di tessuto in rotazione sul cavalletto dell'avvolgitore e rimane intrappolato, inizialmente con una mano, poi con il resto del corpo, fra la bobina e il tessuto in fase di avvolgimento. Tra gli addebiti mossi all'imputata quello di non aver ``valutato il rischio derivante dallo svolgimento dell'attività lavorativa in periodo notturno da parte di un unico lavoratore''. A sua discolpa, l'imputata sostiene, in particolare, che l'infortunato ``era stato ritenuto idoneo al turno di notte perché chi aveva il compito di segnalare problematiche connesse al suo stato di salute, non lo aveva fatto'', e che ``non era stato comunicato che il lavoratore assumesse farmaci capaci di alterare il suo stato sotto il profilo della capacità di determinarsi, di reagire, di orientarsi, di comprendere il pericolo, ossia l'assunzione di dosi rilevanti di farmaci ansiolitici''. Inoltre, sottolinea l'omesso esame del punto relativo ``all'obbligo del medico aziendale di segnalare al datore di lavoro, le problematiche mediche riscontrate al dipendente''. La Sez. rileva: ``Il lavoro notturno in solitaria rappresenta un fattore di rischio in sé. Con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 532/1999, il prestare la propria attività lavorativa in qualità di lavoratore notturno costituisce, ipso facto, senza necessità dell'ulteriore presenza di altri fattori critici, un fattore di rischio. La modalità del lavoro notturno, specie se `in solitaria', deve essere presa in esame in modo specifico nella valutazione dei rischi. Le prescrizioni poste a tutela del lavoratore sono intese a garantire l'incolumità dello stesso anche nell'ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, egli si sia venuto a trovare in situazione di particolare pericolo. Nessun rilievo ha l'ingestione di ansiolitici in corrispondenza dei più elevati livelli terapeutici (secondo consulenza tecnica medico-legale) nella eziologia dell'evento, né assume valore - in questa sede - l'eventuale violazione dell'obbligo del medico aziendale di segnalare al datore di lavoro le condizioni di salute del lavoratore (al più avrebbe potuto essere oggetto di azione civilistica da parte dell'imputata). Tali tipi di farmaci `possono' produrre (NON: producono certamente) depressione del sistema nervoso centrale, sedazione, ipnosi, diminuzione dell'ansia rilassamento della muscolatura scheletrica. La presenza degli adeguati sistemi di protezione e prevenzione degli infortuni avrebbe impedito in maniera certa e assoluta il verificarsi della tragica morte. La causa del funesto evento non è certa da ritrovare nelle benzodiazepine, in un supposto stato di alterazione del lavoratore, in una sua immaginifica condotta suicidaria, in un comportamento asseritamente abnorme, bensì nell'assenza di tutti quegli accorgimenti prevenzionali e antinfortunistici che devono presidiare proprio e anche da eventuali malori o movimenti errati del lavoratore''.

    In una struttura destinata a parco zoologico e gestita da una s.r.l., un dipendente fu travolto da alcune giraffe. Violazione contestata al datore di lavoro: ``non avere, in sede di predisposizione del documento di valutazione dei rischi, individuato corrette procedure di ricovero delle giraffe e di eventuale separazione dei maschi dalle femmine, indispensabili ad evitare infortuni del genere di quello occorso''. A sua discolpa, il datore di lavoro sottolinea ``l'impossibilità di prevedere con il documento di valutazione dei rischi specifiche cautele per la molteplicità delle situazioni che possono presentarsi nell'accudimento degli animali selvatici in cattività, occorrendo sostanzialmente che l'attività sia svolta da un ranger esperto, che abbia imparato sul campo e che possa guidare le operazioni'', e che i lavoratori coinvolti non avevano svolto che la preparazione teorica, non avendo ancora acquisito capacità pratica, ragione per la quale il datore di lavoro, nell'occasione, aveva fatto divieto di provvedere all'operazione, prima di allontanarsi''. La Sez. IV replica: ``Nelle attività pericolose consentite, laddove sia impossibile eliminare il pericolo, l'obbligo di evitare l'evento si rafforza perché la sua prevedibilità è intrinseca al tipo di attività svolta, con la conseguenza che la prudenza, la diligenza e la perizia nel precostituire condizioni idonee ad evitare (o diminuire) il rischio debbono essere maggiori e non possono essere eludere l'osservanza delle norme specificamente poste a tutela della sua evitabilità. Mentre questa andrà comunque valutata in concreto, avuto riguardo, dal punto di vista controfattuale, all'inevitabile prodursi dell'evento anche in presenza dell'osservanza scrupolosa delle regole di cautela destinate ad evitarlo. Le considerazioni introdotte dall'imputato, pur suggestive, sono smentite dall'inserimento nel documento di valutazione dei rischi di una procedura da seguire per il ricovero delle giraffe e la separazione dei maschi, introdotta dopo l'infortunio''.

    Finalmente, la Corte Suprema è chiamata a prendere in esame rischi esplicitamente evocati dall'art. 28, comma 2, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 quali ``quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151''.

    Il titolare di uno studio odontotecnico viene condannato per la violazione degli artt. 28, comma 2, lettera a), e 55, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008, in relazione all'art. 11, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001. A sua discolpa, l'imputato deduce che ``nello studio non erano presenti lavoratrici in età fertile'', e che, comunque, ``il DVR conteneva, al riguardo, indicazioni sulle eventuali misure da adottare. La Sez. III premette che ``l'art. 11, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001 prevede un'ulteriore ed aggiuntiva valutazione a carico del datore di lavoro, con riferimento ai rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare i rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all'allegato C al D.Lgs. n. 151/2001''. Rileva come ``la circostanza che i rischi non siano attuali, in quanto non vi sia tra il personale una donna in gravidanza, non esime il datore di lavoro dalla valutazione imposta dall'art. 11 del D.Lgs. n. 151/2001, dovendo egli comunque compilare il DVR considerando tutti i rischi ipotetici e le misure di prevenzione da adottarsi nel caso di gravidanza''. Nega la possibilità di ``derogare alla previsione di legge, adducendo una presunta infertilità del personale dipendente dovuta all'età'', e ciò in quanto, ``per l'art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 151/2001, le misure per la tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio previste dal capo secondo del decreto, nel quale è ricompreso l'art. 11, si applicano altresì alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età'', il che ``ulteriormente conferma come la valutazione di quei profili di rischio vada comunque effettuata dal datore di lavoro che occupi personale di genere femminile''. In questo quadro, la Sez. III afferma che ``una adeguata valutazione del rischio deve analizzare il pericolo connesso alle lavorazioni o all'ambiente di lavoro non solo in modo generico, ma in relazione alla concreta situazione dell'impresa ed alla casistica effettivamente verificabile''. Prende atto che ``l'imputato era titolare di uno studio odontoiatrico ed aveva alle proprie dipendenze una donna con mansioni di assistenza clienti'', e che, ``con riguardo alle lavoratrici in stato di gravidanza, il DVR contiene valutazioni in termini del tutto generici, senza che vi sia alcun riferimento concreto alla mansione svolta dalla dipendente, senza alcuna specifica individuazione dei fattori di rischio correlati alle mansioni ed all'attività svolta, e anche le misure di prevenzione e protezione sono indicate in modo parimenti generico ed all'evidenza insoddisfacente (si parla di modifiche dei ritmi lavorativi ed eventuale mutamento delle mansioni se richiesto dal medico competente o se obbligatorio per legge)''. Aggiunge che, ``tra i rischi specificamente indicati nel documento, compaiono in modo del tutto incongruo rispetto all'attività svolta `esposizione al rumore, a scuotimenti e vibrazioni, a lavori con macchina mossa a pedale''', e condivide il giudizio di ``incompletezza del documento'', in quanto ``non contenente la valutazione di tutti i rischi specifici'', ``redatto in maniera `standardizzata' (un facsimile per più usi), tale da non svolgere, in alcuna misura, la funzione di spiegare i rischi specifici del lavoro e gli strumenti disposti per evitare che si possano realizzare''.

    Due dipendenti di una cooperativa appaltatrice - intenti a posizionare un cantiere su una via notoriamente trafficata della capitale - collocavano la segnaletica stradale: ``l'uno, alla guida della gru posizionata su un camion, prelevava il mini-escavatore e lo posizionava in terra; mentre procedeva a richiudere il braccio della gru, questo veniva urtato da un camion allontanatosi e; il braccio oscillava e colpiva al volto l'altro lavoratore, fermo sulla carreggiata dal lato del marciapiede''. Avulsione completa della mandibola. Rinviato a giudizio, in particolare, il datore di lavoro, per avere ``omesso, nel piano operativo di sicurezza, di valutare e segnalare i rischi da interferenza fra il cantiere ed il traffico veicolare, con necessità di aumentare la superficie recintata, in guisa da impedire le possibilità di impatto fra la gru montata su camion e i veicoli di transito''. Solo che in primo grado il datore di lavoro fu assolto dal reato di lesione personale colposa per insussistenza del fatto e prosciolto dalla contravvenzione di cui all'art. 17, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 per intervenuta prescrizione, mentre in appello venne condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite. Nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato dal datore di lavoro, la Sez. IV fornisce indicazioni ai datori di lavoro chiamati a valutare nel POS il rischio interferenziale con il traffico veicolare. Rileva come, ``diversamente dal giudice di primo grado, quello di appello ha ritenuto che non valesse ad escludere la responsabilità datoriale la presenza di un preposto e di una prassi secondo cui, in casi come quello di cui all'incidente, si fosse soliti transennare il cantiere e predisporre gli accorgimenti necessari ad evitare pericoli rispetto al traffico veicolare'', attribuendo ``un diverso peso ad una circostanza quale quella dell'assenza nel POS di una previsione specifica sul rischio di interferenza tra il cantiere ed il traffico veicolare''. Sottolinea che ``le disposizioni di cui al P.O.S. redatto dal datore di lavoro, in riferimento alla interferenza tra il cantiere e il traffico veicolare, non prevedeva l'uso di semafori o di movieri, ma la segnalazione del cantiere mediante cartelli e segnali ovvero la delimitazione del cantiere con coni (nel caso non ci fossero scavi) o con barriere di protezione (ad es. transenne con pannelli bianchi e rossi, barriere rigide in cemento o similari tipo `new jersey', ecc.) e, ove consentito, con rete arancione''. Osserva che ``la mancata previsione nel P.O.S. di rimedi per regolare il flusso del traffico veicolare in prossimità del cantiere su strade ad intensa percorrenza, qual è la via Ardeatina in prossimità del grande raccordo anulare nell'ora di punta del traffico (la mattina dopo le 8) costituisce certamente una insufficiente valutazione del rischio da interferenza tra il cantiere e il traffico veicolare''. Né ``l'invocata previsione di cui al POS, ove alla voce `delimitazione del cantiere' si legge `tutte le delimitazioni devono essere scelte e dimensionate in relazione alle condizioni del sito, alla tipologia del flusso veicolare/pedonale, ai pericoli generati dal cantiere' può costituire un'indicazione sufficiente a poter dire operata la valutazione del rischio poi concretizzatosi'', dal momento che ``si tratta, con tutta evidenza, di una frase buttata lì, a fronte, invece, di quella che dovrebbe essere una chiara e completa previsione del rischio''.

    In questo quadro, la Sez. IV critica l'inferenza finale tratta dal giudice di primo grado, e, cioè, che ``i rimedi per ovviare alla interferenza con il traffico veicolare - semafori e moviere - costituirebbero una prassi normalmente praticata dai capo cantiere della cooperativa, cosicché, pur in assenza di una specifica previsione nel P.O.S., la responsabilità colposa a carico del capo cantiere sarebbe comunque radicata per imprudenza e per un errore di valutazione, non certo perché l'utilizzo del moviere non fosse specificato nel P.O.S.''. In proposito, precisa che ``non vale ad esentare da responsabilità il datore di lavoro e il responsabile della sicurezza la presenza di un preposto (cioè del capo cantiere), posto che, quando i titolari della posizione di garanzia siano più di uno, posti sullo stesso piano o su piani diversi, ciascuno di essi è `per intero' destinatario dell'obbligo giuridico di impedire l'evento e ciascuno di essi deve, pertanto, rispondere dell'evento verificatosi per l'omissione delle cautele doverose, causalmente ad esso correlate e fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola posizione di garanzia''. Conclusione: ``se è vero che il capo cantiere e preposto era destinatario di posizione di garanzia formale ed anche effettiva, assumendo la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l'esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti, è tuttavia anche vero che il datore di lavoro avrebbe dovuto rendere edotti i lavoratori preposti alla specifica lavorazione del rischio da interferenza con il traffico veicolare e informarli sulle modalità esecutive da osservare (movieri o semafori) per evitare qualunque rischio per la sicurezza dei lavoratori e degli utenti della strada''.

    Nel leggere questa sentenza, è arduo sfuggire al ricordo delle animate e tuttora istruttive discussioni esplose sin dagli inizi del periodo emergenziale circa la sussistenza dell'obbligo di inserire nel D.V.R. la valutazione del rischio Covid-19 (in argomento v. Guariniello, Decalogo Covid-19 per le imprese: dalla valutazione del rischio alla vaccinazione, in Dir.prat.lav., 2021, 8, 481 s.). Taluni hanno affermato che, in uno scenario in cui prevalgono esigenze di tutela della salute pubblica, non si ritiene giustificato l'aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in relazione al rischio associato all'infezione da SARS-CoV-2 (se non in ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario, o comunque qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell'azienda). Altri non hanno mancato di evocare - non si sa se tra le fonti del diritto - la ``prudenza''. Il più imbarazzante è il tentativo di sottrarre la tutela della sicurezza e salute durante l'emergenza coronavirus all'area di applicabilità del D.Lgs. n. 81/2008, e di ricondurla sotto il mantello delle norme emergenziali, senza accorgersi già allora, ma ancora ultimamente, che siffatte norme puniscono il mancato rispetto delle misure di contenimento, ``salvo che il fatto costituisca reato'', quando è noto che per ora gli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 sono generalmente presidiati da sanzioni penali. Fuorviante fu, soprattutto, in una nota del 13 marzo 2020 n. 89, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro di un tempo: ``sembra potersi condividere la posizione assunta dalla Regione Veneto nel senso di `non ritenere giustificato l'aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in relazione al rischio associato all'infezione' (diverso è il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell'azienda)''.

    La Sez. III esamina un'ipotesi in cui il ``consigliere delegato, CEO e capo azienda'' di un istituto bancario - imputato dei reati di cui agli artt. 29, comma 1, e 19, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 per ``condotte riferite alla valutazione del rischio (DVR) connesso alle malattie trasmissibili pandemia Covid-19 oggetto del DVR e alla designazione del R.S.P.P.'' - venne assolto dal GIP perché il fatto non sussiste. Su ricorso del P.M., la Sez. III avverte che non sono in discussione ``la tematica relativa all'eventuale responsabilità in capo al datore di lavoro in caso di eventi dannosi successivi alla nomina del responsabile del servizio di prevenzione e sicurezza oppure alla adozione del DVR'', né ``il tema della validità ed efficacia del documento di valutazione del rischio (DVR) rispetto a soggetti terzi, inclusi i dipendenti e i lavoratori''. Precisa che l'imputato era ``unico titolare degli adempimenti previsti in materia di sicurezza, non delegabili ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. n. 81/2008'', e che ``si tratta di adempimenti che egli pacificamente non ha curato''. Giunge, pertanto, in accoglimento del ricorso presentato dal P.M., ad annullare con rinvio l'assoluzione dell'imputato.

    Note a piè di pagina
    101
    Comma modificato dall'art. 18, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e dall'art. 1, comma 1, lett. a), L. 1° ottobre 2012, n. 177; per l'efficacia di tale disposizione vedi l'art. 1, comma 3, della stessa L. 1° ottobre 2012, n. 177. Successivamente il presente comma è stato così modificato dall'art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs. 15 febbraio 2016, n. 39.
    Comma modificato dall'art. 18, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e dall'art. 1, comma 1, lett. a), L. 1° ottobre 2012, n. 177; per l'efficacia di tale disposizione vedi l'art. 1, comma 3...Testo troncato, continua a leggere nel testo
    102
    Comma inserito dall'art. 18, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma inserito dall'art. 18, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    103
    Alinea così modificato dall'art. 18, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Alinea così modificato dall'art. 18, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    104
    Lettera così modificata dall'art. 18, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così modificata dall'art. 18, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    105
    Comma aggiunto dall'art. 18, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. a), L. 30 ottobre 2014, n. 161.
    Comma aggiunto dall'art. 18, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. a), L. 30 ottobre 2014, n. 161.
    106
    Comma aggiunto dall'art. 20, comma 1, lett. e), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 43, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 151/2015.
    Comma aggiunto dall'art. 20, comma 1, lett. e), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015, ai sensi di quanto disposto dall'art. 43, comma 1 del medesimo D.Lgs. n. 151/2015.
    Fine capitolo
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