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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all'articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.151

    2.152

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Inottemperanza del datore di lavoro al giudizio sull'idoneità espresso dal medico competente - 2. Il lavoratore fragile tra datore di lavoro e medico competente - 3. Ove possibile .

    Per l'infortunio mortale a un dipendente addetto a una lavorazione in quota e precipitato da una scala, viene condannato il datore di lavoro anche perché ``il dipendente, a causa delle sue condizioni fisiche, essendo affetto da diabete, non poteva essere adibito a lavorazioni in quota (`La dott.ssa aveva espressamente prescritto all'operaio il divieto di lavori in altezza perché affetto da diabete, con una valutazione glicemica di 130 milligrammi per litro, e di conseguenza a rischio di un calo glicemico di una iperglicemia che può essere causa di perdita di equilibrio e caduta a terra')''.

    La Sez. IV conferma la condanna per lesione personale colposa in danno di un dipendente di una s.p.a. con qualifica di carpentiere di galleria ``adibito, nonostante le contrarie indicazioni mediche, a mansioni che comprendevano movimentazione manuale dei carichi e guida dei mezzi con vibrazione all'intero corpo, nonostante documentate condizioni fisiche del predetto''. ``Il lavoratore era comandato ai lavori della galleria di base presso un cantiere nell'ambito dei lavori di adeguamento di un'autostrada, e fin da giovane era stato adibito a lavori usuranti, subendo una importante degenerazione del tratto lombo-sacrale della colonna dorsale con artrosi. All'atto dell'assunzione presso la s.p.a., il medico lo aveva valutato idoneo al lavoro, con prescrizione di non essere adibito a sollevamento/spostamento di carichi pesanti, prescrizione confermata anche dopo ulteriori visite. Una risonanza al rachide pochi giorni prima del licenziamento aveva evidenziato un peggioramento del quadro clinico. L'imputato, con ampi poteri di spesa e decisionali in ogni settore, incluso quello della integrità e salute dei lavoratori nell'ambiente di lavoro, aveva adibito il lavoratore a mansioni comprensive di quelle descritte senza tener conto delle sue condizioni fisiche (risultanti dalle visite del medico competente, al quale erano state date anche informazioni non esatte circa le mansioni effettivamente svolte dal dipendente) e delle numerose assenze lavorative dovute a malattia, cagionando al predetto, in aggravamento della preesistente patologia, un indebolimento permanente del rachide lombo-sacrale''.

    La Sez. IV conferma la condanna dell'amministratore unico di una s.r.l. per l'infortunio subito da una dipendente addetta alle pulizie dei lampadari ed a piccole manutenzioni non elettriche che, ``essendo salita su una scala portatile del tipo `a forbice' per pulire un grosso lampadario del Teatro alla Scala di Milano, a causa del cedimento della gamba sinistra, è caduta a terra''. ``La donna era reduce da un precedente infortunio sul lavoro, avvenuto sette mesi prima, in occasione del quale si era fatturata in più punti Ia gamba sinistra, con impossibilità di attendere alle ordinarie occupazioni per centotrentanove giorni e con postumi permanenti (placche e numerose viti), sicché il medico del lavoro aveva espresso un giudizio di idoneità al lavoro condizionato però allo svolgimento di lavori non in altezza e non comportanti l'utilizzo di scale portatili''.

    Il legale rappresentante di un'impresa edile fu dichiarato colpevole del reato di omicidio colposo per l'infortunio subito da un dipendente. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``Il lavoratore non poteva essere adibito a lavori in altezza in quanto affetto da diabete mellito; l'imputato aveva ricevuto raccomandazioni in tal senso dal medico dell'impresa, posto che la malattia da cui il lavoratore era affetto può comportare una perdita di conoscenza e, conseguentemente, una perdita di equilibrio qualora chi ne sia affetto si trovi ad eseguire il lavoro in altezza e compia, per di più, uno sforzo in tale situazione. Il giorno dell'infortunio, il lavoratore stava eseguendo il montaggio dei morsetti del montacarichi detto a bandiera a circa 4 metri di altezza dal suolo, ponendo in essere uno sforzo di elevazione e di impiego di energia fisica che, a causa del notevole afflusso ematico al cervello, aveva cagionato la perdita di conoscenza e la conseguente caduta nel vuoto, provocandone il decesso. In particolare, all'imputato era stato contestato di avere adibito e, comunque, consentito che il dipendente fosse adibito all'esecuzione di lavori in altezza senza tenere conto del suo stato di salute di soggetto diabetico inidoneo a lavori in altezza, nonostante l'inidoneità a dette mansioni e l'espresso divieto in tal senso formulati dal medico competente. L'imputato, in quanto titolare dell'obbligo di protezione dell'incolumità e della vita dei propri dipendenti, avrebbe dovuto vietare all'infortunato di lavorare su un ponteggio nonostante il medico avesse vietato di adibire il dipendente a lavori in altezza e che la condotta del lavoratore non potesse ritenersi estranea alle mansioni alle quali era stato adibito, trattandosi di evento normale, ancorché non necessario''.

    Il legale rappresentante di una s.p.a. fu condannato per un infortunio occorso a un dipendente adibito a mansioni di imballo incompatibili con l'impossibilità di mantenere a lungo la stazione eretta e di sollevare pesi. La Sez. IV conferma la condanna: ``il precedente grave infortunio del lavoratore; i rilevanti postumi; la conseguente assegnazione a prestazione di portineria e sorveglianza compatibile con lo stato di parziale invalidità; la successiva assegnazione a mansioni di imballo; l'opposizione del lavoratore che segnalava i postumi invalidanti nella misura del 30%; la determinazione dell'azienda nell'applicazione alla indicata lavorazione sulla base di valutazione del medico aziendale, che escludeva che il lavoratore dovesse sollevare carichi rischiosi in considerazione della riorganizzazione del reparto di imballo; l'accertamento della Asl che determinava la inidoneità permanente alle attività che comportino la stazione eretta e la movimentazione di carichi di peso superiore ai 10 kg; la ritenuta congruità della prestazione richiesta, da parte dell'azienda, in considerazione dell'esistenza di impianto semiautomatico di imballo; la valutazione del dirigente della Asl, il quale riteneva il lavoratore non idoneo alla prestazione in atto, documentata anche con fotografie delle posizioni assunte dai lavoratori; la rilevanza ponderale dei tubi da imballare e delle altre operazioni che vengono minutamente descritte, tutte ritenute impegnative; la conferma delle valutazioni da parte del dirigente della Asl nel corso della deposizione dibattimentale; l'apprezzamento in ordine alla attendibilità ed indipendenza delle valutazioni espresse dal tecnico; la confutazione della tesi difensiva secondo cui l'imballo era in larga misura automatica, considerando la necessità di operazioni di spinta, trazione e torsione nonché di sollevamento, sempre in posizione eretta. Nonostante le reiterate valutazioni tecniche della Asl contrarie alla utilizzazione del lavoratore nella mansione indicata, l'azienda non ha receduto. L'episodio lesivo si è verificato allorché il lavoratore era intento ad una impegnativa attività di movimentazione dei tubi per allinearli ed incassarli, dovendo tal fine spingerli o tirarli per farli scivolare dentro la cassa. In tale situazione egli ebbe una fortissima fitta alla schiena, si accasciò e venne ricoverato al pronto soccorso. La situazione del lavoratore è stata confermata dal collega che ha narrato dei ricorrenti mal di schiena e delle difficoltà nel far fronte alle mansioni richieste. Indebitamente il lavoratore è stato assegnato ad una prestazione incompatibile con la sua condizione e vi è chiaro nesso causale tra l'attività svolta e l'evento lesivo, considerata la contestualità con lo sforzo sopra descritto. In tale situazione si ravvisa che si configurino tutti profili dell'illecito contestato. Gli organi della Asl avevano motivatamente accertata l'inidoneità allo svolgimento di mansioni del genere di quella in esame''.

    (In argomento v., altresì, sub artt. 18 al par. 2 e 41 al par. 1).

    Di cospicuo rilievo è la vicenda affrontata da:

    La Corte Suprema conferma l'assoluzione del dirigente e di due preposti di uno stabilimento industriale esercito da una s.p.a., accusati di avere cagionato la morte di un lavoratore in violazione dell'art. 64, comma 1, lett. c) ed e), D.Lgs. n. 81/2008, ``perché consentivano e tolleravano l'utilizzazione da parte dei dipendenti di un'area di produzione dismessa, quale zona franca per fumare, in pessime condizioni igieniche e microclimatiche, caratterizzata da alte temperature, senza informare i diretti superiori, non impedendo che l'infortunato, affetto da epilessia e garantito da prescrizioni medico aziendali che non consentivano, fra l'altro, il lavoro in ambiente confinato, vi accedesse, ed ivi colto da crisi, probabilmente favorita dall'alta temperatura, fosse ritrovato solo dopo due ore, in stato di coma, decedendo dopo nove giorni per progressiva ed ingravescente disfunzione multiorgano e coagulopatia intravascolare disseminata, secondaria a coma post-epilettico prolungato''. Si era accertato che ``il lavoratore, con mansioni di addetto al controllo nel reparto CRS, destinatario in quanto affetto da epilessie, pur ritenuto abile al lavoro ed alle mansioni, di prescrizioni inerenti al divieto di lavoro notturno, al divieto di lavoro in ambienti confinati o in solitario, al divieto di lavoro in quota o su carrelli, intorno alle ore 8 si allontanava dalla sua postazione. Intorno alle ore 9.00, un collega, non vedendolo tornare cominciava a cercarlo, verificando anche che egli non si fosse introdotto nel box della vecchia linea di produzione, ma avendo ritrovato la porta chiusa con un lucchetto, ed avendo visto che all'interno era tutto buio, si metteva a cercarlo altrove. Allertati, altri dipendenti cominciavano le ricerche, che si concludevano dopo un'ora, quando il lavoratore veniva rinvenuto, in stato di coma, all'interno dell'area dismessa, e precisamente in un locale cui si accedeva da una porta del box ove il collega lo aveva cercato un'ora prima, chiusa con un lucchetto, che, tuttavia, presentava un pannello inferiore manomesso''.

    Quanto alla ``configurabilità della condotta omissiva riguardante l'omessa vigilanza sul lavoratore, pur essendo la sua attività soggetta ad una serie di prescrizioni a tutela del suo stato di salute'', la Sez. IV rileva che ``la condotta sarebbe consistita nell'avere collocato il lavoratore in un'area che non consentiva un controllo costante sul medesimo, il quale, infatti, aveva potuto allontanarsi indisturbato, senza che la sua assenza, pur prolungata, destasse preoccupazione per un lungo periodo di tempo''. Osserva che ``la questione involge due profili'': ``l'uno riguardante gli obblighi del datore di lavoro, a fronte della conoscenza di un problema grave di salute del lavoratore e del contenuto delle prescrizioni del medico del lavoro, subordinanti l'idoneità al lavoro e la prestazione dell'attività''; ``l'altro inerente all'asserito obbligo di coinvolgere altri lavoratori nella sorveglianza delle condizioni di salute di un dipendente, anche tenendo conto della normativa in ordine alla privatezza dei dati sensibili''. Prende atto che, ``nel caso di specie, la prescrizione del medico del lavoro - che pure ha dichiarato idoneo il lavoratore allo svolgimento delle mansioni affidategli, comprendeva disposizioni non solo sul tipo di prestazione (divieto di lavoro in quota o su carrelli), ma sulla conformazione dei locali nei quali detta attività doveva essere prestata, essendo stata formulata la prescrizione di non adibire il lavoratore ad attività in `ambiente confinato', e sulla modalità, essendo previsto che egli non svolgesse lavori `in solitario'''. Osserva che ``le prescrizioni mediche sullo svolgimento della prestazione lavorativa sono rivolte a rendere compatibile la condizione soggettiva del lavoratore con le esigenze produttive del datore di lavoro, al fine di consentire al primo di intraprendere e proseguire l'attività lavorativa, nonostante le deteriorate condizioni di salute, ed al secondo di limitare le modifiche dell'organizzazione del lavoro alle prescrizioni imposte, in modo da assicurare il diritto alla salute del lavoratore, ma anche l'utilità della prestazione lavorativa'', e che, ``peraltro, iniziative che oltrepassino le prescrizioni imposte dal medico del lavoro costituiscono per il datore di lavoro l'assunzione di fatto di un rischio, generatore di responsabilità, laddove esse si rivelino dannose per la salute fisica o psichica del lavoratore''. Ne desume che ``non può ritenersi imposto al datore di lavoro alcun altro obbligo se non quelli prescritti, né è possibile ipotizzare alcuna estensione applicativa dei medesimi, se non a costo di far assumere al datore di lavoro responsabilità ulteriori non rientranti fra quelle espressamente previste''. Ciò premesso, la Sez. IV si chiede ``cosa significhi `ambiente confinato', muovendo dal significato dell'aggettivo, di `chiuso entro confini' ovverosia isolato o relegato, o ancora, in senso trasposto, appartato o lontano'', ``un ambiente, cioè, che non presenta comunicazioni con altri, che non consente rapporti, relazioni o interventi''. Nota che ``il divieto di lavoro `in solitario' non si sovrappone a quello di lavoro in ambiente non confinato, ben potendo un luogo che consente comunicazione con altri prevedere postazioni non visibili a terzi e pertanto `solitarie', nel senso di `separate' dalle altre''. Così definiti i termini, ritiene che ``l'ambiente nel quale operava il lavoratore non era `confinato', trattandosi di luogo in cui erano presenti più dipendenti'', ``tanto è vero che proprio un collega di lavoro si accorse che l'assenza dell'infortunato si prolungava oltre un tempo compatibile con un allontanamento non sospetto''. Considera indimostrata la circostanza esposta dalla parte civile ``secondo la quale, benché in luogo non confinato, il lavoratore che operava su due postazioni all'interno dello stesso ambiente, potesse considerarsi addetto ad un lavoro `in solitario', non essendo la seconda visibile da altri dipendenti, pur operanti nel medesimo luogo''. A questo punto, la Sez. IV esamina ``il secondo aspetto, relativo alla possibilità, per il datore di lavoro, di esigere da altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento''. Sottolinea che, ad avviso della parte civile, ``siffatto dovere sia una declinazione dell'obbligo di non adibire il lavoratore ad attività in `ambiente confinato' arrivando ad ipotizzare la necessità del suo affiancamento continuo, o della necessità di affidare il reparto nel quale il medesimo operava ad un `team leader'''. Precisa che ``la predisposizione di una simile organizzazione lavorativa richiede, in primo luogo, che terzi soggetti, i colleghi di lavoro appunto, siano messi a parte, proprio dal datore di lavoro delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore'', e che ``ciò, nondimeno, implica, ai sensi dell'art. 26 del c.d. Codice della Privacy, che l'interessato esprima per iscritto il suo consenso alla diffusione dei dati sanitari in possesso del datore di lavoro, non essendo a questi consentito diffonderli autonomamente, neppure ai sensi dell'art. 24 del medesimo codice, nella versione vigente all'epoca del fatto, secondo cui la diffusione per la salvaguardia dell'incolumità del soggetto interessato è consentita solo con il suo consenso, o nell'impossibilità di ottenerlo, con il consenso di soggetti quali l'esercente legale della potestà o un prossimo congiunto''. Ne trae conferma dall'art. 51 delle linee guida emesse dal Garante della privacy, vigenti all'epoca, secondo cui ``la conoscenza dei dati personali relativi ad un lavoratore da parte di terzi è ammessa se l'interessato vi acconsente'' rimanendo impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di disciplinare le modalità del proprio trattamento designando i soggetti, interni o esterni, incaricati o responsabili del trattamento, che possono acquisire conoscenza dei dati inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, in relazione alle funzioni svolte e a idonee istruzioni scritte alle quali attenersi (artt. 4, comma 1, lett. g) e h), 29 e 30)''. Ma sostiene che ``nulla autorizza a diffondere notizie sulla salute del lavoratore ai colleghi che operino con il medesimo''. Esclude che ``la `sorveglianza' su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro neppure richiedere una simile prestazione''. Ritiene, dunque, ``del tutto fuorviante l'assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con l'infortunato, affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo''. Nel tornare ``alle prescrizioni impartite dal medico al datore di lavoro sulla conformazione dell'attività del lavoratore alla sua patologia'', precisa che ``la disposizione relativa all'ambiente `non confinato' ed alla modalità non `in solitario', sono rivolte - proprio tenendo conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso dell'interessato - a porre il lavoratore in una condizione di `visibilità' da parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è immediato l'allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze''. Ne ricava che ``questa prescrizione imposta al datore di lavoro è quella di apprestare una postazione lavorativa che consente di `favorire' il soccorso, non certo quella di `sorvegliare continuativamente' l'interessato, ponendogli accanto un `lavoratore sentinella', che lo segua ovunque egli ritenga di recarsi, nel corso della giornata lavorativa''. L'ultima considerazione è che ``la sentenza impugnata, pur escludendo in radice la sussistenza delle condotte colpose ascritte agli imputati, sottolinea comunque l'abnormità della condotta del lavoratore che, consapevole della sua malattia, si allontana dalla sua postazione per recarsi in un luogo appartato, buio e molto difficile da raggiungere, sinanco nascosto, senza avvertire nessuno e per ragioni ignote''.

    Nel prevedere l'adibizione del lavoratore inidoneo ad altra mansione ``ove possibile'', l'art. 42, D.Lgs. n. 81/2008 usa un'espressione che ritorna nella misura generale di tutela ivi contemplata dall'art. 15, comma 1, lettera m) (``l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione''), e che eredita la discussa logica sottostante all'art. 8 dell'abrogato D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277 (in argomento Guariniello, Allontanamento del lavoratore: tutela dei colleghi e della collettività, in Guida alle paghe, 2023, 2, 105 s.). In proposito, la Sezione Lavoro della Cassazione insegna:

    ``Il datore di lavoro ha l'obbligo di previa verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità di un eventuale recesso, in applicazione dell'art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216/2003, di recepimento dell'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5, essendo egli tenuto, pur senza modificare l'assetto organizzativo dei fattori produttivi insindacabilmente stabiliti, ad assegnare all'invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni, reperendo nell'ambito della struttura aziendale il posto di lavoro più adatto alle condizioni di salute di tale lavoratore''.

    Note a piè di pagina
    151
    Comma sostituito dall'art. 27, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma sostituito dall'art. 27, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    152
    Comma abrogato dall'art. 27, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma abrogato dall'art. 27, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
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