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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    1. L'articolo 25-septies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è sostituito dal seguente:

    «Art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro)

    1. In relazione al delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell'articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.

    2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.

    3. In relazione al delitto di cui all'articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi.».

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: Premessa: reato prescritto, impresa condannata - 1. Reati presupposto e principio di legalità - 2. Gli enti - 3. Gli autori del reato presupposto - 4. Interesse o vantaggio - 5. La colpa da organizzazione - 6. Rappresentanza dell'ente e nomina del difensore - 7. Costituzione di parte civile - 8. Sanzioni interdittive e misure cautelari - 9. Sanzioni applicabili e sospensione condizionale della pena - 10. Messa alla prova - 11. La revisione - 12. Le vicende trasformative dell'ente: dalla cancellazione della società al fallimento - 13. Responsabilità amministrativa e particolare tenuità del fatto - 14. La misura della sanzione amministrativa - 15. Ente non impugnante - 16. Le forme di procedura - 17. Termine a comparire - 18. L'istituto del whistleblowing .

    Dopo la prima applicazione nel processo della ThyssenKrupp, il D.Lgs. n. 231/2001 si è gradualmente conquistato nel settore della sicurezza sul lavoro un ruolo sempre più penetrante e sistematico, al punto che la responsabilità amministrativa può diventare il futuro della giurisprudenza (v. in proposito l'e-book Guariniello, La responsabilità amministrativa delle imprese a tutela del lavoro e dell'ambiente, Wolters Kluver, Milano, 2022). Meraviglia allora che la normativa dettata in materia non sia stata ancora assimilata da numerose imprese, e che stenti ad essere applicata sistematicamente da non pochi ispettori e da non pochi pubblici ministeri. E meraviglia ancor di più se si pensa che la responsabilità amministrativa non patisce alcune criticità che invece frenano ogni giorno di più la responsabilità penale, e dunque presenta aspetti di particolare rilievo in chiave di deterrenza. Aspetti che non a caso inducono alcuni detrattori a reclamarne ad ogni piè sospinto la declaratoria d'incostituzionalità. Un solo esempio. Sempre più frequentemente si riscontra nella prassi giudiziaria un fenomeno: proscioglimento per prescrizione delle persone fisiche imputate del delitto di omicidio colposo o di lesione personale colposa commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, ma condanna della società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, e ciò in virtù del principio di ``autonomia delle responsabilità dell'ente'' ivi previsto dall'art. 8, comma 1 [``La responsabilità dell'ente sussiste anche quando a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia''):

    Il Tribunale dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato e della s.p.a. per il reato e l'illecito rispettivamente ascritti (art. 590 c.p. e art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001), in quanto estinti per intervenuta prescrizione. Nell'accogliere il ricorso la Sez. IV sottolinea ``l'errore in diritto del Tribunale, il quale ha confuso la prescrizione del reato nei confronti dell'imputato con la prescrizione dell'illecito amministrativo contestato all'ente, i cui termini sono diversi e non sovrapponibili''. Spiega che ``il Tribunale ha erroneamente individuato nell'art. 157 c.p. la disciplina della prescrizione dell'illecito dell'ente derivante da reato, mentre la stessa è dettata dall'art. 22 D.Lgs. n. 231/2001, in base al quale, essendo in corso il processo a carico dell'ente, il decorso del termine quinquennale di prescrizione deve intendersi sospeso, fino alla definizione del processo''. Di qui l'annullamento parziale della sentenza impugnata, limitatamente alla posizione dell'ente, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'Appello.

    ``All'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi dell'art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato''.

    La Difesa di una s.p.a. condannata per illecito amministrativo sostiene che si tratta di una disciplina ``totalmente distonica rispetto alla prescrizione penale'', atta a delineare ``un regime che viola plurimi principi costituzionali: 1) l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento dell'ente rispetto alla persona fisica imputata del reato presupposto, atteso che la responsabilità dell'ente deve qualificarsi come avente natura penale; in ogni caso, la soluzione non muterebbe anche riconoscendo alla stessa natura di tertium genus connotato da profili punitivi dal momento che alla luce dei principi della Conv. Edu, come declinati dalla relativa Corte, ad essa dovrebbero comunque applicarsi le garanzie spettanti al soggetto cui viene contestato un illecito rientrante nella `matière pénale'; 2) l'art. 24 Cost., per la violazione de diritto di difesa derivante dall'impossibilità di avvalersi del `diritto di difendersi provando' in relazione a fatti che stante il regime di sostanziale imprescrittibilità dell'illecito possono essere giudicati, come nel caso di specie, a moltissimi anni di distanza dal loro verificarsi; 3) l'art. 41 Cost., per il vulnus del diritto di iniziativa economica privata in ragione della grave compromissione della possibilità dell'ente di continuare a svolgere la propria attività (anche per effetto delle norme limitative dell'accesso alle pubbliche gare nei confronti dell'ente sotto processo); 4) l'art. 111 Cost., per la violazione del giusto processo, nella parte in cui prescrive che esso debba avere una ragionevole durata, impedita in radice dalla imprescrittibilità dell'illecito dipendente da reato; ragionevole durata che, ai sensi dell'art. 6 della Conv. Edu vale anche nei confronti delle persone giuridiche (profilo, questo, che rileva anche quale violazione dell'art. 117 Cost.)''. Tutta da leggere l'ampia risposta negativa data dalla Sez. VI in linea con i chiarimenti dati nel caso ThyssenKrupp da S.U., 18 settembre 2014, n. 38343, nonché da Cass. pen. 7 luglio 2016 n. 28299. In particolare, la Sez. VI esclude che ``la disciplina prevista dall'art. 22 D.Lgs. n. 231/2001 sia confliggente con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), anche inteso come diritto ad essere giudicato senza ritardo, con riferimento all'art. 24 Cost. e all'accezione del canone di ragionevole durata in termini di garanzia soggettiva.'' Spiega che ``l'art. 111, secondo comma, Cost. esprime un principio rivolto soprattutto al legislatore, perché predisponga gli strumenti normativi in grado di contenere i tempi del processo e di assicurare una giustizia efficiente'', e che, tuttavia, ``la ragionevole durata cui si riferisce il principio costituzionale non deve essere intesa come semplice speditezza in funzione di un'efficienza tout court, ma piuttosto come razionale contemperamento dell'efficienza con le garanzie, la cui concreta attuazione è rimessa alle opzioni del legislatore''. Ne desume che ``il legislatore ha, da un lato, introdotto un termine di prescrizione oggettivamente breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito, nella dichiarata intenzione di contenere la durata della prescrizione e di non lasciare uno spazio temporale eccessivamente ampio per l'accertamento dell'illecito nel corso delle indagini, anche per favorire le esigenze di certezza di cui necessita l'attività delle imprese, dall'altro, ha previsto un regime degli effetti interruttivi che replica la disciplina civilistica, stabilendo che, una volta contestato l'illecito amministrativo, `la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio''', in tal guisa realizzando ``un bilanciamento tra le esigenze di durata ragionevole del processo, soprattutto nel prevedere un termine breve di prescrizione, e le esigenze di garanzia, corrispondenti nella specie al valore della completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente''. E ancora: ``L'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale. Una volta contestato l'illecito nel termine di cinque anni risulta difficile che si verifichi la prescrizione nel corso del giudizio, a differenza di quanto accade per i reati, ma ciò avviene sulla base di una scelta del legislatore che vuole evitare che, in presenza dell'interesse dell'autorità procedente a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestata attraverso l'esercizio dell'azione penale, si corra il rischio di dover dichiarare l'estinzione dell'illecito per il sopraggiungere della prescrizione''. Significativa appare, altresì, l'analisi dedicata all'eccepito contrasto con l'art. 41 Cost: ``la sottoposizione degli enti che svolgono attività economica alla disciplina del D.Lgs. n. 231, lungi da porsi in contrasto con il precetto costituzionale, ne costituisce al contrario attuazione, mirando ad evitare che, anziché favorire l'attività sociale, l'iniziativa economica privata rappresenti l'occasione per agevolare la commissione di reati''. (Conforme sulla questione di legittimità costituzionale Cass. pen. 23 novembre 2022 n. 44559).

    ``In presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. b) D.Lgs. n. 231/2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato''.

    ``La disciplina della prescrizione dell'illecito amministrativo da reato a carico degli enti persone giuridiche è contenuta nell'art. 22 D.Lgs. n. 231/2001. Si tratta di disciplina che si discosta da quella penalistica dettata dagli artt. 157 e ss. c.p. e che è modellata sulla prescrizione dettata in ambito civilistico dagli artt. 2943 e ss. c.c. e sulla prescrizione in materia di sanzioni amministrative dettata dall'art. 28 della L. n. 689/1981. Il riferimento alla sentenza che definisce il giudizio, quale momento finale della sospensione della prescrizione, è stato già interpretato come alla sentenza che definisce il giudizio a carico dell'ente. L'art. 22 D.Lgs. n. 231/2001 deve essere interpretato in funzione dell'esigenza di garantita pienezza e completezza dell'accertamento a carico della persona giuridica. Non possono pertanto rilevare, ai fini della perimetrazione temporale della sospensione della prescrizione del relativo giudizio, le sorti del giudizio riguardante l'imputato-persona fisica, concettualmente distinto anche nell'ipotesi in cui si proceda congiuntamente. La diversa conclusione secondo cui la sentenza evocata sarebbe quella emessa a carico dell'imputato del reato presupposto, è irragionevole e asistematica. Il giudizio nei confronti dell'imputato-persona fisica potrebbe anzitutto mancare, posto che, in tema di responsabilità da reato degli enti, quest'ultima può essere affermata anche nelle ipotesi di non avvenuta identificazione dell'autore del reato presupposto, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001. In ogni caso, se è vero che la responsabilità amministrativa dell'ente presuppone la commissione di un reato, perfetto in tutti i suoi elementi, può accadere che l'accertamento di quest'ultimo abbia luogo, in via incidentale, nel solo giudizio regolato dal D.Lgs. n. 231/2001, tenuto conto del fatto che la già accertata estinzione del reato per prescrizione impedisce all'Accusa unicamente di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo, mentre non le preclude di portare avanti il procedimento già incardinato contro l'ente; procedimento, poi, che potrebbe addirittura essere intentato ex novo ove il reato si fosse in precedenza estinto per qualunque altra causa, diversa dall'amnistia, ovvero il suo autore risultasse non imputabile. La coesistenza dei giudizi, frequente nella pratica, è dunque, normativamente solo eventuale e la correlazione dei medesimi, al fine di delimitare nel tempo l'effetto sospensivo della prescrizione nella causa riguardante l'ente, sarebbe priva di una riconoscibile funzionalità, facendo anche incongruamente dipendere l'esistenza stessa della sospensione, e comunque la sua durata, da elementi procedimentali esterni e puramente accidentali. Il Tribunale ha, dunque, erroneamente individuato nell'art. 157 c.p.p. la disciplina della prescrizione dell'illecito dell'ente derivante da reato, che invece è dettata nell'art. 22 D.Lgs. n. 231/2001, in base al quale, essendo in corso il processo a carico dell'ente, il decorso del termine quinquennale di prescrizione doveva intendersi sospeso, fino alla definizione del processo''. (V. anche Cass. 7 aprile 2022 n. 13221 e Cass. 11 gennaio 2022 n. 387).

    Il legale rappresentante e il direttore di stabilimento di una s.r.l. vennero condannati per l'infortunio occorso a un lavoratore che era intento ad operazioni di pulitura su una macchina pellettatrice priva dei dispositivi atti ad ostacolarne l'accesso all'interno con gli organi in movimento, e che, dopo aver aperto il coperchio della macchina, vi infilava una mano mentre la pala rotante era ancora in moto per inerzia. A sua volta, la s.r.l. fu ritenuta responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001. La Sez. IV dichiara prescritto il reato ascritto agli imputati, ma conferma la condanna della s.r.l. per l'illecito amministrativo. Spiega che ``l'art. 60 D.Lgs. n. 231/2001 è chiaro nel suo contenuto normativo e comporta che l'estinzione per prescrizione del reato presupposto impedisce unicamente all'accusa di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo ma non impedisce di portare avanti il procedimento già incardinato'', e che ``trovano, peraltro, applicazione all'illecito amministrativo le cause interruttive della prescrizione previste dal codice civile e, pertanto, la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento (artt. 2943-2945 c.c.)''. Nota, peraltro, che ``la condanna per la responsabilità amministrativa, ancorché autonoma processualmente dalla condanna per la responsabilità penale, presuppone la commissione di un reato, perfetto in tutti i suoi elementi'', in quanto ``le ipotesi previste dall'art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, che esprimono il principio di autonomia delle condanne, consentono, infatti, di affermare la responsabilità dell'ente nei casi nei quali l'autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile, ovvero il reato si sia estinto per una causa diversa dall'amnistia;'' e ``dal tenore della previsione si desume che il giudizio di responsabilità amministrativa non possa prescindere dall'accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato ``.

    Da sottolineare, peraltro, quanto precisano:

    ``Sebbene lo stesso giudice-persona fisica abbia pronunciato, all'esito di udienza preliminare, anche sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. nei confronti dei responsabili dell'ente in relazione alle ipotesi di reato agli stessi rispettivamente ascritte, era comunque tenuto, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 231/2001, a procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito sarebbe stato realizzato: accertamento che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato presupposto, sempreché risultino integrate le condizioni di cui agli art. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto''. ``Esclusa la ricorrenza del reato presupposto in capo al legale rappresentante e agli altri vertici dell'ente, sebbene con la valutazione incidentale e autonoma imposta dall'art. 8, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 231/2001, e comunque esclusa la ricorrenza della condotta omissiva di cui alla contestazione dell'illecito amministrativo all'ente, risulta nella specie assolutamente irrilevante la verifica della causalità materiale, nonché l'accertamento del concorso di cause indipendenti, laddove risulta escluso ab origine il fatto materiale che determina la necessità di una verifica controfattuale nei reati omissivi di evento''.

    ``In tema di responsabilità da reato degli enti la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito amministrativo, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 231/2001'', ``ma la richiesta di rinvio a giudizio considerata dalla corte di appello ai fini della interruzione della prescrizione è quella riguardante il diverso processo penale svolto a carico del legale rappresentante dell'ente, e non già quella relativa al presente processo''.

    Nell'ipotesi considerata dalla sentenza n. 5121/2022, i giudici di merito, ``decidendo sull'illecito amministrativo derivante da reato, rappresentato dalle lesioni personali colpose conseguite al mancato rispetto di norme antinfortunistiche ai danni di un dipendente, dichiarava(no) non doversi procedere nei confronti della s.p.a., per essere il suddetto illecito estinto per prescrizione in quanto, stante la nullità dell'originario decreto di citazione, il primo atto di valida costituzione in mora era rappresentato dal decreto di citazione notificato all'ente oltre il quinquennio previsto dalla legge per il compimento del termine di prescrizione''. In seguito a ricorso del P.M. in tema di interruzione della prescrizione del reato, riconosce ``anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo'', e, in particolare, attribuisce ``agli atti interruttivi della prescrizione valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza dello Stato a perseguire il reato e comunque a porre in luce l'interesse punitivo'', ``sicché l'atto interruttivo della prescrizione, pure quando sia nullo, conserva la sua efficacia, siccome univocamente idoneo a manifestare la volontà punitiva dello Stato''. Sostiene che ``tali principi risultano applicabili anche nell'ipotesi di c.d. reato degli enti, in quanto l'interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l'interruzione della prescrizione nei confronti dell'imputato e coincidere con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione''. Afferma, inoltre, che ``il rinvio alle norme del codice civile, pure contenuto alla lettera r) dell'art. 11 della legge delega n. 300/2000, argomento utilizzato dall'indirizzo minoritario a sostegno della tesi secondo cui l'effetto interruttivo debba essere ricondotto alla notificazione della richiesta di rinvio a giudizio (o più in generale dell'atto di contestazione), vada nondimeno inteso facendo riferimento al regime previsto dall'art. 2945, comma 2, c.c., nel senso che, una volta interrotta la prescrizione, con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, essa `non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio'''. Insegna che ``tale interpretazione del richiamo normativo vale ad escludere qualsiasi riferimento della disposizione in esame al dies a quo della produzione degli effetti dell'atto interruttivo, valendo la stessa a fissare il contenuto e la durata di quegli effetti, rispetto ai quali, diversamente da quanto previsto per la prescrizione del reato ai sensi dell'art. 160 c.p., l'interruzione impedisce la decorrenza del termine prescrizionale fino a che il giudizio penale non sia terminato''. Ricorda poi che ``la scelta legislativa di far riferimento alla disposizione civilistica, anziché alle previsioni di cui all'art. 160 c.p., deriva dalla natura della pretesa punitiva che sanziona la violazione da parte dell'impresa di norme che implicano limiti di compatibilità dell'azione imprenditoriale con l'interesse generale, come espresso dall'art. 41 Cost., il quale non può declinare di fronte al vantaggio dell'attività d'impresa'', e che ``siffatta prevalenza determina la necessità del ricorso ad una normativa - quella civilistica appunto - che renda indifferente il tempo del processo penale all'irrogazione della sanzione, al fine di non stravolgere priorità collettive, costituzionalmente garantite''. Tutto ciò premesso, la Sez. IV esclude che ``alla eventuale invalidità della richiesta di rinvio a giudizio dell'imputato, con citazione altresì dell'ente responsabile dell'illecito, in quanto non preceduta da specifici adempimenti a garanzia dei soggetti interessati (nella specie notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari), possa essere riconosciuto un effetto preclusivo alla interruzione della prescrizione, tenuto conto della lettera dell'art. 160, comma 2, c.p.p., della giurisprudenza di legittimità e dello specifico indirizzo giurisprudenziale che riconosce l'applicazione della norma di rito processualpenalistica anche agli atti di contestazione della responsabilità degli enti ai sensi degli art. 59 e 22, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 231/2001''.

    Il D.Lgs. n. 81/2008 (in sintonia con l'art. 9 della relativa Legge delega 3 agosto 2007, n. 123) ha inserito tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti i delitti di “omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.

    Una formula, questa, che esclude dal novero dei reati presupposto i delitti di lesione personale colposa lieve, nonché purtroppo i delitti di cui agli artt. 437 c.p. (omissione dolosa di cautele antinfortunistiche), 451 c.p. (omissione colposa di cautele antinfortunistiche), 449 c.p. (disastro colposo, ad esempio incendio o crollo colposo); le contravvenzioni alle norme di tutela della sicurezza e salute sul luogo di lavoro; i delitti di omicidio, lesione personale, incendio, dolosi (dolo eventuale).

    Il Tribunale condanna il datore di lavoro di una s.p.a. per il reato di lesione personale colposa in danno di un lavoratore infortunato e la stessa s.p.a. per il connesso illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/200, escludendo tuttavia l'aggravante dell'esser derivato dal fatto l'indebolimento permanente dell'organo della deambulazione. A sua volta, la Corte di appello dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato per prescrizione del reato, ma conferma la condanna della s.p.a. In seguito a ricorso della s.p.a., la Sez. IV annulla senza rinvio la condanna della s.p.a. perché il fatto non è previsto dalla legge come illecito della persona giuridica. Premette che ``l'art. 25-septies, dopo aver previsto la punibilità dell'ente per il reato di cui all'art. 589 c.p. commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza, stabilendo una variazione sanzionatoria a seconda che si tratti della violazione dell'articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro (comma 1) o di altre norme (comma 2)'', dispone al comma 3 che ``in relazione al delitto di cui all'articolo 590, comma 3, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote'', e che ``nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi''. Sottolinea che ``l'interpretazione unanime della disposizione è nel senso che la responsabilità della persona giuridica derivante dal comma 3 sia limitata alle lesioni colpose gravi o gravissime, dal momento che tale è l'oggetto della disposizione di cui al comma 3 dell'art. 590 c.p.''. Ciò posto, la Sez. IV prende atto che, ``nel caso di specie, la contestazione originaria ascriveva all'imputato di aver cagionato al lavoratore lesioni personali con prognosi di guarigione in giorni 40 s.c. ma con esiti invalidanti permanenti alla deambulazione quantificati nella misura del 9%''. Ne desume ``una locuzione plausibilmente interpretabile come alludente ad una sola delle ipotesi che danno luogo alla lesione grave ai sensi dell'art. 583, comma 1, n. 2) c.p., ovvero l'indebolimento permanente di un organo, non essendo esposto nell'imputazione che dal fatto era derivata una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni''. Sottolinea che ``il Tribunale ha svolto affermazioni che confermano tale interpretazione perché, pur dando atto che le fratture riportate dal lavoratore erano guarite in cinque mesi, ha escluso l'aggravante contestata all'imputato avendo ritenuto non provato l'indebolimento permanente di un organo'', con la conseguenza che ``la pena è stata determinata in un mese di reclusione, misura che risulta corretta se raffrontata alla cornice edittale prevista per le lesioni non aggravate ma che è illegale (in bonam partem) se considerato il minimo edittale previsto per lesioni gravi aggravate dalla violazione di norme prevenzionistiche'', ``né vi è stato concorso di circostanze eterogenee''. Conclusione: ``non avendo la Corte di appello portato alcuna modifica a tale statuizione, neppure solo per una corretta qualificazione giuridica del fatto, ritenendolo pur sempre aggravato in ragione della durata della malattia, si è consolidato, stante la mancata impugnazione della pubblica accusa, l'accertamento della sussistenza di un reato di lesioni personali non aggravate ai sensi dell'art. 590, comma 3, c.p. attribuibile all'imputato''.

    ``La responsabilità dell'ente presuppone il `delitto di cui all'articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro; pertanto essa ricorre solo quando il reato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente sia quello di omicidio colposo (o quello di lesioni colpose) commesso con violazione delle norme `sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro'. Si tratta di verificare se la locuzione `norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' stia ad indicare il medesimo oggetto designato dalla locuzione `norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro'. La prima locuzione utilizzata dal codificatore ha, per il diritto vivente, un'amplissima portata, sì da alludere a tutte le norme che costituiscono posizioni di gestione del rischio lavorativo e pongono regole cautelari volte alla prevenzione di o alla protezione da tale rischio. Questo, d'altro canto, si caratterizza per investire la salute e la sicurezza dei lavoratori e di quanti si trovino in posizione sostanzialmente equiparata nell'esposizione derivante dallo svolgimento di attività lavorativa''.

    ``Quanto ai reati contemplati dalla normativa antinfortunistica de qua, versandosi in materia penale in relazione alla quale la responsabilità è personale, l'ente (datore di lavoro) non può rispondere penalmente delle contravvenzioni commesse dal proprio legale rappresentante o dipendente, salvo non ricorrano i presupposti per la responsabilità `amministrativa' derivante da reato ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (segnatamente ex art. 25-septies, per omicidio o lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro)''.

    Nel confermare la condanna per violazione degli artt. 590, comma 3, c.p. e 25 septies D.Lgs. n. 231/2001, la Sez. IV mette in luce che un infortunio integra il reato presupposto di lesione personale colposa commesso con inosservanza delle ``norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro'' anche nel caso in cui non venga rispettato il precetto dell'art. 2087 c.c., ``in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40, comma 2, c.p.''.

    «L'impostazione ricostruttiva seguita dal provvedimento impugnato è inficiata da un vizio di fondo, laddove si è ritenuto di valorizzare, ai fini della responsabilità amministrativa delle società ricorrenti, una serie di fattispecie di reato [ossia, quelle normativamente descritte negli artt. 434, 437, 439 c.p.] del tutto estranee al tassativo catalogo dei reati-presupposto dell'illecito dell'ente collettivo e come tali oggettivamente inidonee, ex artt. 2, 5 e 24 ss. del D.Lgs. n. 231/2001, a fondarne la stessa imputazione di responsabilità. Né la rilevanza di quelle fattispecie può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, nella diversa prospettiva di una loro imputazione quali delitti-scopo del reato associativo, poiché in tal modo la norma incriminatrice di cui all'art. 416 c.p. - essa, sì, inserita nell'elenco dei reati-presupposto ex art. 24-ter del su citato D.Lgs., a seguito della modifica apportata dall'art. 2 della Legge 15 luglio 2009, n. 94 - si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal D.Lgs. n. 231/2001, in una disposizione `aperta', dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati- presupposto qualsiasi fattispecie di reato, con il pericolo di un'ingiustificata dilatazione dell'area di potenziale responsabilità dell'ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dall'art. 6 del citato D.Lgs., scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione».

    L'art. 1, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 231/2001 prevede che «le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica», e «non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale». In proposito, alcune sentenze della Suprema Corte hanno fatto scuola:

    - gruppi di imprese: Cass. pen. 9 dicembre 2016, n. 52316 - nel condividere l'orientamento espresso da Cass. 20 giugno 2011, n. 24583 - afferma che, ``in tema di responsabilità da reato od altro illecito degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un `gruppo' possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, del reato commesso nell'ambito dell'attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della `holding' stessa o dell'altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l'interesse di queste ultime, non essendo sufficiente - per legittimare un'affermazione di responsabilità ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo - l'enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale `interesse di gruppo''';

    - enti pubblici economici: Cass. pen. 10 gennaio 2011, n. 234 precisa che ``la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria ma non sufficiente per l'esonero dalla disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione dell'assenza di svolgimento di attività economica da parte dell'ente medesimo'', e che ``nel caso in questione appare pacifico lo svolgimento dell'attività economica da parte della s.p.a., che deve informare, tra l'altro, la propria attività a criteri di economicità consentendo la totale copertura dei costi della gestione integrata e integrale del ciclo dei rifiuti, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti dell'art. 2201 del c.c.'' (v., altresì, Cass. pen. 21 luglio 2010, n. 28699);

    - enti di diritto straniero: Cass. pen. 11 febbraio 2020, n. 11626 rileva, in particolare, come ``l'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, nel definire l'ambito applicativo delle disposizioni previste dallo stesso decreto legislativo, non preveda alcuna distinzione fra gli enti aventi sede in Italia e quelli aventi sede all'estero'', e come ``la responsabilità dell'ente ai sensi del decreto n. 231/2001 sia una responsabilità, sia pure autonoma, `derivata' dal reato, di tal che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto, a nulla rilevando che la colpa in organizzazione e dunque la predisposizione di modelli non adeguati sia avvenuta all'estero''; e sapientemente ricorda a futura memoria che ``deve essere recepito l'analogo principio di diritto di recente affermato dalla giurisprudenza di merito là dove ha ritenuto applicabile la disciplina del Decreto n. 231/2001 ad una società straniera priva di sede in Italia, ma operante sul territorio nazionale, in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali colposi (nel noto caso dell'incidente ferroviario di Viareggio) (v. Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222)'';

    - imprese individuali: nel distanziarsi da Cass. pen. 20 aprile 2011, n. 15657 (concernente una misura interdittiva della revoca dell'autorizzazione alla raccolta trasporto e conferimento di rifiuti speciali anche per violazione dell'art. 260, D.Lgs. n. 152/2006), Cass. pen. 23 luglio 2012, n. 30085 sostiene che ``la normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche non si applica alle imprese individuali, in quanto si riferisce ai soli soggetti collettivi'';

    - società unipersonali: Cass. pen. 25 ottobre 2017, n. 49056 chiarisce che ``la disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 è riferita agli enti, sintagma che evoca l'intero spettro dei soggetti di diritto non riconducibili alla persona fisica, indipendentemente dal conseguimento o meno della personalità giuridica e dallo scopo lucrativo o meno perseguito dagli stessi, come evidenzia in modo inequivoco il riferimento agli `enti forniti di personalità giuridica e ... associazioni anche prive di personalità giuridica' operato dall'art. 1, comma 2, di tale testo normativo'', e che, pertanto, ``se il presupposto indefettibile per l'applicazione del diritto sanzionatorio degli enti è l'esistenza di un `soggetto di diritto metaindividuale', quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, è certamente ascrivibile al novero dei destinatari del D.Lgs. n. 231/2001 anche la società unipersonale, in quanto soggetto di diritto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote''.

    Come si desume dall'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, l'ente è responsabile per i reati commessi vuoi da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (c.d. apici), vuoi da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti apicali (c.d. sottoposti). Il risultato cambia, a seconda che l'autore del reato presupposto appartenga alla categoria degli apici ovvero dei sottoposti. Indispensabile è, quindi, collocare ciascun autore del reato presupposto nella categoria degli apici o dei sottoposti. Emblematico questo caso:

    La Sez. IV premette che il D.Lgs. n. 231/2001, all'art. 5, ``distingue i soggetti apicali da coloro che a questi sono sottoposti''. Osserva che ``l'adozione e la efficace attuazione di un idoneo modello di organizzazione e gestione, unite alla elusione fraudolenta del medesimo, ha la funzione di dimostrare che, nonostante la compenetrazione tra operato dell'apicale ed ente, il reato commesso dal primo non è attribuibile al secondo'', là dove, ``per i soggetti sottoposti all'altrui direzione e controllo, il legislatore ha ritenuto non operante un tale meccanismo di trasposizione e pertanto ha individuato un diverso fattore di riconduzione del reato all'ente, rappresentato dalla violazione degli obblighi di direzione e di controllo facenti capo alla figura apicale''. Aggiunge che ``tale violazione ha la funzione di assicurare che il reato del sottoposto metta radici nella colpa di organizzazione dell'ente, tanto che ove sia stato adottato un idoneo modello di organizzazione e gestione e lo stesso sia stato anche efficacemente attuato, la violazione degli obblighi di controllo e di gestione perde la sua valenza indiziaria e degrada a fatto dell'apicale non espressivo della colpa di organizzazione dell'ente''. In questo quadro, diventa significativo il caso di specie: un infortunio sul lavoro addebitato dai magistrati di merito all'RSPP della s.r.l. [o s.p.a.?] datrice di lavoro, per giunta ``investito mediante procura speciale del potere di compiere scelte decisionali in piena autonomia in materia di sicurezza, esclusa ogni ingerenza dell'organo amministrativo e dotato di mezzi finanziari per l'adempimento dei compiti stessi, nei limiti dell'importo di euro 25.000'', e, dunque, ritenuto in possesso di ``poteri gestionali e di spesa che gli conferivano una veste di soggetto posto al vertice dell'azienda, tantoché aveva sottoscritto il Documento di Valutazione dei Rischi in qualità di datore di lavoro''. Di qui la condanna dell'RSPP per il reato di lesione personale colposa, nonché - previa configurazione di quell'RSPP alla stregua di un apice - della s.r.l. per il connesso illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 81/2008. La Sez. IV, invece, annulla con rinvio la condanna dell'ente. Afferma che l'art. 5, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 231/2001 non è rivolto ``ad individuare le posizioni apicali del settore lavoristico (datore di lavoro, dirigente, preposto), bensì a indicare, in termini generali e omnicomprensivi la massima espressione di rappresentanza e di gestione dell'ente-persona giuridica la cui responsabilità è determinata dalla commissione dei reati presupposto''. Spiega che, ``se la nozione di rappresentanza evoca, sotto il profilo sostanziale e processuale, un insieme di poteri in forza dei quali l'organo esprime all'esterno la volontà dell'ente in relazione agli atti che rientrano nell'esercizio delle sue funzioni ed essa costituisce, indipendentemente dal conferimento di specifiche procure, una conseguenza del ruolo dallo stesso rivestito all'interno della compagine, in quanto strumentale al perseguimento dei fini dell'ente, le nozioni di amministrazione e di direzione dell'ente o di una singola unità organizzativa richiamano, seppure sotto il profilo funzionale, la struttura stessa dell'ente evocando la massima espressione dei poteri di indirizzo, di elaborazione delle scelte strategiche, della organizzazione aziendale, della assunzione delle decisioni e dei deliberati attraverso i quali l'ente persegue le proprie finalità''. Aggiunge che ``la direzione implica, di regola, un atto di prepositura con la quale il dirigente viene indirizzato all'intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa e viene investito di attribuzioni che, per ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, pure nel rispetto delle direttive programmatiche dell'ente di imprimere un indirizzo o un orientamento al governo complessivo dell'azienda assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello''. In questa ottica, la Sez. IV esclude la riconducibilità dell'RSPP, pur se delegato, nel novero degli apici. Vuoi perché l'RSPP ``assume una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro'' (ma qui andrebbe aggiunto che, a norma dell'art. 2, comma 1, lettera f, D.Lgs. n. 81/2008, l'RSPP è ``persona designata dal datore di lavoro, a cui risponde''). Vuoi perché ``gli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro possono essere trasferiti ad un delegato (salvo quelli espressamente indicati come non delegabili dall'art. 17 D.Lgs. n. 81/2008), ma ciò determina l'attribuzione di un ben definito novero di competenze e non l'intera gestione aziendale, né la preposizione, in guisa di datore di lavoro, ad una unità produttiva'', e ``il delegato rimane sottoposto al più ampio potere del delegante, che viene esercitato anche sotto forma di vigilanza''. (Dove, a ben vedere, ``ai fini della individuazione delle persone dotate di funzioni di rappresentanza, di gestione e di direzione dell'ente e di una unità organizzativa provvista di autonomia finanziaria, non può prescindersi dai criteri identificativi fissati dagli istituti dell'ordinamento giuridico generale'', ma - in contrasto con quanto contraddittoriamente asserisce la presente sentenza - nemmeno da ``quelli di un particolare settore come quello lavoristico, ivi compresi gli strumenti deputati alla costituzione ovvero al trasferimento di funzioni da soggetti verticistici, quali la procura''). Di qui una importante implicazione: ``Ove si tratti di uno dei soggetti indicati dalla lettera a) dell'art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001, l'adozione e la efficace attuazione di idoneo MOG non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell'ente, ancora occorrendo che esso sia stato fraudolentemente eluso. Nel caso di soggetto sottoposto, secondo la nozione ricavabile dall'art. 5, lettera b), del D.Lgs. n. 231/2001, l'adozione e l'efficace attuazione di idoneo MOG è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'ente, anche quando il reato sia stato reso possibile dalla violazione degli obblighi di direzione e controllo gravanti sui soggetti apicali''.

    Dell'apice di fatto si occupa:

    Per l'infortunio a un dipendente adibito a un macchinario inidoneo a salvaguardare le esigenze di sicurezza, la s.a.s. datrice di lavoro - condannata per l'illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001 - deduce che l'imputato ``non rivestiva alcuna funzione di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa, dotata di autonomia finanziaria e funzionale, così come non esercitava, neppure di fatto, la gestione e il controllo dell'ente stesso'', e che ``tutte queste funzioni venivano espletate dalla figlia''. La Sez. IV ribatte: ``La figlia si occupava solo della parte amministrativa. L'imputato non aveva mai contestato il sostanziale ruolo di datore di lavoro, disponeva di poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa, rivestendo qualità di responsabile della produzione, con funzioni direttive, tanto da essere interlocutore, nelle specifiche ingiunzioni di adempimento, della ASL. In base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto esercita i poteri del datore di lavoro''.

    Tra le condizioni necessarie ai fini della sussistenza della responsabilità amministrativa degli enti, fa spicco quella prevista dall'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001: che il reato presupposto sia stato commesso dall'autore nell'interesse o a vantaggio dell'ente, e non nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. Peraltro, la Corte Suprema non su ogni profilo era apparsa concorde.

    a) Punti incontroversi

    Alcuni punti sono e restano pacifici dopo la sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp:

    ``I concetti di interesse e vantaggio, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all'evento; tali criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito; ricorre il requisito dell'interesse qualora l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un'utilità per l'ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto o della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso. Il `risparmio' in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione, tant'è vero che il vantaggio è stato ravvisato anche nella velocizzazione degli interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di lavorazione''.

    ``- i criteri dell'interesse o vantaggio di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 231/2001 sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre il secondo ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito;

    - i criteri dell'interesse o vantaggio vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, coerentemente alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali a strategie dell'ente, e a maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare e esito vantaggioso per l'ente;

    - il criterio d'imputazione va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto della norma cautelare''.

    b) Problemi discussi verso una soluzione condivisa

    Due interrogativi, invece, hanno a lungo diviso la giurisprudenza. Primo: è da escludere la responsabilità delle imprese in caso di violazione antinfortunistica non sistematica, ma isolata? Secondo: la responsabilità è, o no, da escludere in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito? Ultimamente, però, sembra emergere una soluzione condivisa.

    ``L'interesse o vantaggio può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei presidi di sicurezza; nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale; nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale; o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale. Esso, quindi, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto delle norme cautelari''. (V. anche Cass. 1° febbraio 2024 n. 4210).

    Con riguardo all'infortunio mortale per caduta da un tetto addebitato al datore di lavoro di una s.r.l. appaltatrice e al committente, nonché ex art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001 alla s.r.l., la Sez. IV, oltre ad annullare con rinvio la condanna del committente, conferma la condanna del datore di lavoro e della s.r.l., e a proposito della s.r.l. sviluppa una analisi relativa ai criteri dell'interesse e vantaggio: ``Il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente. Il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all'inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un'area rilevante di rischio aziendale. I giudici di merito hanno quindi dedotto la congiunta sussistenza degli elementi rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, atteso che i lavori erano stati eseguiti su un bene facente parte del patrimonio sociale della s.r.l., e che ne sarebbe conseguito un apprezzabile risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizione dei necessari presidi antinfortunistici''.

    ``I criteri di imputazione riferiti all'interesse e al vantaggio sono giuridicamente distinti: ii primo è criterio soggettivo, da valutare `ex ante', e consiste nella proiezione finalistica volta a far conseguire all'ente un profitto indipendentemente dall'effettiva realizzazione dello stesso, il secondo è criterio oggettivo, accertabile `ex post' e consiste nel concreto vantaggio derivato all'ente dal reato. Il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all'inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un'area rilevante di rischio aziendale'', ``e può altresì consistere nella velocizzazione dell'attività d'impresa, tale da incidere sui tempi di lavorazione''.

    ``La responsabilità amministrativa dell'ente non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica. Il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente Nella specie, la Corte di appello ha ritenuto sussistente il criterio di imputazione oggettiva rappresentato dall'interesse, evidenziando che l'autore del reato aveva consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un'utilità per l'ente, rimarcando anche che il risparmio di spesa avuto di mira, pur modesto, non era certo irrisorio; in particolare la violazione delle norme antinfortunistiche aveva riguardato una delle porte di accesso al cantiere e la mancanza di segnaletica informativa e l'omissione di interventi di manutenzione, necessari da tempo ed omessi per non incidere sui tempi della attività''.

    ``La responsabilità dell'ente non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di lesioni personali gravi''. ``In applicazione di tali principi, per i giudici di appello deve ritenersi pienamente provato il vantaggio di spesa per l'ente, nel senso di mancato decremento patrimoniale per l'utilizzo per le operazioni di calettamento in verticale di un solo lavoratore anziché di una coppia di lavoratori''. (Conforme Cass. 21 settembre 2023 n. 38470: ``il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all'inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un'area rilevante di rischio aziendale che può altresì consistere nella velocizzazione dell'attività d'impresa, tale da incidere sui tempi di lavorazione'').

    Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV prende atto che ``il deficit di sicurezza dal quale era derivato l'evento mortale era dipeso dal `minor impegno' da parte dei soggetti apicali, con conseguente vantaggio economico, laddove la Corte d'Appello ha ravvisato tale vantaggio nella mancata formazione di squadre di lavoro (personale aggiuntivo) per svolgere in sicurezza mansioni pericolose, omissione a sua volta direttamente ricollegata al problema organizzativo accertato (mancato affiancamento e informazione adeguata del lavoratore)''. E sostiene che ``la difesa si è limitata ad affermare che la giustificazione dei giudici territoriali sarebbe apparente, non avendo costoro quantificato il vantaggio, confondendo però piani diversi di valutazione, l'entità del vantaggio rilevando semmai ai fini della valutazione della graduazione della sanzione pecuniaria (art. 12 D.Lgs. n. 231/2001)''.

    ``In tema di responsabilità degli enti derivante da reati di lesioni personali colpose in violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 231/2001 è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all'inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un'area rilevante di rischio aziendale''. Nel confermare la condanna di una società per l'illecito amministrativo connesso con il reato di omicidio colposo, la Sez. IV ravvisa un ``sicuramente apprezzabile `vantaggio' per la società, in termini di risparmio di costi, derivante dal mancato adeguamento dell'impianto di segnalazione acustica e dalla mancata installazione di un adeguato presidio fisico di interdizione all'accesso nel letto di cava'', e, peraltro, ``non negato, nella misura di circa 1000 euro''.

    La Sez. IV opera un netto distinguo tra interesse e vantaggio. Afferma che ``l'interesse è un criterio soggettivo, il quale rappresenta l'intento del reo di arrecare un beneficio all'ente mediante la commissione del reato'', e, pertanto, ``è indagabile solamente ex ante ed è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato''. Ne desume che, ``nei reati colposi d'evento'' (quali i reati di omicidio o lesione commessi con violazioni antinfortunistiche), ``affinché l'interesse per l'ente sussista, sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l'ente (vale a dire un risparmio di spesa)'', e che ``la volontà di risparmiare è indispensabile affinché sussista l'interesse dell'ente''. Quanto invece al vantaggio, osserva che ``esso è criterio oggettivo, legato all'effettiva realizzazione di un profitto in capo all'ente quale conseguenza della commissione del reato, e per questo deve essere analizzato, a differenza dell'interesse, ex post''. Precisa che ``la condotta, nei reati colposi d'evento contro la vita e l'incolumità personale commessi sul lavoro, è rappresentata dalla violazione delle regole cautelari antinfortunistiche, ed è dunque in riferimento ad essa che bisognerà indagare se, ex post, l'ente abbia ottenuto un vantaggio di carattere economico''. Aggiunge che, ``qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l'ente''. Ne ricava che, ``in tale schema, marcatamente obiettivo, non è necessario che il reo abbia volontariamente violato le regole cautelari al fine di risparmiare, in quanto la mancanza di tale volontà rappresenta la sostanziale differenza rispetto all'interesse, ma solamente che risulti integrata la violazione delle regole cautelari contestate''. Altro chiarimento: ``quanto alla consistenza del vantaggio, deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata''.

    ``La responsabilità dell'ente è configurabile qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme infortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso. Né nella specie appare corretto invocare la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, quando l'inosservanza delle regole cautelari sia occasionale e il vantaggio per l'ente sia esiguo, la prova della prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto deve essere fornita in termini rigorosi, laddove nella specie i giudici di merito hanno esplicitato con motivazione congrua e priva di evidenti contraddittorietà ed illogicità che il risparmio di spesa fu tutt'altro che trascurabile soprattutto in relazione ai costi di segregazione dell'area di lavoro e degli accorgimenti tecnici che sarebbero valsi a rendere il complesso macchinario privo di pericoli in ragione della prosecuzione del movimento delle lame (mediante un braccetto distanziatore)''.

    ``Non si era in presenza di inosservanze occasionali o dettate da una sottovalutazione dei rischi connessi al mancato rispetto di disciplina prevenzionistica, ma le lacune accertate attenevano a snodi fondamentali della gestione aziendale nella cura della formazione del personale e della individuazione delle corrette pratiche lavorative e dei rischi ad esse collegati, e dall'altro individuando una triplice componente del vantaggio economico conseguito in termini di risparmio di spesa (costi per la formazione, predisposizione DVR, impiego di manodopera per i controlli), e, al contempo, ravvisando la prospettiva di una maggiore produttività nelle lavorazioni, con riduzione dei tempi di lavoro (procedure più snelle, meno controlli, ridotta formazione). La responsabilità dell'ente è configurabile qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme infortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso. Né nella specie appare corretto invocare la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, quando l'inosservanza delle regole cautelari sia occasionale e il vantaggio per l'ente sia esiguo, la prova della prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto deve essere fornita in termini rigorosi, laddove nella specie il risparmio di spesa fu tutt'altro che trascurabile soprattutto in relazione ai costi di formazione, essendo risultato che i dipendenti pure assegnati a compiti prepositurali (foreman) erano sostanzialmente privi di esperienza e di formazione per quelle lavorazioni, dal contenuto specialistico, che richiedevano uno specifico addestramento che, nella specie, era stato sostituito dai consigli e dall'esempio dei colleghi più anziani che si erano occupati di trasporti similari''.

    A sua discolpa, l'azienda sostiene che si tratta di un risparmio minimo (pari 1.860,00 euro) rispetto alla maggior somma impiegata per l'adeguamento del complessivo sistema antinfortunistico (pari a circa 100.000-130.000 euro). Ma i magistrati di merito la pensano diversamente: un ``risparmino'', è vero, ma comunque consistente ai fini della sussistenza del criterio oggettivo d'imputabilità della responsabilità dell'ente. Perché collegato al mancato rispetto delle regole cautelari, a prescindere da una astratta valutazione aritmetica della spesa non sostenuta rispetto alle capacità patrimoniali dell'ente ovvero alle maggiori somme da queste impiegate per la tutela della sicurezza dei lavoratori. E dunque un risparmio di spesa certo esiguo e limitato, ma comunque tale da integrare vantaggio per l'ente. Questi i passaggi determinanti del ragionamento che induce la Sez. IV ad accogliere l'impostazione dei magistrati di merito:

    - la responsabilità dell'ente non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di lesioni personali gravi;

    - l'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente, tanto più che l'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001 non richiede la natura sistematica delle violazioni della normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati;

    - il requisito della commissione del reato nell'interesse dell'ente non richiede una sistematica violazione di norme antinfortunistiche ed è ravvisabile anche in relazione a trasgressioni isolate se altre evidenze fattuali dimostrano il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente, ed anche un'unica violazione ben può fondare la prova della `colpa di organizzazione' fondante l'addebito amministrativo;

    - per impedire un'automatica applicazione della norma che ne dilati a dismisura l'ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione, anche isolata, l'esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell'interesse e/o del vantaggio, e, quindi, la responsabilità dell'ente, ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza, e ciò perché proprio il generale contesto di complessiva osservanza della disciplina cautelare concorre ad accreditare il difetto della `colpa di organizzazione', sotto il profilo della non prevedibilità per l'ente della regola cautelare risultata trascurata, peraltro a condizione che la violazione non insista su un'area di rischio di rilievo, perché diversamente risulta impraticabile sostenere l'assenza della colpa di organizzazione, rispetto ad una violazione di una regola cautelare essenziale per il buon funzionamento del sistema di sicurezza.

    Sulla scorta di queste considerazioni, la Sez. IV conclude, con riguardo al caso di specie, che non solo si è dato adeguato risalto alla `irrisorietà' del risparmio, ma si è anche precisato che la violazione afferiva ad un'area di rischio inerente ad un settore di rilievo, derivandone la dimostrazione del collegamento oggettivo tra la condotta del reo e il vantaggio, pur patrimonialmente esiguo, per l'ente.

    Il dipendente stagionale di una società esercente attività di raccolta e lavorazione dell'uva e successiva commercializzazione dei relativi prodotti, nell'esecuzione delle proprie mansioni, scivola, a causa del pavimento bagnato, inserendo la mano sinistra all'interno della vasca di raccolta dell'uva, in quanto priva della necessaria griglia di protezione, così riportando lesioni gravi all'arto in forza del suo contatto con la coclea (macchina idraulica per sollevamento dei liquidi). L'addebito mosso al presidente del consiglio di amministrazione, quale reato presupposto dell'illecito amministrativo, è stato contestato a titolo di colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché nella violazione dell'art. 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, per aver messo a disposizione del lavoratore un meccanismo privo dei requisiti per la sicurezza dei lavoratori, essendo la detta vasca di convogliamento priva di protezione per evitare contatti accidentali con la coclea. Con riferimento a questo reato presupposto, commesso da soggetto in posizione apicale, i magistrati di merito avevano ritenuto la responsabilità dell'ente ex art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001. E ciò, si badi, nonostante l'adozione di un modello organizzativo, ma con sistemi di controllo inidonei alla prevenzione dell'infortunio, in ragione del vantaggio tratto dalla condotta di cui al reato e consistito in un risparmio di spesa, conseguito dall'omessa installazione di una griglia metallica fissata all'estremità della vasca e avente la funzione di evitare il contatto con la coclea.

    ``In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, da riferire entrambi alla condotta del soggetto agente e non all'evento, ricorrono, rispettivamente, il primo, quando l'autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso''. Avverte che ``la responsabilità amministrativa dell'ente derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di lesioni personali gravi''. Aggiunge che ``il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente''. Insegna che ``il criterio di imputazione del `vantaggio' può sussistere anche in relazione ad una singola condotta, quando il `vantaggio' è oggettivamente apprezzabile ed eziologicamente collegato a questa, e la medesima integra la realizzazione di una delle fattispecie di reato previste dal D.Lgs. n. 231/2001 ed è riferibile ad una persona agente per conto dell'ente a norma dell'art. 5 del medesimo D.Lgs.''. Spiega che ``il `vantaggio' deve discendere dalla commissione del reato, in quanto, a norma dell'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001, `[l]'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio', ovviamente se rientranti nell'elenco di quelli specificamente previsti come idonei a fondare la responsabilità amministrativa di cui al D.Lgs. n. 231/2001''. Osserva ancora che ``la responsabilità dell'ente è ricollegata al singolo reato, come si desume dal dato testuale di numerose disposizioni del sistema di cui al D.Lgs. n. 231/2001, quali, ad esempio, l'art. 6, comma 1, e l'art. 7, comma 1'', e che ``non vi sono preclusioni normative od ontologiche di carattere generale alla possibilità di individuare un `vantaggio' per l'ente che derivi da un singolo reato tra quelli espressamente previsti dal D.Lgs. n. 231/2001, sempre che lo stesso sia oggettivamente apprezzabile''. E precisa che ```l'interesse', come anche il `vantaggio', deve essere apprezzato con specifico riguardo alla condotta realizzata in violazione delle regole cautelari''.

    Condanna di una s.n.c. per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001 connesso al delitto di lesione personale colposa addebitato al socio amministratore incaricato per la sicurezza della s.n.c. in danno di un dipendente che ``stava attraversando un piazzale adibito al deposito e alla movimentazione delle merci con mezzi meccanici e fu investito da un muletto in retromarcia condotto da altro dipendente della medesima società''. Colpa dell'imputato: ``non aver predisposto una segnaletica orizzontale idonea ad individuare vie di circolazione sicure all'interno del piazzale (art. 163, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008); non aver provveduto alla manutenzione del carrello elevatore, che aveva il cicalino di segnalazione della retromarcia non funzionante (art. 71, comma 4, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008); non aver dotato il carrello elevatore di uno specchietto retrovisore (art. 15 D.Lgs. n. 81/2008)''. Reato, d'altra parte, commesso ``nell'esclusivo interesse dell'ente, in assenza di procedure amministrative volte a controllarne l'operato''. Dopo aver precisato che la responsabilità della società è stata dichiarata con esclusivo riferimento al parametro di imputazione dell'interesse e non del vantaggio, la Sez. IV rileva come ``tale criterio soggettivo di imputazione debba essere indagato ex ante e consista nella prospettazione finalistica, da parte del reo-persona fisica, di arrecare un interesse all'ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato o meno concretamente raggiunto''. Nel caso di specie, prende atto che, a dire dei magistrati di merito, le modalità organizzative adottate dall'imputato - in particolare, la scelta di non predisporre segnaletica orizzontale in un piazzale nel quale erano accumulate grandi quantità di merci e vi erano numerosi spostamenti in contemporanea di uomini e mezzi - erano ``sicuramente molto meno dispendiose e finalizzate quindi ad un risparmio di spesa'', e che era, ``perciò, irrilevante che quel risparmio fosse stato `esiguo' se raffrontato alle spese che ordinariamente la società sostiene per la manutenzione (documentate dalle schede contabili prodotte dall'ente)''. Ciò premesso, la Sez. IV formula queste indicazioni:

    - ``il `risparmio' per l'impresa, nel quale si concretizza il criterio di imputazione oggettiva rappresentato dall'interesse, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione e un tale risparmio si può realizzare anche consentendo lo spostamento simultaneo di uomini e mezzi senza delimitare le rispettive aree di azione'';

    - ``il requisito della commissione del reato nell'interesse dell'ente non richiede una sistematica violazione di norme antinfortunistiche ed è ravvisabile anche in relazione a trasgressioni isolate se altre evidenze fattuali dimostrano il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente'';

    - ``nel caso in esame, la violazione delle norme in materia di prevenzione infortuni risulta essersi protratta nel tempo''.

    In questo quadro, la Sez. IV considera irrilevante nel caso concreto ``la circostanza che il risparmio conseguito per la mancata adozione delle misure antiinfortunistiche sia stato minimo a fronte delle spese ingenti che la società affronta per la manutenzione e la sicurezza''. Nel far riferimento proprio alla sentenza sopra citata Cass. 8 giugno 2021, spiega che ``non ha applicazione generale il principio affermato - secondo cui, `ove il giudice accerti l'esiguità del risparmio di spesa derivante dall'omissione delle cautele dovute', per poter affermare che il reato è stato realizzato nell'interesse dell'ente `è necessaria la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quelle della tutela dei lavoratori''', e che, ``come emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza in parola, tale principio può operare soltanto `in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro' e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare determinate cautele, `abbia agito proprio allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica''', e ``può applicarsi, dunque, soltanto in situazioni nelle quali l'infortunio `sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un'errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori' e non quando, come nel caso di specie, quel rischio sia stato valutato esistente dallo stesso datore di lavoro, e le misure per prevenirlo, indicate nel documento di valutazione del rischio, siano state poi consapevolmente disattese per un lungo periodo di tempo''.

    La Sez. IV esclude la sussistenza dell'interesse o vantaggio in un caso d'infortunio mortale al nostromo su un'imbarcazione per la pesca delle vongole. Evoca la necessità di una ``violazione sistematica''. Rileva che ``la mancata adozione delle precauzioni poi imposte dall'ASL non corrispondeva ad una scelta nell'organizzazione del lavoro concretamente adottata dalla società e finalizzata a privilegiare le esigenze della produzione e del profitto a scapito della sicurezza del lavoratore, non assumendo rilievo le condotte derivanti dalla semplice imperizia, dalla mera sottovalutazione del rischio o anche dall'imperfetta esecuzione delle misure antinfortunistiche da adottare''. E nega, altresì, la ricorrenza del vantaggio, ``atteso che non è risultato che l'omessa adozione di quelle precauzioni a\/esse incrementato o potesse incrementare la produttività della società'', né che l'adozione di tali precauzioni ``avesse comportato dei costi per la società''.

    ``I criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, da riferire entrambi alla condotta del soggetto agente e non all'evento, ricorrono, rispettivamente, il primo, quando l'autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV pone in risalto che, ``in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il risparmio in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione''.

    Per un'ipotesi di esclusione dell'interesse-vantaggio:

    Condanna per omicidio colposo dell'armatore-comandante-conducente, di un'imbarcazione per la pesca delle vongole, ma esclusione della responsabilità amministrativa della s.n.c. La Sez. IV rileva ``come, nella vicenda in esame, non ricorresse il requisito dell'interesse poiché la mancata adozione delle precauzioni poi imposte dall'ASL non corrispondeva ad una scelta nell'organizzazione del lavoro concretamente adottata dalla società e finalizzata a privilegiare le esigenze della produzione e del profitto a scapito della sicurezza del lavoratore, non assumendo rilievo le condotte derivanti dalla semplice imperizia, dalla mera sottovalutazione del rischio o anche dall'imperfetta esecuzione delle misure antinfortunistiche da adottare'', e come non ricorresse il requisito del vantaggio, ``atteso non è risultato che l'omessa adozione di quelle precauzioni avesse incrementato o potesse incrementare la produttività della società, né che il mero spostamento dei comandi in modo da garantire la visuale avesse comportato dei costi per la società''.

    Perché sia ravvisabile la responsabilità amministrativa, occorre che l'impresa versi in colpa, la c.d. colpa di organizzazione. E questa colpa di organizzazione sussiste in caso di omessa adozione del MOG. Prosperano, tuttavia, equivoci sul contenuto del MOG. Un equivoco soprattutto. Ancora adesso molte imprese confondono il MOG con il DVR. È, quindi, con soddisfazione che, alla fine, dopo iniziali incertezze, abbiamo sentito dire dalla Cassazione che il ``MOG è cosa diversa dal DVR''. Il fatto è che il DVR direttamente descrive le misure di prevenzione e di protezione attuate. Il MOG, invece, illustra le attività effettuate al fine di garantire l'adempimento degli obblighi di sicurezza (ad es., le attività svolte dall'organismo di vigilanza).

    ``La colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. L'illecito dell'ente è costituito da una fattispecie complessa, della quale il reato presupposto è uno degli elementi essenziali; e ciò che fa di esso un illecito `proprio' dell'ente, nel senso più rigoroso imposto dall'art. 27 Cost., è l'ulteriore elemento essenziale rappresentato dalla colpa di organizzazione La colpa di organizzazione e l'assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, implica che la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 D.Lgs. n. 231/2001 e all'art. 30 del D.Lgs. n. 81/2008 non è un elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, dovendosi ribadire che il verificarsi del reato non implica ex se l'inidoneità o l'inefficace attuazione del modello organizzativo che sia stato adottato dall'ente. Il modello organizzativo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui agli artt. 17, 18, 28 e 29 D.Lgs. n. 81/2008. Mentre questo individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli, il modello di organizzazione è strumento di governo del rischio di commissione di reati da parte di taluno dei soggetti previsti dall'art. 5 del decreto. Esso delinea l'infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici, discendenti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi. Date simili premesse è del tutto palese che edificare la responsabilità dell'ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico''.

    Quanto alla ``doglianza relativa all'omessa verifica sulla adozione e sulla idoneità del modello organizzativo'', la Sez. IV rileva che ``i magistrati di merito evidenziano che il modello organizzativo adottato non era stato efficacemente attuato'', e ``ciò in quanto, pur essendosi provveduto all'analisi delle macro-attività sensibili ex art 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, manca la previsione di una costante attività di monitoraggio sulle misure prevenzionistiche approntate in azienda e di adeguamento della specifica procedura lavorativa ai rischi propri dell'attività dei montatori'' oggetto di infortunio.

    ``La colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli''. ``Peraltro, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l'appunto, della `colpa di organizzazione', che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato''. ``L'ente risponde per fatto proprio e per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva deve essere verificata una colpa di organizzazione dell'ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. È il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all'accusa, pertanto, dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro. Si tratta di un'interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della colpa di organizzazione dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione `colpevole' (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall'accusa e l'ente può dimostrarne l'assenza, gli elementi costitutivi dell'illecito essendo rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica `rafforzata', ma anche da tale colpa di organizzazione, oltre che dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due''.

    La Sez. IV evoca la ``colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, ricollegata cioè al rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli''. Precisa che, ``ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della `colpa di organizzazione', che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato''. Ne desume che, ``per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva, deve essere verificata una `colpa di organizzazione' dell'ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato'', e che ``è il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo''. Quanto al regime probatorio della colpa di organizzazione, osserva la Sez. IV che ``spetta all'accusa dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro''. Aggiunge che ``si tratta di un'interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della `colpa di organizzazione' dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione `colpevole' (ovvero rimproverabile) della regola cautelare''. E conclude che ``essa va dimostrata dall'accusa e l'ente può dimostrarne l'assenza, gli elementi costitutivi dell'illecito essendo rappresentati dalla immedesimazione organica `rafforzata', ma anche da tale colpa di organizzazione, dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due''. (Conforme Cass. 21 settembre 2023 n. 38470, ove si rileva che ``il giudice di merito ha congruamente verificato basandosi su elementi di fatto concreti, raccolti in istruttoria [testimonianze sopralluoghi rilievi fotografici] la prevedibilità ed evitabilità dell'evento qualora fosse stato adottato il modello `virtuoso', riguardante le misure di sicurezza'').

    ``Gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l'infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro, e, quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro'', e ``tali profili, di per sé, nulla hanno a che vedere con l'elemento `colpa di organizzazione', che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo imputabile all'ente''.

    Tra i temi da esplorare in tema di responsabilità amministrativa nel settore della sicurezza sul lavoro, fa spicco il regime probatorio della colpa di organizzazione disciplinato dagli artt. 6 e 7 D.Lgs. n. 231/2001 (in argomento l'e-book Guariniello, op.cit., 80 s.). Spetta all'accusa dimostrare la sussistenza della colpa in caso di reato commesso da un sottoposto come il dirigente o il preposto. Ma in ipotesi di reato commesso da un apice come il datore di lavoro spetta all'ente dimostrare l'insussistenza della colpa. E malgrado i dubbi ripetutamente sollevati al riguardo dagli enti in sede processuale, la Corte di Cassazione ha più volte ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma dettata dall'art. 6 D.Lgs. n. 231/2001 ed escluso la ``violazione dei presidi costituzionali relativi al principio di uguaglianza e all'esercizio del diritto di difesa'', ``gravando comunque sull'accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al D.Lgs. n. 231, art. 5, e la carente regolamentazione interna dell'ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria''. Certo è che, in più processi, risulta affermata la responsabilità dell'ente proprio sul presupposto che l'ente ``non abbia provato la sussistenza delle circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi dell'art. 6 D.Lgs. n. 231/2001'' (v., ad es., Cass. pen. 16 aprile 2018, n. 16713, in Dir.prat.lav., 2018, 20, 1283, relativa a un infortunio mortale sul lavoro). Tutte da leggere, in un simile contesto, sono queste sentenze:

    La Sez. IV afferma che l'efficace adozione del MOG ``consente all'ente di non rispondere dell'illecito'', ma che la sua mancanza, ``di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità''. Sottolinea ``la necessità che sussista la c.d. `colpa di organizzazione' dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato''. Precisa che ``la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 231/2001 e all'art. 30 del D.Lgs. n. 81/2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall'accusa, mentre l'ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa''. Ne ricava che ``l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente''. E annulla con rinvio la condanna di una s.p.a. per l'illecito amministrativo connesso a omicidio colposo per infortunio sul lavoro, poiché ``i giudici di merito avrebbero dovuto approfondire anche e soprattutto l'aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa, in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto''.

    ``In tema di responsabilità dell'ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, grava sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito dell'ente, mentre a quest'ultimo incombe l'onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001, sollevata con riferimento all'art. 27 Cost., poiché l'ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda''. ``In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica compete al giudice di merito, investito da specifica deduzione, accertare preliminarmente l'esistenza di un modello organizzativo e di gestione ex art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001; poi, nell'evenienza che il modello esista, che lo stesso sia conforme alle norme; infine, che esso sia stato efficacemente attuato o meno nell'ottica prevenzionale, prima della commissione del fatto''. Nel caso di specie (relativo all'illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a, e 25 septies del D.Lgs. n. 231/2001 connesso a omicidio colposo addebitato al datore di lavoro e al preposto di una s.r.l. facente parte di un'A.T.I. appaltatrice di lavori edili in danno di un lavoratore distaccato nell'ambito di un nolo a caldo), la Sez. IV annulla con rinvio ``la statuizione sulla responsabilità amministrativa dell'ente'': ``Risulta del tutto omessa nelle sentenze di merito la valutazione sul contenuto e sulla idoneità del modello organizzativo, rinvenendosi soltanto considerazioni circa il P.O.S., che è cosa diversa. I giudici di merito hanno svolto l'equazione `responsabilità penale della persona fisica datore di lavoro/preposto = responsabilità amministrativa dell'ente', trascurando l'articolata disciplina posta dal D.Lgs. n. 231/2001''.

    L'art. 39, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001 dispone che «l'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo». In merito:

    ``I principi invocati dalla s.p.a. ricorrente, come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, effettivamente sono nel senso che il legale rappresentante indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa della condizione di incompatibilità in cui versa, alla nomina del difensore dell'ente per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 D.Lgs. n. 231/2001. Si è, infatti sostenuto che il divieto di rappresentanza stabilito dall'art. 39 è funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo: tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se l'ente partecipasse al procedimento attraverso la rappresentanza di un soggetto portatore di interessi confliggenti da un punto di vista sostanziale e processuale. Ne consegue che la mancata nomina di un difensore d'ufficio in sostituzione del difensore di fiducia nominato dal rappresentante legale incompatibile, in violazione del divieto ex art. 39, comporta la nullità degli atti successivi ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., applicabile in forza del richiamo alle norme del codice di procedura penale contenuto nell'art. 34 D.Lgs. n. 231/2001. Il nostro caso, tuttavia, è differente, in quanto non vi è stata nomina da parte del legale rappresentante della società, imputato, del difensore dell'ente, nomina che effettivamente per le ragioni anzidette avrebbe dovuto ritenersi viziata, ma all'ente è stato nominato lo stesso difensore di ufficio dell'imputato. Il ricorrente lamenta non già l'omessa notifica della citazione a giudizio dell'ente, bensì solo la mancanza della costituzione in giudizio ai sensi dell'art. 39 D.Lgs. n. 231/2001, in quanto non validamente avvenuta (o addirittura non avvenuta). Invero, ai sensi dell'art. 41 D.Lgs. n. 231/2001, l'ente che non si costituisce nel processo deve essere `dichiarato contumace', sicché ben si poteva procedere in assenza, non ravvisandosi sotto tale profilo alcuna nullità. Ai sensi dell'art. 40 D.Lgs. n. 231/2001, l'ente che non ha nominato un difensore di fiducia `è assistito da un difensore di ufficio'. Agli atti risulta che l'ente è stato assistito dal difensore di ufficio, nominato difensore di ufficio anche dell'imputato e risulta, altresì, che in grado di appello, lo stesso avvocato è stato nominato difensore di fiducia sia dall'imputato, sia dal legale rappresentante dell'ente. I segnalati profili di nullità della sentenza di primo grado sono, dunque, insussistenti: la s.p.a. è stata citata a giudizio ed è stata assistita nel corso del giudizio da un difensore di ufficio e non già da un difensore nominato dall'imputato. Né può ipotizzarsi una eventuale incompatibilità (peraltro mai dedotta), per il fatto che sia l'imputato, sia l'ente sono stati assistiti, in primo grado e in appello, dallo stesso difensore. È sufficiente, a tale fine, ribadire che in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, l'assunzione, da parte del medesimo difensore, della difesa sia dell'ente che dell'imputato del reato presupposto, è causa di nullità solo se risulti un effettivo e concreto pregiudizio per il singolo assistito, ovvero quando le linee difensive dei due soggetti risultino in concreto tra loro inconciliabili. Nel caso di specie, non si versa nell'ipotesi della nullità, posto che non risulta, né è stato dedotto un effettivo e concreto pregiudizio per il singolo assistito, ovvero l'inconciliabilità delle linee difensive''.

    ``L'avvocato della s.r.l. incolpata della violazione dell'art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001 è stato nominato dal rappresentante legale imputato. ln tema di responsabilità da reato degli enti, la mancata nomina di un difensore d'ufficio in sostituzione del difensore di fiducia dell'ente, nominato dal rappresentante legale incompatibile in violazione del divieto ex art. 39 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, comporta la nullità degli atti successivi ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. In tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell'ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 D.Lgs. n. 231/2001''.

    ``Si è esclusa l'ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo penale nei confronti dell'ente, fatta salva l'ipotesi in cui l'ente sia citato come responsabile civile, ritenendosi che l'assenza di ogni riferimento espresso alla parte civile nel D.Lgs. n. 231/2001 sia frutto di una scelta consapevole del legislatore, che ha dunque operato intenzionalmente una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica. Uno degli argomenti a sostegno dell'inammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell'ente si fonda sull'art. 27 D.Lgs. n. 231/2001, che limita la responsabilità patrimoniale dell'ente all'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria senza fare alcuna menzione delle obbligazioni civili, nonché sull'art. 54 del medesimo testo normativo che, derogando alle finalità del sequestro conservativo disciplinate dall'art. 316 c.p.p., limita tale forma di sequestro nei confronti dell'ente al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare menzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato. Inoltre, gli artt. 12 e 17, che consentono all'ente di ottenere l'esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonché l'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di profitto che può essere restituita al danneggiato, fanno riferimento al danno derivante dal reato e non a quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente, non potendosi sulla base di tali disposizioni configurare conseguenze dannose derivanti dall'illecito amministrativo. Ne discenderebbe, secondo alcuni, l'inutilità pratica dell'istituto della costituzione di parte civile in un procedimento volto all'accertamento di un illecito che, sul piano dogmatico, non pare comunque produttivo di danni diretti e immediati diversi e ulteriori rispetto a quelli che sono conseguenza del reato presupposto. Per altro verso, il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. `ravvedimento operoso' è circostanza del tutto neutra rispetto al tema in esame. Ne deriva che non si vede quale effetto favorevole le parti civili potrebbero lucrare dall'accoglimento del presente motivo di ricorso. A ciò si aggiunga che la circostanza che l'illecito dell'ente non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica esclude l'applicabilità dell'art. 185 c.p., che si riferisce al reato in senso tecnico. La circostanza che l'illecito dell'ente sia fonte di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c. consente al danneggiato di promuovere l'azione in sede civile. La stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 18 luglio 2014, ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p. e di tutte le disposizioni del D.Lgs. n. 231/2001 nella parte in cui non prevedono espressamente e non permettono che le persone offese vittime del reato possano chiedere direttamente alle persone giuridiche e agli enti il risarcimento in via civile nel processo penale dei danni subiti; a tale conclusione la Consulta è pervenuta sul presupposto che l'illecito ascrivibile all'ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica, nonché sull'ulteriore valutazione per cui la citazione dell'ente come responsabile civile non è preclusa dalla previsione dell'art. 83 c.p.p. in quanto, non coincidendo l'illecito amministrativo con il reato, l'ente e l'autore del reato non possono qualificarsi come coimputati essendo ad essi ascritti due illeciti strutturalmente diversi. Ulteriore avallo è stato fornito dalla pronuncia delta CGUE, Sez. II, Giovanardi C-79/11 del 12 luglio 2012, posto che in tale pronuncia la Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi su rinvio pregiudiziale del giudice italiano sul se le disposizioni del D.Lgs. n. 231/2001 relative alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, laddove non prevedono la possibilità che esse siano chiamate a rispondere, nell'ambito del processo penale, dei danni da esse cagionati alle vittime di un reato, siano compatibili con l'art. 9 della Decisione quadro 2001/220/GAI, ha asserito che, anche sposando la soluzione negativa in merito all'ammissibilità della costituzione di parte civile, il sistema normativo contenuto nel D.Lgs. n. 231/2001 non sarebbe comunque in contrasto con l'obbligo di cui all'art. 9 § 1 della Decisione quadro, posto che per il rispetto di tale prescrizione è sufficiente che l'ordinamento nazionale consenta alla vittima di costituirsi parte civile contro la persona fisica autrice del reato''. (Conformi già Cass. pen. 9 dicembre 2019 n. 49785; Cass. pen. 27 gennaio 2015 n. 3786; Cass. pen. 22 gennaio 2011 n. 2251; e ultimamente Cass. 26 gennaio 2024 n. 3211).

    Continua a passare inosservata:

    Un'azienda esercente l'attività di costruzione di imbarcazioni affidò in appalto a una s.r.l. lavori di installazione di pannelli solari sul tetto di un proprio capannone industriale. Quattro lavoratori interinali utilizzati dalla s.r.l. appaltatrice precipitarono dal tetto del capannone sito ad un'altezza di circa dieci metri: uno morì, gli altri subirono lesioni gravissime. Per i reati di omicidio e lesioni fu condannato, in particolare, il rappresentante legale dell'azienda committente. Fu condannata, altresì, ai sensi dell'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, la stessa società committente. L'imputato deduce ``l'erronea applicazione della legge ove era stata riconosciuta la ammissibilità della costituzione di parte civile del Sindacato, in assenza di lesione di un diritto soggettivo, avendo per oggetto il processo la lesione del bene vita e della integrità fisica di persone individuali ben determinate''. A sua volta, la società committente lamenta ``la erronea applicazione della legge sul mancato rilievo della inammissibilità della costituzione di parte civile del sindacato''. Nel respingere il ricorso vuoi dell'imputato, vuoi della società committente ``quanto alla censura relativa alla ritenuta legittimazione del sindacato (Camera del Lavoro provinciale CGIL) a costituirsi parte civile'', la Sez. IV richiama ``la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale è ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali''. E con il giudice di merito osserva che ``la gravità dell'incidente, che ha visto vittime quattro operai impegnati in un'azienda di rilevante importanza, costituiva una circostanza idonea a minare la credibilità dell'operato del Sindacato in tema di sicurezza, dal che la legittimazione alla costituzione''.

    Patteggiamento a una s.r.l. quale ente responsabile per il reato di cui all'art. 590, comma 3, c.p., in relazione all'art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001, con sanzione pecuniaria di euro 12.900,00, corrispondente a n. 50 quote societarie, e le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, per la durata di mesi tre. La Sez. IV annulla senza rinvio limitatamente alla statuizione, che elimina, relativa all'applicazione delle sanzioni interdittive: ``In primo luogo rileva il condivisibile principio per il quale, in tema di responsabilità da reato degli enti, le sanzioni interdittive sono sanzioni `principali' e non `accessorie', per cui, in caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., queste ultime devono essere oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo ed alla durata delle stesse e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell'accordo medesimo. La natura di sanzioni `principali', e non `accessorie', delle sanzioni interdittive è, in particolare, desumibile dai contenuti della norma dell'art. 14 D.Lgs. n. 231/ 2001, che ne definisce le modalità di commisurazione e di scelta, richiamando il corrispondente art. 11 sulle sanzioni pecuniarie quanto all'individuazione dei criteri per la loro determinazione nel tipo e nella durata, tenendo conto dell'idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Appare evidente, pertanto, come nel caso di `patteggiamento' l'applicazione delle sanzioni interdittive possa essere consentita solo all'esito di un espresso accordo processuale intervenuto tra le parti, mediante il quale vengano preventivamente stabiliti il tipo e la durata della sanzione ex art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001 in concreto da applicarsi. Ne consegue l'illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha applicato cumulativamente le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, in quanto ultra petita, per averle disposte in violazione dell'accordo processuale raggiunto dalle parti, avente ad oggetto la sola sanzione pecuniaria. Il rapporto negoziale intercorso tra le parti preclude, infatti, al giudice di applicare una sanzione diversa da quella concordata, in quanto la modifica in peius del trattamento sanzionatorio, sia pure nei limiti della misura legale, altera i termini dell'accordo ed incide sul consenso prestato. L'impugnata sentenza è, altresì, viziata per l'assoluta genericità e carenza di motivazione con cui il giudice di merito ha cumulativamente applicato tutte le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001. La scelta della sanzione interdittiva concretamente da applicarsi, infatti, deve avvenire nel rispetto dei criteri fissati (per le sanzioni pecuniarie) dall'art. 11 del suddetto D.Lgs. n. 231/2001 - e cioè: `tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell'ente nonché dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti' nella ricorrenza di almeno una delle condizioni richieste dalle lett. a) e b) del successivo art. 13 - ovvero qualora: `a) l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative; b) in caso di reiterazione degli illeciti', altresì provvedendo alla determinazione del relativo tipo e della sua durata, in ossequio a quanto previsto dall'art. 14 del D.Lgs. n. 231/2001. Tutto ciò non può che essere svolto mediante un percorso logico ed argomentativo che il giudice è tenuto a rappresentare, sia pur succintamente, nella motivazione del provvedimento applicativo della sanzione interdittiva. È indispensabile, cioè, esplicare in base a quali criteri e nella ricorrenza di quali presupposti è stato ritenuto necessario disporre l'applicazione della sanzione o anche di più sanzioni - ex art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001, altresì rappresentando le modalità attraverso cui si è pervenuti alla scelta del relativo tipo e della sua durata. L'indicata motivazione è del tutto assente nella sentenza impugnata, che, in maniera assertiva e senza alcuna esplicazione in proposito, si è limitata a disporre l'indiscriminata applicazione di tutte le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001''.

    Una s.r.l. - condannata per illecito amministrativo connesso al reato di lesione personale colposa addebitato al datore di lavoro per l'infortunio occorso a un lavoratore - deduce l'omessa riduzione della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 12, comma 2, lettere a) e b), D.Lgs. n. 231/2001. La Sez. IV precisa, anzitutto, che ``la condizione di cui alla lettera b) del comma 2 dell'art. 12 D.Lgs. n. 231/2001 non è alternativa a quella di cui alla lettera a), dovendo essere entrambe integrate, al fine del riconoscimento dell'attenuante''. A proposito poi della lettera a), osserva che ``la stessa lettera della disposizione chiarisce come la locuzione `efficacemente adoperato' sia riferita solo alla seconda delle condizioni previste, ovverosia l'eliminazione delle conseguenze del reato, e non alla prima, relativa all'integrale risarcimento del danno''. E condivide ``il ragionamento dei giudici del merito, là dove escludono che, nel caso di specie, a fronte di un risarcimento pacificamente non integrale, entrambe le condizioni di cui alla lettera a) si siano verificate''.

    Nel confermare in rapporto all'incidente del Porto di Genova del 7 maggio 2013 la responsabilità della società armatoriale per l'illecito amministrativo connesso al delitto di omicidio colposo commesso dal comandante, la Sez. IV - quanto alla ``erronea determinazione della sanzione irrogata'', dedotta per ``mancata applicazione della riduzione della sanzione quando l'ente ha risarcito integralmente il danno ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso'' - considera ``evidente la pluralità di illeciti conseguente al reato contestato al comandante, riguardante una ipotesi di concorso formale di reati, avuto riguardo alla morte di più persone come conseguenza dell'illecito''. Spiega che, ``in tema di omicidio colposo, la fattispecie disciplinata dall'art. 589, ultimo comma, c.p. (morte di più persone, ovvero morte di una o più persone e lesioni di una o più persone) non costituisce un'autonoma figura di reato complesso, né dà luogo alla previsione di circostanza aggravante rispetto al reato previsto dall'art. 589, comma 1, c.p., ma prevede un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo quoad poenam, con la conseguenza che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione''. Altra notazione relativa all'attenuante di cui all'art. 12, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001 (``La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado: a) l'ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi''). La Sez. IV insegna che ``il sistema punitivo della responsabilità da reato degli enti, per il suo carattere prettamente preventivo, individua sanzioni funzionali soprattutto a prevenire per il futuro la commissione dei reati, attraverso una strutturazione regolativa dell'organizzazione capace di controllare, da sé, se stessa, sicché le disposizioni a ciò funzionali devono essere interpretate con il massimo rigore per poter perseguire la massima efficacia''. Ciò premesso, afferma che, ``ai fini dell'attenuante de qua, è necessaria la diretta consegna alla persona offesa della somma costitutiva del risarcimento del danno prodotto o comunque l'attuazione di condotte che garantiscano la presa materiale della somma da parte del danneggiato senza la necessità di un'ulteriore collaborazione dell'ente ai fini della traditio''. Aggiunge che ``non senza riscontro sono rimaste le allegazioni difensive circa gli sforzi comunque sostenuti dalla società ai fini della riparazione del danno, che hanno trovato riconoscimento ai fini della commisurazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 11 del D.Lgs. n. 231/2001'', e che ``nessun rilievo assumono le ulteriori attività riparatorie proseguite in grado di appello, posto che la norma richiede la valutazione delle condotte intervenute `prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado'''.

    ``L'istituto dell'ammissione alla prova di cui all'art. 168-bis c.p. non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D.Lgs. n. 231/2001''.

    ``Il contrasto di giudicati, cui si riferisce l'art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a), sussiste anche tra l'accertamento contenuto in una sentenza di patteggiamento e quello contenuto in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario, in quanto l'art. 629 c.p.p., come modificato dalla L. 12 giugno 2003, n. 134, prevede espressamente la revisione `delle sentenze emesse ai sensi dell'art. 444, comma 2'. È ovvio che tale procedura possa essere attivata anche nell'ambito della responsabilità amministrativa degli enti, dovendosi estendere ad essi tutte le garanzie previste per il condannato in quanto compatibili (art. 35 D.Lgs. n. 231/2001)''.

    In seguito a sentenza irrevocabile di patteggiamento per l'illecito amministrativo correlato al reato di lesione personale colposa in danno di un lavoratore infortunatosi, una s.r.l. presenta istanza di revisione per la risoluzione del conflitto tra questa sentenza di patteggiamento e la sentenza di assoluzione degli imputati persone fisiche (delegato del datore di lavoro e custode dello stabilimento). Contro il rigetto dell'istanza da parte della Corte d'Appello, la s.r.l. propone ricorso per cassazione. La Sez. IV ritiene ammissibile l'istanza di revisione ``anche nell'ambito della responsabilità amministrativa degli enti, dovendosi estendere agli enti tutte le garanzie previste per il condannato in quanto compatibili'' (art. 35 D.Lgs. n. 231/2001: ``all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili''). Peraltro, dichiara inammissibile il ricorso della s.r.l., in quanto ``il giudizio di revisione non può essere fondato sulla incompatibilità di due giudicati, a meno che non vi sia prova che tale incompatibilità riguardi il fatto storico''. Con riguardo al caso in esame, rileva che ``il fatto storico è rappresentata dalla esistenza di un infortunio occorso sul luogo di lavoro ad un dipendente della s.r.l.'', e che ``nella sentenza di assoluzione non si è negato il fatto (caduta di un portone scorrevole, non correttamente assicurato alle guide, che aveva cagionato lesioni gravi al dipendente sul luogo di lavoro), ma si è escluso che i due imputati rivestissero una posizione di garanzia''. Insegna che ``in caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell'ente ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 per contrasto di giudicato, ove in separato giudizio si sia pervenuti all'assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore'' e ``ciò in quanto, ai sensi dell'art. 8 D.Lgs. n. 231/2001, la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato''.

    ``La sezione II del capo II del D.Lgs. n. 231/2001 (artt. 28 e ss.) disciplina in maniera articolata le vicende trasformative dell'ente, prevedendo espressamente che in caso di trasformazione, fusione e scissione resta ferma la responsabilità per gli illeciti commessi anteriormente alla data della trasformazione (art. 28), sicché l'ente risultante dalla fusione risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione (art. 29), che in caso di scissione resta ferma la responsabilità dell'ente scisso per i reati commessi (art. 30, comma 1), che gli enti beneficiari della scissione, anche solo parziale, sono obbligati in solido al pagamento delle sanzioni dovute dall'ente scisso (art. 30, comma 2) e che in caso di cessione dell'azienda il cessionario rimane solidalmente obbligato (art. 33). Inoltre, nel caso di trasformazione, di fusione o di scissione dell'ente originariamente responsabile, il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti dalle vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo nello stato in cui si trova (art. 42)''. Questa stessa sentenza - nell'occuparsi di un'ipotesi di cancellazione dal registro delle imprese di una società - segna una svolta radicale rispetto alla giurisprudenza del passato. Infatti, nel 2019, la Sez. II affermò che ``l'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente (nella specie cancellazione della società a seguito di chiusura della procedura fallimentare) determina l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ricorrendo un caso assimilabile alla morte dell'imputato'' (così Cass. pen. 7 ottobre 2019, n. 41082). E due anni dopo, in Cass. pen. 27 aprile 2021, n. 25492, la Sez. V sottolineò che ``l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231/2001 consegue all'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente, giacché solo nel primo caso ricorre un caso assimilabile alla morte dell'imputato''. Ora, la Sez. IV accoglie la tesi diametralmente opposta. Condannata per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001 connesso al reato di lesione personale colposa addebitato ai legali rappresentanti di una s.r.l. per l'infortunio occorso a un dipendente, una s.r.l. si duole della ``omessa declaratoria di estinzione dell'illecito in ragione della documentata cancellazione della società dal registro delle imprese''. Ma la Sez. IV è di contrario avviso. Non manca, anzitutto, di sottolineare ``le implicazioni pratiche, agevolmente intuibili, discendenti dalle estrema facilità di cancellazioni `di comodo' dal registro delle imprese, con conseguente irresponsabilità per eventuali illeciti posti in essere nell'interesse o a vantaggio degli enti, e anche dalle difficoltà nell'accertamento `della eventuale responsabilità degli autori della cancellazione `patologica'''. E comunque considera non persuasivo ``il parallelo estinzione dell'ente/morte della persona fisica''. Rileva che ``il silenzio serbato dal legislatore circa le vicende estintive dell'ente non può indurre ad accontentarsi di un accostamento che appare essere solo suggestivo con l'estinzione della persona fisica''. Ne enumera i motivi:

    a) ``in primo luogo, perché, in linea generale, le cause estintive dei reati sono notoriamente un numerus clausus, non estensibile;

    b) poi, perché quando il legislatore della responsabilità delle persone giuridiche ha inteso far riferimento a cause estintive degli illeciti, lo ha fatto espressamente, come all'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 231/2001, allorché ha disciplinato l'amnistia, peraltro modellando la rinunziabilità alla stessa sulla falsariga della disciplina vigente per le persone fisiche, ed all'art. 67 della disciplina in esame, ove ha previsto la adozione di sentenza di non doversi procedere in due soli casi: quando il reato dal quale dipende l'illecito amministrativo dell'ente è prescritto, e quando la sanzione è estinta per prescrizione;

    c) inoltre, perché, essendo pacifico il principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite (Sez. Un. n. 11170/2015), secondo cui `in tema di responsabilità da reato degli enti, il fallimento de//a persona giuridica non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 231/2001', non si comprende la ratio di un diverso trattamento della cancellazione della società, da cui discenderebbe l'estinzione dell'illecito amministrativo contestato all'ente, rispetto al caso di dichiarazione di fallimento, allorché è expressis verbis prevista la esclusione dell'effetto estintivo;

    d) ancora, perché il richiamo che il difforme orientamento interpretativo opera all'art. 35 del D.Lgs. n. 231/2001 trascura che il rinvio operato dal legislatore alle disposizioni processuali relative all'imputato non è indiscriminato ma è solo `in quanto compatibili'''.

    Ciò premesso, la Sez. IV nota come ``l'estinzione della persona giuridica, nelle società di capitali, comporti che la titolarità dell'impresa passi direttamente ai singoli soci, non avendo luogo una divisione in senso tecnico, come si ricava dagli artt. 2493 e 2495, comma 3, c.c., disciplinanti, rispettivamente, la distribuzione ai soci dell'attivo e l'azione esperibile da parte dei creditori nei confronti dei soci''. Precisa che ``lo scioglimento della società, la cui nascita integra un contratto di durata, opera ex nunc: viene meno l'obbligo di esercitare l'impresa in comune ma non vengono meno si noti - i rapporti sorti nell'esercizio dell'impresa anteriormente allo scioglimento'', tanto che ``la liquidazione della società avviene mediante conversione in denaro del patrimonio sociale''. Ritiene, quindi, determinante che ``la cancellazione della società può certamente porre un problema di soddisfacimento del relativo credito, ma non pone un problema di accertamento della responsabilità dell'ente per fatti anteriori alla sua cancellazione, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere destinata a scomparire per effetto della cancellazione dell'ente stesso''. Di qui questo principio di diritto: ``la cancellazione dal registro delle imprese della società alla quale si contesti (nel processo penale che si celebra anche nei confronti di persone fisiche imputate di lesioni colpose con violazione della disciplina antinfortunistica) la violazione dell'art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001, in relazione al reato di cui all'art. 590 c.p., che si assume commesso nell'interesse ed a vantaggio dell'ente, non determina l'estinzione dell'illecito alla stessa addebitato''.

    ``Secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231/2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento''.

    ``In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato, il giudice deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l'applicazione dell'art. 131-bis c.p. non esclude la responsabilità dell'ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica''. (V., altresì, Cass. pen. 15 gennaio 2020 n. 1420; Cass. pen. 15 marzo 2019, n. 11518; Cass. pen. 4 settembre 2018, n. 39914).

    ``Secondo quanto previsto dall'art. 12, comma 1, lett. a) e b), D.Lgs. n. 231/2001, la sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può essere, comunque, superiore ad euro 103,291, nel caso in cui `l'ente non ha ricavato alcun vantaggio da/ reato o ne ha ricavato un vantaggio minimo' e in quello in cui `il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità'''. Nel caso di specie, la Corte di Appello ``ha, però, escluso la ricorrenza di tali condizioni, affermando espressamente che l'ente de quo aveva ricevuto un vantaggio dalla commissione del reato e non riconoscendo affatto la particolare tenuità del danno cagionato alle parti lese. Orbene, a fronte dell'affermata insussistenza delle condizioni in presenza delle quali può farsi luogo alla riduzione al di sotto del minimo edittale della sanzione pecuniaria e dell'effettuata quantificazione del valore di ciascuna quota nell'importo minimo per essa previsto ex lege, appare di palese evidenza la carenza dell'interesse ad impugnare dell'ente, che giammai potrebbe conseguire, per effetto dell'azionata impugnativa, un concreto ed effettivo vantaggio, stante la totale assenza, nella decisione gravata, di elementi cui ancorare la dedotta istanza di riduzione dell'importo delle quote''.

    Ad avviso della Corte d'Appello, nel caso di specie, non potrebbe trovare applicazione la riduzione fissa della sanzione pecuniaria stabilita dal combinato disposto degli artt. 11, comma 3, e 12, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 231/2001, ``sul presupposto che lo studio del percorso pedonale e veicolare e la relativa realizzazione avevano un costo (rispetto al cui ammontare, peraltro, nulla è documentato, salva la generica allegazione del costo di qualche centinaia di euro)''. La Sez. IV rileva che, ``con l'indicata motivazione, la Corte d'Appello ha affermato di non poter ravvisare un'ipotesi in cui l'ente non abbia ricavato alcun vantaggio dal fatto criminoso, ovvero ne abbia ricavato uno solo minimo, rappresentato dal risparmio dell'indicato costo, conseguentemente escludendo l'operatività dell'invocata disposizione normativa di favore''. Nota come, ``in maniera del tutto distonica, oltre che palesemente assertiva non essendo stato esplicato sulla base di quali dati i giudici di appello abbiano ritenuto che il costo di realizzazione della segnaletica dipinta a pavimento non potesse essere ritenuto di esigua entità, la Corte d'Appello abbia successivamente osservato, sia pur riferendosi ad un altro motivo di doglianza, che la realizzazione delle omesse opere richiedesse dei costi `non eccessivi'''. Ne desume ``l'aporia logica e la contraddizione motivazionale insita in tali antitetiche affermazioni, tali da imporre la conseguente necessaria rimeditazione, da parte dello stesso giudice di merito, della effettuata determinazione della sanzione nei riguardi dell'ente''.

    Una s.a.s. datrice di lavoro - condannata per l'illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001 - lamenta l'omessa ``riduzione della sanzione amministrativa Irrogata, trattandosi di una società artigiana a conduzione familiare, con pochi dipendenti, tra i quali compare la stessa proprietà''. La Sez. IV dichiara l'adeguatezza del trattamento sanzionatorio con ``riferimento all'elevatissimo rischio, alla gravità dell'infortunio, all'assenza di un modello organizzativo adeguato e alla mancanza di considerazione, nella valutazione del rischi, dei pericoli sottesi all'utilizzo del macchinario con modalità del tutto imprudenti, con ripari volutamente mancanti''.

    Condannata in primo grado per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, una s.r.l. non propose appello avverso la sentenza, impugnata unicamente dagli imputati. La Sez. IV osserva che l'aver omesso di impugnare la sentenza di primo grado preclude all'ente di proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello: ``Va considerata, al riguardo, l'autonomia della posizione dell'ente da quella della persona fisica autrice del reato presupposto; autonomia che è in primo luogo di carattere sostanziale ma che si riflette sul diritto di impugnazione, riconosciuto autonomamente all'uno e all'altra. A mente dell'art. 71 D.Lgs. n. 231/2001, contro la sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive l'ente può proporre impugnazione nei casi nei modi stabiliti per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. Contro la sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l'ente può sempre proporre appello anche se questo non è ammesso per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. Si coglie qui l'autonomo diritto dell'ente ad impugnare la sentenza che gli applica sanzioni. L'art. 72, dal canto suo, dispone che le impugnazioni proposte dall'imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e dall'ente, giovano, rispettivamente, all'ente e all'imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali. Si tratta di una disposizione analoga a quella recata dall'art. 587 cod. proc. pen. e che sostiene il principio secondo il quale, in caso di condanna dell'imputato nel giudizio di appello che non abbia visto anche l'ente farsi appellante, questo non può proporre ricorso per cassazione, giacché l'art. 72 D.Lgs. n. 231/2001 permette di estendere all'ente non impugnante gli effetti favorevoli conseguiti dall'impugnazione presentata dall'imputato, ma non gli riconosce un autonomo diritto al ricorso per cassazione, con eversione della catena devolutiva''.

    ``Il D.Lgs. n. 231/2001 ha previsto alcune forme di procedura speciali per l'accertamento della responsabilità delle imprese per illeciti amministrativi dipendenti da reato, regolate dagli artt. 34-82 del testo normativo. Risulta, altresì, evocato il principio di sussidiarietà laddove l'art. 34 aggiunge che il rito è regolato anche `secondo le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271', in quanto compatibili e l'art. 35 prevede che all'impresa si applichino anche, con il solito limite della compatibilità in concreto, `le disposizioni processuali relative all'imputato'. La normativa coniuga, dunque, esigenze di effettività dell'accertamento ad esigenze di garanzia del diritto di difesa dell'ente strettamente correlate alla vicinanza dell'illecito amministrativo al fatto-reato, cosicché le norme del codice di procedura devono essere applicate sulla base del duplice presupposto che non vi sia una norma speciale che disciplini l'atto e che vi sia compatibilità tra le norme speciali e le norme del codice di procedura penale. Con specifico riguardo alla difesa tecnica, l'art. 40 prevede che l'ente che non ha nominato un difensore di fiducia o ne è rimasto privo è assistito da un difensore di ufficio, mentre con riguardo alla fase che precede la contestazione dell'illecito (art. 59), la legge speciale prevede che l'informazione di garanzia inviata all'ente contenga l'invito a dichiarare ovvero eleggere domicilio per le notificazioni nonché l'avvertimento che per partecipare al procedimento deve depositare la dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2 (art. 57). Sul dubbio interpretativo concernente la nozione di `partecipazione' in relazione alla fase delle indagini preliminari, è intervenuta la pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite al fine di dirimere la questione se in tale fase l'ente goda del diritto di fruire della assistenza difensiva (ivi comprese le facoltà che il codice riconosce al difensore) indipendentemente dall'atto formale di costituzione posto in essere a norma dell'art. 39. La Corte di legittimità, nel suo massimo consesso, ha ritenuto di enucleare dal citato art. 57 il principio secondo il quale dalla scansione procedimentale segnata dall'invio dell'informazione di garanzia all'ente, che contiene, tra l'altro, l'avvertimento che, per partecipare al procedimento, deve depositare la dichiarazione di cui all'art. 39, comma 2, l'urgenza della reazione difensiva non può prevalere sulla disciplina speciale dettata da quest'ultima disposizione (Sez. Un. n. 33041/2015). Da tale momento, dunque, opera la disciplina speciale dettata in tema di responsabilità degli enti, che impone la formalizzazione della rappresentanza dell'ente sin dalle prime fasi del procedimento. Nel caso concreto, non potendo dubitarsi del fatto che l'ente disponesse di un termine per gli adempimenti di cui all'art. 39 e per l'espletamento dei diritti difensivi connessi alla notificazione dell'avviso previsto dall'art. 415-bis c.p.p., la decisione operata nelle fasi di merito, in cui si è richiamata l'avvenuta comunicazione dell'informazione di garanzia all'ente, risulta corretta''. (Circa la legittimazione a ricevere la notificazione degli atti indirizzati alla società v. Cass. 6 maggio 2021, n. 17556).

    ``Nel giudizio di appello il mancato rispetto del termine a comparire di venti giorni stabilito dall'art. 601, comma 3, c.p.p. integra una nullità. Tale principio vale anche con riferimento all'ente sottoposto a procedimento per responsabilità amministrativa, considerato che, ai sensi degli artt. 34 e 35 D.Lgs. n. 231/2001, per tale procedimento si osservano le norme del codice di procedura penale in quanto compatibili. Secondo l'orientamento prevalente, tale nullità è di ordine generale, in quanto relativa all'intervento dell'imputato, e deve essere rilevata o dedotta entro i termini di cui all'art 180 c.p.p., e, cioè, prima della deliberazione della sentenza di secondo grado Secondo altro minoritario orientamento, tale nullità è, invece, relativa, e, dunque, sanata se non eccepita nei termini di cui all'art. 181, comma 3, c.p.p., e, precisamente, subito dopo l'accertamento della costituzione delle parti. Nel caso di specie, dall'esame degli atti, emerge che la notifica del decreto di citazione in appello alla società era stata effettuata senza il rispetto del termine di venti giorni. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti della s.p.a., relativamente all'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, con trasmissione degli atti alla Corte d'Appello, per nuovo giudizio''.

    Nel far seguito alla legge n. 179/2017, il D.Lgs. n. 24/2023 ha inserito l'istituto del whistleblowing nel quadro del D.Lgs. n. 231/2001. In forza dell'attuale art. 6, comma 2-bis, D.Lgs. n. 231/2001, ``i modelli di cui al comma 1, lettera a), prevedono, ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2019, i canali di segnalazione interna, il divieto di ritorsione e il sistema disciplinare, adottato ai sensi del comma 2, lettera e)''. E ``i modelli di cui al comma 1, lettera a)'' sono ``modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi''. Dove palese è il riferimento onnicomprensivo ai reati sottoposti a responsabilità amministrativa, e, dunque, anche ai reati di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001. Una disciplina che peraltro - come chiarisce Cass. 26 luglio 2018, n. 35792 - ``non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge''. (In argomento v. anche Cass. 27 febbraio 2018, n. 9047; e TAR Campania, Sez. VI, 23 maggio 2018, 8 giugno 2018, n. 3880).

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